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Cap. IV
(3a Parte)

Questa pagina riproduce una parte di
Aquila

pubblicato nella Serie "Italia artistica"
Bergamo, 1929

Il testo è nel pubblico dominio.

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e la credo senza errori.
Ciò nonostante, se vi trovate un errore,
vi prego di farmelo sapere!

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 p139  V. — L'arte moderna

L'arte moderna ha nell'Aquila un rappresentante considerevole, che prolunga la sua secolare tradizione artistica: Teofilo Patini (Casteldisangro 1840 – Napoli 1906). Accanto all'opera sua si può soltanto ricordare la statua di Sallustio che sorge in Piazza Palazzo, modellata da Cesare Zocchi (1903), certo con nobiltà e larghezza, con l'intento di fermare il raccoglimento interiore di chi va assorto nei proprî pensieri, seguendo una sua visione; ma senza suscitare un vivo vibrante interessamento, pur senza offrire il destro a rilievi notevoli.


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Palazzo Provinciale — Bestie da soma, di T. Patini

(Fot. Carli)

Ben diversamente si presenta la manifestazione artistica del Patini. Comunque la si voglia giudicare, certo è di quelle che fermano e fan meditare. Poichè il Patini e veramente di quegli artefici che segnano un momento storico. Accesosi in sui giovani anni della gesta garibaldina, compiuti a Napoli e a Roma gli studî quando ebbe varcata la grigia ora in cui ogni neofita segue inconscio le direttive già segnate, si foggiò una personalità singolare temprata nella appassionata indagine dei recessi più segreti dell'anima, nell'assimilazione delle più recondite angoscie umane. La cecità che per sette anni lo piegò su sè stesso dovè intensificare il sommovimento che ferveva in lui.

Così da pittore di storia e di genere, affinato nell'osservazione delle cose esterne, (Lo studio di Salvator Rosa, Ogni buon stivale diventa ciabatta, La lezione di equitazione), si ritrovò pittore sociale.

Il Patini è l'assertore possente dell'arte cosiddetta sociale, intesa — per dichiararla con parole sue — come quella che "pure rivolgendosi ai sensi, non si arresta sulla soglia, ma sottile, acuta, penetrante, va sino in fondo al cuore umano, se ne  p140 impossessa, lo rende palpitante e convulso". Appunto codesto substrato psicologico fa sì che nelle opere sue non lingueggino livide fiamme d'odio, come in quelle di altri artisti e scrittori che le medesime tendenze esternarono. Anche gli scatti d'ira, qua e là lampeggianti, son velati da una accorata tristezza, da un vibrante afflato d'amore. Il Patini, insomma, sentendosi il cuore gonfio di tenerezza per gli umili ed i reietti, e non potendo elargir loro il soccorso materiale, ne accoglie ed esprime l'intimo strazio, avvolgendolo nel balsamo della parola vivificatrice, nella sua avvolgente simpatia umana. Tutte le lettere e tutte l'attività di uomo e di artista ne proclamano, infatti, la profonda bontà dell'animo. L'atteggiamento da lui assunto era connaturato alle virtù più salde e segrete del suo spirito; e quindi egli non ebbe necessità di accattarlo da alcuno, nè di alimentarlo con basse cupidigie di nomea e di guadagno. Certo, attraverso il neoclassicismo e l'arte decorativa del '700, esso si ricollega inconsciamente alla violenta reazione naturalistica determinatasi sullo scorcio del secolo XVI e in parte del XVII, trovando così, come tanti altri indirizzi dell'arte moderna, la sua radice in quel vasto ribollimento che successe alla Rinascita. Il Caravaggio, il Velasquez, il Rembrandt, il Callot, il Breughel seniore . . . dimostrarono all'umanità che l'arte non si alimenta soltanto di bellezza e di poesia, ma anche di miseria e di pianto. Se non che essi si limitarono a fornire la visione oggettiva, non palpitante di commozione sentimentale. È circa a partire dal 1830, col divampare delle rivoluzioni, che la letteratura e poi l'arte si tendono ad ascoltare i gemiti echeggianti nell'ombra. Il grandissimo Goya prima di tutti, Giuseppe Danhauser (che nel 1836 presentò I ghiottoni), il Meissonnier (Barricata, 1851), il Millet e altri asserirono questo orientamento, ma con movenza e colorito romantico, che nel Millet è addirittura glorificazione della vita libera e forte dei campi. Fu soltanto col Patini che il romanticismo venne applicato alla vita presente e appuntato verso un acuto studio della realtà sociale, verso una profonda sincerità espressiva. Ponte di passaggio la pittura di genere, che colloca spesso l'azione in miseri ambienti e la fa svolgere come una vicenda puramente umana.

Nel 1881 comparve a Milano L'Erede, ora nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. Se anche non fosse noto che il Patini aveva da tempo dipinto questo quadro, la priorità del Proximus tuus del D'Orsi (Torino, 1880) verrebbe esclusa egualmente, solo al considerare che un'opera fortemente concepita, sentita e dipinta, qual'è L'Erede, non può attuarsi se non al culmine di una tensione spirituale. Il D'Orsi ha sorpreso un motivo dolorante di vita nel suo contadino affranto sulla zolla e lo ha fatto ascendere ad artistica significazione. Nell'Erede, come in tutte le schiette espressioni dell'arte, la vitalità lampeggia in aspetti molteplici dagli abissi arcani del dramma che man mano irradia la complessa terribilità. È l'aspra fatica della gleba che ha prostrata quella rozza ma possente massa umana. È tutta la fragilità e l'angoscia della donna rimasta sola nell'infinito universo che freme nelle lacrime e nell'accasciamento della vedova. È la bieca ironia del Destino che folleggia nella spensieratezza del bimbo, erede di tutte le miserie e di tutti i dolori mortali. Il Patini ha condensato nella breve cornice l'essenza ideale di un dramma che scoppia ovunque l'occhio indugi, estrinsecandolo in un magistero tecnico, che, se non esprimeva le trepide ricerche contemporanee, era, d'altra parte, intimamente rispondente al soggetto, sobrio, solido, noncurante di vellicamenti e di audacie.

Mai egli ritrovò a pieno, nell'operosità successiva, tale pienezza. La cupa tragedia umana fu sempre intesa da lui con sincerità profonda e singolare efficacia; ma spesso venne plasmata quando sembrava — e non era — perfettamente, organicamente vissuta, divenne finalità unica, attutendo il sentimento della forma così sensibilmente da rompere l'equilibrio che crea le opere eterne. Questo già s'intravede in Vanga e Latte (esposto a Torino nel 1884: ora nella Galleria d'Arte Moderna di Roma, ove è un terzo dipinto del Patini, Pancia e Cuore), in cui pertanto la tristezza squallida del paese intensifica la melanconia di quella esistenza stagnante in un cerchio di povertà e sofferenze oltre il quale non è speranza.

 p141  Nelle opere, pur importanti, che all'Aquila evocano il suo nome, codesto carattere si accentua. In Bestie da soma (firmato e datato 1886, esposto a Venezia nell'87, ora nell'Aula del Consiglio Provinciale) se ci interessa e commuove la bellezza delle figure, anche nel duro taglio delle membra, e lo sfinimento della donna abbandonata a terra discinta, e l'abbattimento che grava quella appoggiata al masso, e la melanconia senza baleni della fanciulla, e l'arsura del brullo paese; ci lascia insoddisfatti la scarsità dell'aria, la deficienza della prospettiva aerea, il disdegno non già di lenocinî formali ma delle più parche eleganze della linea, del colore, dell'ambiente. E analoghe manchevolezze ci conturbano in Pulsazioni e palpitiIl Medico di campagna (Aula del Consiglio Provinciale), in cui tuttavia è tanta varietà e intensità di espressioni, così viva energia di caratteri, specie quello del medico, un tipo delineato e animato con sicuro intuito.


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Palazzo Provinciale — Pulsazioni e palpiti, di T. Patini

(Fot. Carli)

Nè questa inclinazione a trasandar tutto ciò che, esageratamente, sembrava al Patini dover distrarre il raccoglimento dell'idea raggiante nel vivo cuore delle sue opere, si attenua quando egli prende a trattare soggetti decorativi o altri in cui, pur essendo protagonista il dolore, questo non s'immedesima in modo da sprizzare acuito e quasi spasmodico. Ne l'Aquila (Aula Magna del R. Liceo, 1884) il senso decorativo è grandioso: rupi a picco invase da nubi temporalesche, e l'aquila con aperte penne fulminee al volo e gli artigli presti alla preda sicura, sì che il pastore geme sgomento e il gregge si sbanda con alti belati. Ma la tonalità troppo grigia e il crudo segno che caratterizza gli animali sottraggono alquanto alla pienezza del godimento. Nel S. Carlo in Duomo (crociera a sinistra) — dipinto nel 1888 come Pulsazioni e palpiti — l'impostazione scenica è chiara ed efficace, v'ha un che di solenne nella sacra processione, come nella rassegnazione e nella morte diffusa intorno, qualche tipo ha espressione e carattere; ma dispiace il tono grigio dominante, la composizione slegata, la tecnica arcaica, e, quel che è più, l'assimilazione incompleta della materia drammatica che costringe questo artista dalla sensibilità ardente alla ricerca di effetti scenografici e a lasciare talune figure prive di uno spiccato accento di vita interiore. Analoghe considerazioni suggerisce il S. Antonio di Padova nella chiesa del Suffragio.  p142 Queste ed altre opere palesano una crisi nell'anima del Patini, dalla quale egli era forse sul punto di francarsi quando la Morte recise il tenue filo della sua esistenza. Come ritemprato, aveva alacremente raccolte tutte le sue energie latenti per glorificare nell'Aula Magna della nuova Università napoletana l'ascensione del pensiero verso l'ideale umano. Con amaro rimpianto dovè assistere al dileguare del bel sogno; con rammarico, chi ne apprezza l'alta virtù, lo pensa composto nella quiete eterna mentre a nuove conquiste affissava il fervido spirito.


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Liceo — L'Aquila, di T. Patini

(Fot. Carli)


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