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R. S. Angelo
Questa pagina Web riproduce una parte di
Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX

di Mariano Armellini

pubblicato dalla Tipografia Vaticana
1891

Il testo è nel pubblico dominio.

avanti:

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R. Trastevere

 p577  XII. RIONE RIPA

S. Prisca

In quella parte dell'Aventino che è rivolta ad oriente, sorge una chiesa antichissima, ove si vuole fossero stato un tempio di Ercole. Narrano favolosamente le antiche leggende che quivi fosse una grotta di Fauno e di Pico con una fonte in cui Numa pose del vino per inebriarli, con altre simili assurdità. Ricordo ciò perchè s'intendano questi versi, che leggonsi nella chiesa a mano sinistra dell'altar maggiore, postivi da Callisto III:

PRIMA VBI AD EVANDRO SACRATA EST HERCVLIS ARA

VRBIS ROMANAE PRIMA SVPERSTITIO

POST VBI STRVCTA AEDES LONGE CELEBRATA DIANAE,

MONTIS AVENTINI NVNC FACTA EST GLORIA MAIOR,

VNIVS VERI RELIGIONE DEI.

PRAECIPVE OB PRISCAE QVOD CERNIS NOBILE TEMPLVM,

QVOD PRISCVM MERITO PARETE SIBI NOMEN HABET

NAM PETRVS ID DOCVIT POPVLVS DVM SAEPE DOCERET,

DVM FACERET MAGNO SACRAQVE SAEPE DEO.

DVM QVOS FAVNORVM FONTIS DECEPERAT ERROR

HIC MELIVS SACRA PVRIFICARET AQVA.

QVOD DEMVM MVLTISSTESSE SE VOLVENTIBVS ANNIS

CORRVIT HAVD VLLA SVBVENIENTE MANV.

SVMMVS AT ANTISTES CALLISTVS TERTIVS IPSVM

EXTVLI OMNE EIVS RESTITVITQVE DECVS

CVI SIMVL AETERNAE TRIBVIT DONA AMPLA SALVTIS,

IPSIVS NE QVA PARTE CARERET OPE.

Secondo questo epigramma, s. Pietro, mentre fu in Roma, avrebbe abitato quel questo luogo e vi avrebbe battezzati molti che venivano alla fede. Nel catalogo di Pietro Natale si dice che papa Eutichiano, per rivelazione, seppe il luogo ove era sepolto il corpo di s. Prisca, e trovatolo e levatolo di colà, quel pontefice lo portò a Roma, ponendolo nel luogo ove oggi è la sua chiesa, prima dedicata a s. aquila; onde fu detto titolo di Aquila e Prisca. Egli è certo che questo titolo antichissimo vien  p578 ricordato fino dal secondo concilio romano tenuto da Simmaco, che fu nel 499. Adriano I ristorò la detta chiesa nel 772, e poi Callisto III circa il 1455. Il cardinale Benedetto Giustiniani genovese, verso il 1600, la riparò coi disegni di Carlo Lombardo di Arezzo; vi aggiunse la facciata, e fecevi altri miglioramenti, fra i quali fu il rinnovellamento della confessione e dell'altare sotterraneo, che si dice consacrato da s. Pietro. Finalmente Clemente XII la ridusse nello stato in cui trovasi, a memoria di che leggesi una iscrizione posta nella parete a destra presso la porta dal lato interno.

Anticamente la chiesa ebbe due ingressi, ma ai tempi dell'Ugonio già non ne aveva che uno solo. Essa è divisa in tre navi con quattordici colonne antiche, le quali, a renderle più salde, furono incassate nel muro di altrettanti pilastri. I muri furono dipinti a fresco dal Fontebuono: il quadro dell'altare principale è del Passignani, e rappresenta il battesimo della santa titolare. A sinistra dell'altare suddetto sono i versi di Callisto III, recati sopra; a destra v'è una iscrizione riguardante il nominato cardinal Giustiniani. Le due cappellette in fondo alle navate minori sono dedicate: quella a sinistra, a s. Antonio di Padova; quella a destra, alla Madonna. I due altari nella crocera sono dedicati: uno al Crocefisso, a mano manca; ed uno a s. Gio. Gualberto, a mano dritta. In mezzo alla navata grande è un'ampia inferriata che illumina a sufficienza la sottoposta confessione, alla quale si scende per una comoda e doppia scala circondata da balaustrate. In essa è un quadro di musaico rappresentante s. Pietro, opera del secolo XIII, guasto però assai nella parte inferiore; incontro all'altare è il vaso che erroneamente si pretende servisse di battisterio a s. Pietro, quando battezzò le sante Aquila e Priscilla, ed altri pagani venuti alla fede. Il vaso consiste in un gran capitello dorico, assai ben lavorato, del tempo forse degli Antonini, e molto simile a quello del portico del museo capitolino; ha tre buche, una maggiore e due minori, con attorno l'epigrafe in lettere del secolo XIII, con abbreviature: BAPTISMVS SANCTI PETRI.

Presso la chiesa v'era una vigna della celebre famiglia dei Porcari, come risulta da un documento dell'archivio di s. Pietro in Vincoli del 1477: Vinea posita prope ecclesiam sanctae Priscae eundo ad s. Alexium, quam tenet Antonius Porcharius qui habitat prope Minervam.

È assai probabile che quell'antichissimo titolo fosse stato già la casa dei coniugi Aquila e Prisca sull'Aventino, ove era la ecclesia domestica di che parla s. Paolo, e che furono cacciati da Roma per l'editto di Claudio contro gli ebrei.

 p579  Nel secolo XIV si leggeva ancora sull'architrave della porta della chiesa la seguente iscrizione, che Pietro Sabino, autore di quel medesimo secolo, vide incisa litteris antiquis:

HAEC DOMVS EST AQVILAE SEV PRISCAE VIRGINIS ALMAE
. QVOS . LVPE (?) PAVLE TVO ORE VEHIS DOMINO
HIC PETRE DIVINI TRIBVERAS FERCVLA VERBI
SAEPIVS HOCCE LOCO SACRIFICANS DOMINO.

L'epigramma, come risulta dallo stile, è del medio evo. Anche in un documento del secolo XII la chiesa di s. Prisca, divenuta bazia, è appellata abbatia sanctorum Priscae et Aquilae. Il ch. De Rossi, a questo proposito, cita un sermone de sanctis Aquila et Prisca esistente nel codice vaticano 1193, ove si fa menzione della loro chiesa sull'Aventino; la quale negli atti di s. Prisca vergine e martire è altresì chiamata Aquilae et Priscae; finalmente nella vita di Leone III l'antico titolo di s. risca è appellato titulus beatorum Aquilae et Priscae. Insomma dall'antica denominazione di quel titolo risulta che fino dai primi secoli della pace della Chiesa era creduto il sito ove dimorò e s'adunò la domestica ecclesia dei primi convertiti all'evangelo, presieduta spesso da Paolo e da Pietro.

Un insigne bronzo, edito ed illustrato splendidamente dal ch. De Rossi, ha portato nuova luce sull'origine apostolica di quel titolo e sulla tradizione che fosse veramente la Domus Priscae.

Nel 1776, sotto il pontificato di Pio VI, presso la chiesa fu scoperta un'antica casa romana con dipinti ed altri monumenti cristiani e in questa si rinvenne il seguente diploma in bronzo, offerto da una città della Spagna nell'anno 222 a Caio Mario Pudente Corneliano, personaggio senatorio che quella città elesse suo patrono:

IMP . CAES . M . AVR . SEVERO . ALEXANDRO
COS . EIDIB APRILIBVS
CONCILIVM . CONVENTVS . CLVNIENS
C . MARIVM . PVDENTEM . CORNELIA
NVM . LEG . LEG . C . V . PATRONVM
SIBI . LIBERIS . POSTERISQVE SVIS
COOPTAVIT . OB . MVLTA . ET . EGREGIA
EIVS . IN . SINGVLOS . VNIVERSOS
QVE . MERITA . PER . LEGATVM
VAL . MARCELLVM
CLVNIENSEM

 p580  Cotesti decreti, costruiti quali città importanti si ponevano a titolo d'onore sotto il patronato di personaggi ufficiali dell'impero, erano affissi negli atrî delle case illustri, come stemmi ed emblemi d'onore. Ora, come dichiara il De Rossi, il nome del predetto senatore lo mostre chiamato dapprima Cornelio Pudente e poi per adozione Mario Pudente Corneliano: il che è un grave indizio circa la veracità dei rapporti che la casa di Pudente ebbe con Pietro.

Ecco dunque, che presso la casa di Aquila e Prisca, la quale ebbe strette relazioni con l'altra celeberrima di Pudente, titulus Pudentis, si trova un monumento d'un discendente dei Corneli Pudenti. Ma la scoperta, prosegue il De Rossi, fatta sotto Pio VI a s. Prisca non finisce nell'insigne bronzo di Pudente Corneliano, cimelio preziosissimo che si custodisce nel museo cristiano della biblioteca vaticana. Egli ha trovato nel codice latino 9697 della biblioteca imperiale di Parigi, fra le carte del celebre Ennio Quirino Visconti, commissario delle antichità sotto il predetto pontefice, una notizia d'una scoperta che era avvenuta da poco presso s. Prisca.

Da quella risulta che ivi, poco tempo prima, era stato rinvenuto un antico oratorio adorno di pitture cristiane del secolo quarto quasi cancellate dal tempo, eccetto le imagini degli apostoli. Questo complesso d'indizî armonizza perfettamente colle tradizioni locali, le quali accennano in quel punto ad un centro della predicazione apostolica in Roma e trovano poi il confronto nelle memoria esistenti d'un antichissimo cimitero cristiano, cioè quello di Priscilla sulla via Salaria, dove si trovano i nomi dei personaggi ricordati da s. Paolo nelle sue lettere, e che, con la ecclesia domestica di Aquila sull'Aventino, e di Pudente sul Viminale, ebbero rapporti.

Quell'oratorio era nell'orto contiguo alla chiesa, e sembra anche avesse fatto parte della casa abitata da quel Pudente Corneliano. Fra quei ruderi si scoprì anche un vaso di vetro sulla cui circonferenza erano effigiate ad incavo le imagini degli apostoli, sopra le cui teste era scritto il loro nome. Il De Rossi ne ha trovato notizia nel Bianchini. Quell'arnese doveva spettare alle suppellettili sacre e domestiche dei discendenti di Pudente Corneliano. Sembra impossibile che di quella scoperta e del luogo così celebre per la storia delle origini apostoliche del cristianesimo in Roma, niun conto si facesse, e dopo alcun tempo si distruggessero e si abbandonassero, giacchè ivi si rinvennero  p581 pure frammenti di musaici rappresentanti pesci di ogni specie, che traspaiono dentro l'acqua, noto simbolo di Cristo e della rigenerazione dei fedeli nella grazia sacramentale, i quali davano nuovo suggello alla tradizione antichissima che ivi l'apostolo Pietro avesse battezzato.

Nel secolo VIII, nell'annesso monastero abitarono monaci greci; da questi, nel 1062, passò ai Benedettini, che lasciatolo per qualche tempo, vi tornarono sotto Innocenzo III e vi dimorarono sino al 1414. Finalmente la chiesa fu offerta ai Francescani, che la ricusarono per cagione della malvagità ed insalubrità dell'aria; quindi venne argento Agostiniani.

S. Sabina

Questa insigne chiesa può dirsi, dopo l'antichissima di s. Prisca, la più celebre dell'Aventino.

La fronte principale dell'edificio rimane nascosta e addossata all'antico chiostro annesso; sorgeva sul margine di un'antica via che metteva alle radici del colle sulla riva del fiume a alla porta Trigemina. Le sue origini risalgono ai primi decennî del secolo quinto, e di quell'epoca restano ancora insigni monumenti.

Venne innalzata adunque sotto il pontificato di Celestino I, circa l'anno 425, e fu compiuta sotto Sisto III otto anni dopo, cioè nel 432. Fu restaurata da Leone III (795‑816), e da Gregorio II (824‑27). Della fondazione della chiesa resta ancora sulla parete di fondo della medesima la monumentale epigrafe scritta in musaico, che ricorda il nome di un prete titolare, di nome Pietro e di nazione schiavone, che fu il generoso fondatore della chiesa suddetta:

CVLMEN APOSTOLICVM CVM COELESTINVS HABERET
PRIMUS ET IN TOTO FVLGERET EPISCOPVS ORBE
HAEC QVAE MIRARIS FVNDAVIT PRESBYTER VRBIS
ILLYRICA DE GENTE PETRVS VIR NOMINE TANTO
DIGNVS AD EXORTV CHRISTI​a NVTRITVS IN AVLA
PAVPERIBVS LOCVPLES SIBI PAVPER QVI BONA VITAE
PRAESENTIS FVGIENS MERVIT SPERARE FVTVRAM

Apprendiamo da quest'epigramma che Pietro illirico impiegò le sue ricchezze a costruire ed ornare quella basilica, essendo papa Celestino. Questo Pietro era morto quando fu  p582 posto quell'epigramma, come lo attesta l'elogio, nel quale si parla di lui come di chi ha meritato la vita eterna:

.     .     .     .     .     QVI BONA VITAE
PRAESENTIS FVGIENS MERVIT SPERARE FVTVRAM

Alle due estremità di questo carme scritto in musaico sono rappresentate due nobili e dignitose donne vestite di stola matronale, reggenti un libro aperto: sulla prima il Ciampini vide l'imagine di Pietro, cui la mano divina porgeva il libro della legge; sopra la seconda era Paolo in atto di predicare.

Esse personificano: l'una, la Chiesa uscita dalla Sinagoga; l'altra, la Chiesa uscita dalle Genti. Sotto l'una si legge l'epigrafe: ECCLESIA EX CIRCVMCISIONE, e sotto l'altra: ECCLESIA EX GENTIBVS.

Nel sommo della parete sotto il tetto vi erano i simboli degli evangelisti, ma tutto ciò è perduto. Le pareti della basilica erano ricoperte di opusº sectile marmoreum, ciò di commesso di musaici e marmi. Nel 1683 ancora se ne vedeano gli avanzi, compresi quelli dell'arco della tribuna.

Gli ultimi danni a questa chiesa furono fatti in età vicina alla nostra. A questo proposito, in un documento del principio del secolo, cioè del 14 novembre 1803, intitolato Pro memoria per S. E. R. il sig. card. segr. di Stato, leggo quanto segue:

"Arriva a notizia del Commissario delle antichità che il p. Vicario Generale dei Domenicani abbia venduto allo scarpellino Blasi dimorante incontro alla Consolazione, le tavole grandi e grosse di porfido che formano l'altar maggiore in s. Sabina, e di più una gran tavola simile con iscrizione spettante ad una famiglia particolare posta in terra nel mezzo della chiesa avanti al detto altare, e che a momenti stiano per portarle via, seppure già non hanno cominciato.

"Il commissario delle antichità ne previene subito L'E. V. affinchè ecc."

Il lavoro che a Sisto III può appartenere si è il musaico dell'arco maggiore e quello della parete a ridosso della porta d'ingresso, esprimente un portico con quattro archi fregiati di stelle, e nei petti loro due delle proto­me dei quattro animali evangelici: rimane tuttavia a sinistra la man celeste sporgente dalle nuvole con un libro, che è certamente quello degli Evangeli.

La mano col libro è la prima ed unica volta che si vede figurata indipendentemente, per significare l'origine divina degli  p583 Evangeli, come già l'antica legge data a Mosè sull'Orb. I due apostoli, che sembrano qui stare fuori di luogo, possono essere stati messi a disegno sui pilastri, come due colonne della chiesa: essi difatti sono atteggiati in modo da predicare il Vangelo. Il musaico dell'arco maggiore oggi manca, e vi può supplire un disegno dato alla stampa dal Ciampini, dove figurano sedici busti dipinti: nel centro della volta è Cristo, indi a destra e a sinistra gli apostoli, probabilmente coi due discepoli Marco e Luca. Il Signore, come tutti gli altri, è barbato e cinge il nimbo ombreggiato dalla croce. Non ci è noto chi abbia dato compimento ai musaici di s. Sabina, apponendovi l'epigrafe che tuttavia si legge colle iscrizioni delle due chiese, e della quale già parlammo. Un altro insigne monumento della basilica sono le sue porte lignee ornate di bassirilievi ritraenti molte scene del vecchio e nuovo testamento, non esclusa quella della Crocifissione. Quelle porte, l'unico monumento di tal genere esistente in Roma che appartenga all'arte cristiana primitiva, sono contemporanee all'edificazione della basilica.

Il Libro pontificale narra in Sisto III che il privilegio che avea la basilica vaticana, oltre la lateranense, di possedere unaº fonte battesimale, fu dal papa esteso anche alla nostra di s. Sabina; fecit etiam in ecclesia s. Sabinae fontem ad baptisterium. Presso questa chiesa medesima, nella annessa abitazione, il papa Silverio si rinchiuse allorchè fu calunniato e minacciato da Belisario durante la guerra gotica. Più tardi s. Gregorio il Grande, durante la famosa pestilenza che afflisse la città di Roma, vi convocò i fedeli e vi costituì la celebre litania detta settiforme.

Il gran papa Onorio III l'anno 1216 trasformò e fortificò l'antica dimora pontificia, circondandola di alte torri e grandiose mura merlate, delle quali ancora restano sull'Aventino grandiosi avanzi, e vi fece residenza; quivi confermò l'ordine di s. Domenico, al quale poi concedette quella chiesa coll'annesso convento e fortilizio. Anche Onorio IV vi dimorò e, lui morto, qui, per l'elezione del successore si raccolse il conclave che fu, per la durata e la circostanza, straordinario; perchè, entrati i cardinali nel conclave il venerdì santo, vi rimasero fino alla festa della cattedra di s. Pietro ai 18 gennaio dell'anno seguente; ma, colpiti dalla malaria, caddero alla fine tutti infermi, cosicchè furono obbligati a ritirarsi di là, rimanendovi un solo cardinale. L'inverno, però, ritornarono di nuovo nel luogo medesimo, ed ivi elessero alla fine il papa Niccolò IV.

Ma sopratutto ha illustrato questa chiesa ed il vicino monastero il patriarca s. Domenico, che vi dimorò lungo tempo  p584 e vi operò fatti prodigiosi. È a ricordare infatti che s. Domenico, giunto a Roma, prese stanza sulla via Appia presso l'antico titolo di Tigride, poi s. Sisto, dove pure resta in piedi un'ala di quel monastero, ridotto oggi sventuratamente ad uso profano. Ivi dimorò, finchè Onorio III gli concesse una parte del suo pontificio palazzo sull'Aventino, onde con più agio potesse attendere al santo suo mandato ed a quello speciale ordinatogli dal papa di ritornar alla prima disciplina decaduta i monasteri femminili di Roma, specialmente quelli di s. Maria in Trastevere e l'altro delle monache côrse presso s. Sisto.

Eugenio III e Gregorio IX restaurarono nobilmente la nostra basilica, e s. Gregorio Magno non solo vi stabilì la celeberrima processione (litania), ma la elesse per la stazione del primo giorno di quaresima; onde il papa vi soleva in questo giorno intervenire, presiedere alla funzione e parlare al popolo, dopo che era stata fatta la colletta alla chiesa di s. Anastasio.

La chiesa ha due ingressi: l'uno, laterale, preceduto da un portichetto, che era sostenuto da quelle preziose colonne di verde antico che si ammirano oggi nel museo Chiaramonti; l'altro, nel prospetto della chiesa, dove si ammirano le celebri porte di che parlammo, rinchiuso dentro il monastero. L'interno è diviso in tre navi e le pareti della nave di mezzo, sulla trabeazione, presentano ornamenti di porfidi e serpentini di uno speciale lavoro di commesso, del quale erano tutte quelle pareti anticamente adorne. La nave di mezzo è sostenuta da ventiquattro colonne di marmo pario con basi e capitelli corinzî. Dai muri della chiesa sono spesso venuti in luce mattoni della fornace cristiana del secolo IV, della nota fabbrica claudiana col nome di Cristo. La tribuna, dopo che il musaico venne distrutto, fu messa a colori dagli scolari dello Zuccari. L'altare e il presbiterio erano, fino al secolo XVII, cinti con tavole di marmo, sopra le quali erano sei colonne che sosteneano un fregio albo di pietra, et avanti i gradi onde si sale all'altare papale vi era un cancellato di metallo con lettere che dicono EVGENIVS PAPA SECVNDVS, le quali cose dando impedimento alla cappella papale sono state levate ora.

Nel pavimento della nave di mezzo v'ha un musaico rappresentante frate Munio da Zamora, ottavo generale dell'ordine dei predicatori, morto nel 1300 sotto il pontificato di Bonifacio VIII. Il vestibolo del portico principale era ornato di otto colonne, quattro di marmo frigio e quattro di granito, ed ivi  p585 erano tre porte che mettevano alle tre navi della chiesa: non resta adesso che la porta maggiore, i cui stipiti sono anche adorni di mirabili lavori. Annesso alla chiesa è il convento, ove si ammira l'antico chiostro sorretto ed ornato da centotre colonnine, e dove restano ancora le memorie di s. Domenico, cioè la camera nella quale egli ebbe dimora, che Clemente IX, con architettura del Borromini, e forse con poco felice idea, trasformò in cappella.

Nel monastero v'era una insigne biblioteca, che in un incendio andò distrutta.

Nel pavimento si leggevano molte iscrizioni sepolcrali dei secoli XIIIXIV; il Martinelli cita le seguenti:

ANNO DOM. MCCCXIII DIE XXII IANVARII HIC REQVIESCIT
SANC. MEM. DOMINA STEPHANIA DE INSVLA GENERALIS
HOSPITA ORDINIS PREDICATORVM AN. XLIII
REQ. IN PACE

presso alla quale si leggeva:

† ANNO DOM. MCCCXIII DIE XVII MENSIS IVNII OBIIT
NOBILIS ARMIGER GOXO DE HVSBERCEN
DE TEVTONIA CVIVS ANIMA REQ. IN PACE AMEN

Il codice di Torino annovera la nostra chiesa nella seconda partita e scrive: Ecclesia sancte Sabine titulus presbyteri cardinalis habet fratres predicatores XXX. Nella festa dei turiboli le competevano due soldi di presbiterio.

Ss. Alessio e Bonifacio

Qualunque sia il valore storico della leggenda romana d'Eufemiano e d'Alessio, giacchè v'ha anche una leggenda orientale simile, egli è certo che la tradizione vuole antichissima questa chiesa dell'Aventino, la cui origine risalirebbe argento esordî del quarto secolo.

Il culto e il nome però di Alessio, benchè secondo il racconta la casa di Eufemiano suo padre fosse trasformata in chiesa ai tempi di Onorio, non comaprisce associato a quello di s. Bonifacio se non dopo la fine del decimo secolo, allorchè  p586 quel celeberrimo monastero cominciò a fiorire e diventare l'istituto romano delle missioni per i paesi slavi. Prima di quel tempo, la chiesa avea il nome di s. Bonifacio, ed era anzi diaconia; oggi è accaduto l'opposto, e al titolo primitivo di Bonifacio s'è sostituito quello di Alessio.

Il papa Benedetto VII nel 977 la cedette a Sergio metropolita greco, vescovo di Damasco, fuggito per le persecuzioni degli Arabi, il quale vi fondava un grande convento, e ne diveniva il primo abate, i cui frati parte erano benedettini latini, e parte basiliani greci, che avevano dato al luogo il nome della celebre contrada di Costantinopoli detta delle Blacherne, famosa per l'imagine blachernisina della Vergine donata a s. Pulcheria. Il Nerini, abate di quel monastero, nel secolo passato ne ha lasciato una storia classica, non scevra però d'errori.

Il libro pontificale ricorda più volte la chiesa col nome di Diaconia s. Bonifacii, massime in Leone III.

Il famoso Alberico, nel secolo X, aggiunse alla chiesa le sue case per trasformarle in monastero, preponendovi il celebre abate di Cluny, s. Oddone. Nel chiostro del monastero si legge la seguente epigrafe:

CORPORE HIC RECVBAT CRESCENTIVS INCLI
TVS ECCE EXIMIVS CIVIS ROMANVS
DVX QVOQVE MAGNVS EX MAGNIS MAGNA
PLEBS GENERATVR ET ALTA IOH . DATAE
THEODORA MATRE NITESCENS
QVEM XPS ANIMAR . AMANS MEDICVSQVE PERITVS
CORRIPVIT LANGORE PIO LONGEVO VT AB OMNI
SPE MVNDI LAPSVS PROSTRATVS LIMINI SCI
MARTYRIS INVICTI BONIFATII AMPLEXVS ET
ILLIC SE DNO TRADIDIT HABITV MONACHO
RVM ADEPTVS QVOD TEMPLVM DONIS
. . . . . BITAVIT ET AGRIS

HIC OMNI QVICVMQVE LEGIS COGITARE MEMENTO
VT TANDEM SCELERVM VENIAM MERCATVR HABERE
ET OBIIT DIE VII MENS. IVL. ANN. DNICE INCARN.
DCCCCLXXXIV . C . R . M IAM ATE OCVLOS DVODECIM.

Le ultime quattro linee furono trascritte dal Baronio che vide intiera l'epigrafe.

Questo monaco Crescenzio di cui nel marmo si dice che Cristo pari a medico perito, corripuit langore pio ut ab omni spe mundi prostratus, si dette a Dio e finì monaco in questo monastero; egli è quel medesimo Crescenzio che si ribellò a Benedetto  p587 VI (973‑74), il preteso figlio di Giovanni X, secondo la calunnia di Liutprando, alla quale credette anche il Baronio; quello stesso, in somma, che fece uccidere il papa nel mausoleo d'Adriano.

I Benedettini ritennero il monastero fino all'anno 1231, benchè fino dal XII secolo del primo monastero si fossero formate due distinte abazie, l'una col titolo di s. Bonifacio, l'altra di s. Maria, oggi priorato di Malta. Fra i monaci che vi dimorarono, è da ricordare s. Adalberto vescovo di Praga ed apostolo dei Boemi, s. Gaudenzio suo fratello, s. Anastasio e s. Bonifacio apostolo dei Russi meridionali, onde il Baronio appella il luogo domicilium sanctorum.

Nel 1231, Gregorio IX concedette il monastero ai Premonstratensi; Martino V nel 1430 vi chiamò i monaci Girolamini, che nel secolo XVI trasformarono la chiesa. Ne prese possesso ai 27 giugno dello stesso anno il ven. p. Lope de Almedo di Siviglia, riformatore e preposito generale, con altri otto religiosi spagnuoli essendo abate commendatario il cardinale spagnuolo Alfonso Carrillo de Albornoz. Sisto V la dichiarò titolo cardinalizio.

S. Maria de Aventino o S. Basilio
(s. Maria del Priorato)

È conosciuta più comunemente dal secolo XVI col titolo di s. Maria del Priorato. Sorge sopra antiche e storiche ruine di quel classico colle. Non si hanno notizie positive sulla sua prima origine; solo è noto che è una delle più antiche chiese dedicate in Roma alla Madre di Dio ed era nel secolo XIII una delle principali abazie della città. Si diceva anche s. Maria Aventina ed ebbe pure il titolo di s. Giovanni. Il dottissimo Garampi nell'archivio di s. Maria in Iulia, cioè di s. Anna, trovò una carta dell'anno 1237 che alla nostra abazia si riferisce, ove si diceva che: prior et praeceptor S. Mariae in Aventino locat domum in regione cacabarii cui ab uno latere ipsa ecclesia. L'origine del monastero annesso è del 939, nel qual anno il famigerato Alberico trasformò quel già suo palazzo. Era quella adunque la casa dei famosi dominatori di Roma del secolo X. Nell'anno 1013 si menziona un Aimo come abate  p588 del monastero di s. Maria qui ponitur in Aventino. Il celeberrimo monastero divenne poi sede del priore dei Cavalieri di Malta, onde oggi si chiama il Priorato di Malta, i cui redditi, come scrive il Terribilini, superavano nel secolo passato ottomila ducati annui. Pio V fece restaurare la chiesa ed il monastero, finchè nel 1756 dal card. Rezzonico fu ridotta alla forma odierna. Architetto della chiesa fu Giovanni Battista Piranesi, celebre per le sue incisioni prospettiche dell'antichità romana, il quale fu quivi sepolto. Questa chiesa ha anche il nome di s. Basilio, perchè in origine era dedicata a quel patriarca; ed è anche detta s. Maria e s. Basilio.

Ildebrando vi professò la disciplina monastica. Vi fu un monastero di Basiliani fra i principali e privilegiati di Roma, i cui abati assistevano il pontefice. Fin dal 1320 apparteneva all'ordine Gerosolimitano col contiguo convento. Pio V lo fece riedificare, poi nel 1765 il card. Rezzonico vi fece fare nuovi restauri e in quell'occasione vi si trovò un'urna con iscrizione che dicea contenersi in quella le reliquie di s. Abbondio e s. Sabino.

Il Martinelli dice invece che sino dal 1653 si leggeva a destra della chiesa l'epigrafe: † HIC RECONDITVM EST CAPVT S. SAVINI EPISC. ET MART. EX COSTA S. CAESAREI M. ET SANGVIS S. SEBASTIANI M. ET RELIQVIAE SS. QVADRAGINTA.

Nell'altar maggiore vi era il quadro della Vergine e s. Giovanni Battista, di Andrea Sacchi; oggi invece vi è s. Basilio in stucco. La chiesa è ad una sola nave. Vi sono deposti molti gran maestri e gran priori di Roma. Era dedicata all'Assunta.

S. Donato

Nella biografia di Leone III, nel Libro pontificale, si fa menzione di un oratorio e di un monastero dedicato a s. Donato. Sorgeva non lungi da s. Prisca, ma non ne restano più neppure le tracce. Simili modo fecit et in monasterio sancti Donati, quod ponitur iuxta titulum sanctae Priscae canistrum ex argento pensantem libras II et uncias VI.

 p589  S. Euprepia

Una chiesa di questo nome, col suo monastero, sorgeva in Roma all'epoca di s. Gregorio il Grande, non lungi da quella di s. Sabina sul colle Aventino. Fu antichissimo titolo urbano, perchè la sua origine si attribuisce ad una matrona di quel nome contemporanea del papa s. Pio I (?), benchè ciò risulti da una lettera apocrifa del suddetto papa al vescovo Giusto.

È inutile ripetere che di questo edifizio non pure non resta sul luogo traccia veruna, ma neanche notizia nella maggior parte degli scrittori di cose ecclesiastiche.

S. Saba

Sorge la chiesa su quell'appendice dell'Aventino, impropriamente detta il falso Aventino. Quivi fu il monastero chiamato Cella nuova, forse a differenza da quell'antico del medesimo santo che era in Gerusalemme; da cui alcuni monaci greci vennero a questo di Roma. Qui abitò s. Gregorio vescovo di Agrigento, uomo di gran virtù, donde poi si partì e si nascose per rifiutare l'episcopato, che fu obbligato finalmente ad accettare. Qui furono trasferite le reliquie che erano nella chiesa di s. Andrea in Pallara. Presso alla medesima sorgea la casa di s. Silvia madre di s. Gregorio, dalla quale andava al figlio, quando stava nel monastero di s. Andrea, legumi cotti in quella tazza d'argento che poi s. Gregorio donò per elemosina, come riferisce Giovanni Diacono nella sua vita. Dai monaci greci passò a quelli di Cluny sotto Lucio II, quindi ai Cisterciensi sotto Giulio II. Gregorio XIII, essendo quel monastero divenuto commenda, unì la chiesa colle sue entrate a quella di s. Apollinare per la fondazione del collegio germanico sotto la cura dei pp. Gesuiti.

L'interno della chiesa è diviso in ventiquattro colonne parte di granito, parte di marmo pari. V'era, come narra il Contareno, presso la chiesa una sorgente, la cui acqua si bevea dai fedeli per divozione di S. Saba, di cui fu celebre in Palestina la Laura. Fu offiziato anche dai canonici regolari i quali vi dimoravano ai tempi di Leone X ed intervennero alla processione  p590 nella sede vacante. All'abate del monastero spettava la grande tenuta di Porcilliano vicino ad Ostia. In questo monastero l'antipapa Costantino, nella seconda metà del secolo VIII, fu rinchiuso, e così eletto Stefano III. La chiesa ed il monastero, col nome di Cella nuova, sono ricordati dal libro pontificale nella vita di Leone III, per i ricchi doni che questo papa offrì ai medesimi.

Sulla porta della chiesa si legge l'epigrafe seguente:

† · AD · HONOREM · DOMINI · NOSTRI · IHV · XPI · ANNO · VII ·
· PONTIFICATVS · DOMINI · INNOCENTII · III · PP · HOC · OPVS ·
· DOMINO · IOHANNE · ABBATE · IVBENTE · FACTVM · EST ·
· PER · MANVS · MAGISTRI · IACOBI.

Quest'epigrafe è dell'anno 1205 e ricorda i lavori fatti in quella chiesa; è una delle poche iscrizioni superstiti dal papa Innocenzo III. Il magister Iacobus qui ricordato è il figlio di Laurentius magister, fondatore con lui di quella scuola di marmorari romani che si mantenne fino al secolo seguente, e che dal nome di Cosma figlio di Giacomo si disse dei Cosmati.

S. Balbina

Nel sinodo romano che fu celebrato da s. Gregorio il Grande nell'anno 594, al tempo dell'imperatore Maurizio, sono sottoscritti i titolari della chiesa di s. Balbina, i quali non troviamo nei sinodi antecedenti ma compariscono eziandio negli atti del terzo concilio romano celebrato dallo stesso pontefice; questo mi fa credere che l'antica chiesa urbana di quella martire sull'Aventino fosse stata eretta a titolo la prima volta ai tempo di s. Gregorio.

Nei secoli di mezzo, la collina dove sorge ancora la chiesa, che è un'appendice secondaria dell'Aventino, appellavasi Albiston, Albeston, Albescon, Asbeston, vocaboli di oscuro significato, che ricordano certamente un qualche edificio importante dei tempi più antichi. Gli antichi documenti topografici, come quelli del medio evo, indicano in quel luogo il Mutatorium Caesaris, quale è pure segnato in un frammento della pianta capitolina. Ciò che fosse questo mutatorio, chiaramente non si conosce, e nel frammento non bene è indicata la sua forma; però da alcune iscrizioni si conosce che eranvi schiavi e liberti addetti all'edifizio medesimo.

 p591  Il titolo è più volte ricordato sotto Leone III, il quale ne restaurò il tetto che minacciava di ruinare. Nel 1300 fu qui sepolto Stefano de Surdis, il cui sepolcro fu lavorato dal celebre marmorario romano Giovanni figlio di Cosma, come risulta dall'epigrafe: † IHS FILIVS MAGRI COSMATI FECIT HOC OPVS. Da questi artefici prende il nome quel lavoro di porfidi e serpentini e d'altri marmi, del quale sono decorate alcune delle nostre più antiche basiliche; opera erroneamente detta alessandrina e che deve appellarsi cosmatesca. Sopra una delle travi che sostengono il tetto della chiesa attuale leggesi il nome del cardinale Marco Barbo, nipote di Paolo II, che nel 1449 la restaurò: MARCVS BARBVS VENETVS EPIS. PRAENE. CARD. S. MARCI PATRIARCHA AQVILE. AN. D. MCCCCLXXXIX.

Nei diarî di Sisto IV, di Giacomo Volaterrano, si narra che il priore dell'antico monastero annesso alla chiesa era quello che nella cappella papale nella messa della Risurrezione leggeva, come si costuma, il Vangelo in greco; ma sulla storia di questo insigne monastero veggasi l'Ughelli. Possedeva quel cenobio l'antico fundus floranus, situato all'ottavo miglio dell'Appia, che fu poi acquistato cum suis pertinentiis dai monaci di s. Paolo. L'antico monastero è stata testè ampliato, ed è oggi trasformato in luogo di rifugio di donne ravvedute.

Nel secolo attuale la chiesa fu di nuovo risarcita due volte, cioè nel 1813 e nel 1825. La tribuna fu dipinta dal Fontebuoni; il bassorilievo dell'altare a destra ornava l'altare di Pietro Barbo, poi Paolo II, nel Vaticano, ed è opera di Mino da Fiesole. La chiesa sembra che in origine fosse dedicata al Salvatore; infatti sotto Urbano V il monastero attiguo era intitolato dei ss. Salvatore e Balbina, e nel catalogo delle chiese di Pio IV la nostra è chiamata s. Salvatore della Balbina.

Ss. Salvatore e Balbina (v.  S. Balbina)

Ss. Nereo ed Achilleo

È uno dei più celebri titoli o chiese già parrocchiali della città, detto il titulus Fasciolae. Di questo titolo furono preti: il padre di Felice III, morto nell'anno 471, e Aconitus, Epiphanius,  p592 Paulinus, i quali sottoscrissero ai sinodi del papa Simmaco nel 499.

Negli atti dei martiri Processo e Martiniano si legge che una fasciola cadde dalla ferita del piede dell'apostolo Pietro presso la via nova quando egli, evaso dal carcere Mamertino, fuggiva da Roma. Il titulus Fasciolae dal Panvinio e da tutti dopo lui è stato giudicato identico a quello dei ss. Nereo e Achilleo dinanzi le terme antoniniane, ove era la grande platea della via nova adornata di portici da Caracalla. Si dubitava però, se dalla memoria della fasciola di s. Pietro o da una matrona cristiana degli amanuensi mutata in Fasciola, quel titolo abbia avuto la sua appellazione.

Il ch. De Rossi, che di proposito ha trattato la questione, produsse l'epitaffio d'un lector tituli Fasciolae, morto nel 337, scoperto nella basilica di s. Paolo, col quale dimostrò la verità del vocabolo fasciola ed escluse la pretesa Fabiola dalle denominazioni del titolo urbano. Posteriormente a quella scoperta molti altri frammenti di epigrafi sepolcrali furono rinvenuti nella basilica cimiteriale dei ss. Nereo ed Achilleo sulla via ardeatina, ove molti membri del clero di quel titolo furono sepolti. Fra questi venne a luce l'epitaffio d'un Basilius prete de Fasciola, e quello d'un Pascentius lector de Fasciola. Così Leone il Grande commise a Felice, prete del titulus Fasciolae, e ad un diacono di nome Adeodato, dello stesso titolo, l'ufficio di riparare la basilica ostiense dopo una grave rovina. Quanto al nome fasciola ha dunque dimostrato il ch. De Rossi, che non fu affatto personale, poichè nell'immenso apparato della romana onomatologia non esiste affatto, ed inoltre ciò esclude la formola costante de fasciola.

"Le epigrafi antiche, così il De Rossi, dicono, per esempio, lector de Pallacine, de Velabro, de Pudentiana, a vinculis, a dominicu Clementis, non a Clemente, de Clemente, de Pudente, de Georgio, de Marco; insomma i nomi proprî personali non si costruiscono in queste formole colle particelle de ovvero a in ablativo: per lo contrario i nomi topografici di luoghi e di cose li troviamo adoperati in quel modo; così abbiamo: a capite Africae, de via sacra, de Sebura, de aggere, de fasciola. Chiarito così che questo vocabolo fasciola non è cognome di persona, e d'altra parte, essendo negli atti  p593 dei martiri Processo e Martiniano fatta menzione della fasciola caduta a Pietro presso la via nova, non può dubitarsi che la denominazione del titolo viene da questa memoria o tradizione che nel secolo IV divenne così solenne."

A questo antichissimo titolo fu applicato un passo del libro pontificale nella biografia di Leone III, ove si dice che quel papa, essendo la chiesa fatiscente, la riedificò dai fondamenti; ma il De Rossi ha dimostrato che quel passo è da attribuirsi non al nostro titolo, ma alla basilica del cimitero dei suddetti santi. Il Baronio, non potendo avere notizie della basilica cimiteriale dei medesimi santi sulla via ardeatina, nella quale essi giacquero fino dopo il secolo IX, credette che il Magno Gregorio celebrasse la stupenda omelia habita ad populum in coemeterio ss. Nerei et Achillei die natali eorum (della quale però in altri codici è scritto: habita in basilica ss. Nerei et Achillei), non in quella, bensì nel nostro titulus Fasciolae, il che è falso; ed in questo equivoco cadde anche il Bosio. Insomma le memorandi parole del grande papa da lui pronunziate mentre l'Italia era in preda ai Longobardi, ed attorno a Roma tutto era desolazione e miseria per le feroci scorrerie di quei barbari, per la peste, e per altri flagelli, risuonarono non nelle pareti del titulus Fasciolae sulla via nuova, ma nell'altra non veduta dal Baronio e solo da pochi assai discoperta. Quelle parole riflettono lo stato miserando dei tempi in cui il papa innanzi ai martiri sfogava il suo cordoglio: ubique mors, ubique luctus, ubique desolatio; undique percutimur, undique amaritudinibus replemur . . . aliquando nos mundus delectatione sibi tenuit, nunc tantis plagis plenus est ut ipse nos mundus mittat ad Deum. A tempo di Leone III la basilica della via nuova era una delle romane diaconie. Ma il culto dei nostri santi fiorì fino dal secolo VI anche nel titolo di Fasciola, segno che in quel luogo, benchè il loro corpi non per anco vi fossero trasportata, pure vi si venerava una qualche memoria dei medesimi. Nel secolo XII il titolo di Fasciola era dei più insigni della città, e da un testo del Mai si ricava che a pochi per l'innanzi era stato concesso, imo saepius multis et magnis viris denegatum, ed in attestato di benemerenza quel papa lo concesse archiepiscopo neapolitano. Nei secoli del medio evo giacque la chiesa in abbandono; Sisto IV di nuovo la ristorò, ma ne alterò le dimensioni e la rese più angusta. Il monumento più antico che rimane nella basilica attuale è il musaico dell'arco  p594 maggiore, che è opera di Leone III (795‑816). L'Ugonio nelle autografe sue schede barberiniane (cod. XXXI, 45, f. 144 dice che nell'antica chiesa, prima dei restauri del Baronio, si vedevano disiecta penitus ac diruta musivi operis vestigia, ed il signum nominis LEO PAPA, idem prorsus quod est in Laterano, ubi est aula Concilii.

Nel 1596 il Baronio fece ritoccare il musaico con stucco colorato, ma fu tolto e coperto ogni vestigio di quello dell'abside. Il ch. De Rossi, da un quadro colorato a tempera che si conserva nelle stanze annesse alla biblioteca vaticana e che è del tempo del Baronio, ha rilevato la copia della composizione.

Dinanzi ad ampio padiglione purpureo è eretta la croce gemmata di foggia latina, a piè della quale sono disposte in ambi i lati sei pecore, tre per parte procedenti verso la croce. Il musaico dell'arco rappresenta nel mezzo il Salvatore vestito di tunica bianca listata di porpora e d'oro sotto il pallio. Lateralmente ha due discepoli che prostrati a terra avvicinano il pallio al volto per non essere abbagliati; ritti in piedi stanno Mosè ed Elia. Sui lembi del pallio dei tre discepoli sono le iniziali dei loro nomi P. IH. I. Nei gruppi laterali v'ha la scena dell'Annunziazione e la divina Maternità della Vergine. Nel primo gruppo la Vergine ha nelle mani la rocca e il fuso, segno dei lavori femminili cui era intenta. Ai tempi del Baronio, il santo e dotto filippino che di sue virtù onorò la porpora romana, ottenne dal papa in titolo la chiesa allora fatiscente dei ss. Nereo ed Achilleo. Egli la ristorò ed adornò nella forma che ora si vede, vi trasportò le reliquie dei santi eponimiº dalla chiesa di s. Adriano ove si veneravano, e la fece affidare ai pp. dell'oratorio di s. Filippo, ai quali ancora appartiene.

È divisa in tre navi, ed il ciborio è sostenuto da quattro colonne di marmo africano. Nel bema resta ancora il pavimento cosmatesco del secolo XII e ai fianchi degli altari vi sono i due amboni dello stesso lavoro. Tutti gli altri ornamenti e decorazioni sono opera dell'epoca del card. Baronio. Innanzi alla chiesa fu innalzata dal medesimo una colonna di granito bigio con una croce sul capitello.

 p595 

Ss. Crocifisso della Ferratella

È una cappelletta, ora abbandonata, nella quale si venera un'imagine del ss. Crocifisso. È posta nella via detta della Ferratella sotto la piazza della Navicella.

Madonna del Buon Consiglio

Così chiamasi una cappellina posta nella via di s. Sebastiano nel luogo detto la Marrana, dirimpetto alleº terme antoniniane: venti o trent'anni fa era custodita da un'eremita.

S. Cesario in Turrim (sic)

È fra le chiese della seconda partita del catalogo di Torino, della quale l'anonimo dice che non habet servitorem, a cui era però annesso un ospedale detto pure in turrim, servito da quattro frati dell'ordine dei Crociferi.

È questa l'antica diaconia posta al bivio delle vie Appia e Latina, a destra dell'Appia, non lungi dalle terme antoniniane. Come avverte giustamente il Nibby, la chiesa in turri è stata, dalla maggior parte di queglino che ne hanno discorso, confuso con altra chiesa omonima denominata in palatio.

Il nome speciale della nostra chiesa in turrim le provenne certamente dalla vicinanza di qualche altissima torre, delle quali la cita del medio evo era irta. Così in uno stato dei beni della chiesa di s. Giovanni a porta Latina, esistente ora nell'archivio lateranense, inserito per intero dal Crescimbeni nella storia di quella chiesa, più volte ricordasi s. Caesarius in turrim. Collo stesso nome Cencio Camerario la ricorda fra quelle del presbiterio ed egli la appella dal nome della via presso cui trovasi la chiesa s. Caesarius de Appia.

Essendo fatiscente, il papa Clemente VIII la restaurò affidandola ai pp. Somaschi del collegio Clementino da lui istituito (oggi convitto provinciale) erigendola anche a diaconia cardinalizia. Dopo lungo abbandono, dal nuovo titolare in questi ultimi anni è stata restaurata, benchè dell'antica nulla più rimanga, tranne alcuni avanzi di opera cosmatesca.

 p596  Il monastero fu detto anche de Corsas Corsarum, come l'altro vicino di s. Sisto, e così è nominato dal Libro pontificale, dall'epoca cioè di Leone III e di Leone IV, ove dicesi Corsarum. Non sappiamo se il nome provenga dalla famiglia Corsa, potentissima in Roma sotto Gregorio VII, che meritò la persecuzione di Enrico III, il quale fece ardere le case che quella possedeva in Campidoglio, o da monache venute dall'isola di Corsica che dimorassero nel monastero; il che mi sembra più probabile. Alle monache furono sostituiti più tardi i Basiliani greci ai quali era stato proposto recentemente, cioè nel 1882, di riaffidare questa chiesa e restaurarvi l'antico rito greco invitandovi i monaci di Grottaferrata. La proposta, alla quali si mostrò inchinevole il santo Padre, è rimasta finora sospesa difficoltà secondarie, le quali è sperabile si possano superare. Generose offerte furono fatte da varî personaggi perchè si potesse dar compimento al suddetto progetto; fra le quali è da ricordare eziandio quella d'una piissima gentil donna, la contessa Teresa Cozza-Luzi, madre dell'illustre vicebibliotecario di S. R. C.

Il La basilica pontificale, nella vita di s. Leone IV (a. 847‑855), ricorda un monasterium ancillarum Dei in honorem sanctorum Simitrii et Caesarii, il quale era stato edificato nella casa del suddetto pontefice. Ho qualche sospetto che questa casa fosse nell'area del monastero del nostro s. Caesario.

S. Gabriele Arcangelo

Fra le chiese della seconda partita, presso quella di s. Caesario in Turrim, il codice di Torino nota un'ecclesia sancti Archangeli quae non habet servitorem.

Di questa chiesuola nessuno aveva fatto menzione e si credeva distrutta, ma ho avuto la fortuna, già da parecchi anni, di ritrovarla in una vigna dei signori principi Rospigliosi presso la porta s. Sebastiano, non lungi dalla chiesa di s. Cesario, a sinistra della via Appia. È un oratorio che fu dedicato all'Arcangelo s. Gabriele, del quale rimane nella nicchia di fondo l'imagine in figura d'orante colle braccia aperte, e sotto alla imagine v'è il suo nome: Gabriel. È veramente deplorevole che un monumento così insigne per la storia del culto e per le pitture che ne adornano tuttora le pareti, giaccia abbandonato e ridotto ad uso di cellaio campestre e deposito d'immondizie.

 p597  Le pitture, delle quali nella mia pubblicazione ho riprodotto il disegno, rappresentano nella lunetta superiore della parete di fondo il busto del Salvatore fra i cori degli angeli che l'adorano. Agli angoli della lunetta rimangono i ritratti di due personaggi che offrirono quella pittura e che oggi sono cogniti per i dipinti della basilica sotterranea di s. Clemente. È la coppia dei coniugi Beno de Rapiza e Maria, che vissero tra i secoli XIIXIII, alla cui età appartengono le pitture; infatti sotto le loro imagini si veggono i nomi BenoMaria.

Molte figure d'angeli, e di santi monaci greci, e di sante cinte il capo di nimbo adornano le pareti laterali di quest'oratorio, che io ho scoperto undici anni or sono, e del quale ho presentato anche la pianta. Una tradizione locale vuole che in questo fossero anche venerati i sette martiri di Efeso, detti dalla leggenda i sette dormienti: ed infatti anche oggi quella vigna è così appellata. Quest'oratorio era stato veduto dal D'Agincourt sul principio di questo secolo e ne avea ricavato alcuni disegni destinati ai suoi lavori sulla storia dell'arte, ma non aveva lasciato indicazione del sito dove esisteva. In alcuni appunti manoscritti dell'archivio vaticano era stato pure indicato colle seguenti parole:

"Nella vigna di certi che stanno fuori di Roma ed il loro esattore è il signor Antonio Ferramosca vi sono diverse stanze antiche con volte a tutto sesto di tufi con cortina di mattone, in una delle quali nel muro di faccia vi è dipinto il santissimo Salvatore e sotto detto, in una nicchietta bistonda la santissima Vergine e dalli lati del Salvatore alcuni angeli e sotto da una parte quattro figurine e dall'altra tre, e dicono essere quivi stati addormentati li sette dormienti."

Non si può compiangere abbastanza, lo ripeto, che questo prezioso monumento storico artistico testè tornato a luce, l'unico in Roma dedicato alla memoria dell'Arcangelo Gabriele, giaccia non solo dimenticato, ma totalmente abbandonato in guisa, che fra pochi anni di quei preziosi dipinti non rimarrà certo traccia veruna.

S. Lorenzo all'Arco Stillante

Di questa chiesa ha trovato notizia il ch. comm. De Rossi in una bolla dell'anno 1115 del papa Pasquale II. Era posta iuxta arcum stillantem, presso la vetusta porta Capena, cioè il fornice dell'acquedotto della Marcia. Doveva essere antichissima  p598 e forse la sua origine non è estranea ad alcuno degli episodî narrati negli atti del santo levita e relativi alla morte di Sisto II sull'Appia.

S. Maria in Primo o Secondocerio (sic)

così è ricordata questa chiesa di s. Maria in un censuale vaticano dell'anno 1403, in cui è notata una casa posseduta dal capitolo vaticano: domus cum signo hominis in parochia S. Mariae in primo vel secundocerio.

Il codice di Torino la ricorda: Ecclesia S. Mariae Secundi cerei habet sacerdotem et clericum. Il Gregorovius, per errore, la pone nella regione di Ponte, ma non v'ha dubbio che esistesse non lungi dalle chiese di s. Maria e s. Gregorio de Gradellis. Ciò risulta non solo da un documento citato dalGalletti, ma dall'elenco dello stesso codice di Torino, ove è annoverata presso le suddette chiese, fra quelle della seconda partita.

Nel catalogo del Camerario è chiamata colla esatta denominazione s. Maria Secundicerii, come pure nel codice del Signorili. Presso la chiesa v'avea una delle residenze del Secundicerius, cioè del secondo dei sette principali personaggi della corte papale nel secolo VIII: essi erano il Primicerius, il Secundicerius dei notari, l'Arcarius, il Sacellarius, il Proto­scrinarius, il Primus defensor e il Nomenclator. Questi ufficiali, a causa dei loro rapport temporali, non salivano a dignità ecclesiastiche, ma rimanevano nell'ordine dei suddiaconi; tuttavia la loro influenza superava quella stessa dei cardinali. Pasquale II, combattuto dalle fazioni e dai seguaci dell'antipapa Barduino, si ritirò nelle vicinanze di questa chiesa, i cui approcci erano difesi dai serragli e dai fortilizî turriti di Stefano Normanno, di suo fratello Pandolfo, di Pietro Lato dei Corsi.

S. Gregorio de Gradellis

Nel codice di Torino, fra le chiese della seconda partita, se ne novera una detta s. Gregorius de Gradellis quae habet unum sacerdotem. Nel catalogo del Camerario, con leggera variante, è denominata de Gradella. Io credo sia la medesima  p599 che nei regesti di Clemente VI trovo chiamata de Gretis. Ecco le parole del documento in proposito: Collatio perpetua beneficii ecclesiastici in ecclesia s. Gregorii de Gretis de Urbe, quae capella ecclesia S. Mariae in Cosmedin de ipsa urbe fore dignoscitur per consecrationem Nicolai ep. Ancon. apud Sedem Apostolicam vacantis, primo Nicolai Gotii de Urbe praefata.

La chiesa, come risulta dal codice di Torino e da quello del Camerario, stava non lungi dal Circo Massimo e da s. Anastasia, onde io sono d'opinione che quella denominazione la desumesse dai gradini del Circo, sui ruderi del quale forse sorgeva.

S. Maria in Curte domnae Micinae

L'Anonimo di Torino, fra le chiese della seconda partita, registra s. Maria in curte domnae Micinae (quae) habet sacerdotem et clericum.

Benchè un palatium Micinae fino al secolo XV sia notato nella pianta di Leonardo Bufalini nel Trastevere presso s. Lorenzo in Ianiculo,º pure sembra che il luogo detto curtis domnae Micinae sia diverso da quello e da cercare piuttosto nella regione fra il Foro ed il Velabro al di qua del Tevere.

Michele Lonigo trasforma la domna Micina in dominus Nursinus (sic) e non sa dirci altro se non che fu un'antica chiesa parrocchiale ricordata nell'elenco del Camerario. Veramente mancano affatto altri documenti storici e topografici. Questa chiesa subì la sorte di quelle molte che nel secolo XIV con irreparabile danno della storia e della pietà, furono distrutte.

Il Camerario l'appella curtis domnae Micinae; onde non sembra improbabile che prendesse il nome dalla vicinanza d'una casa rimasta celebre in Roma per la dimore d'una donne detta Micina, nome che non ci comparisce raro nel medio evo.

Il Signorili l'appella solamente s. Maria in Curte.

S. Maria de Gradellis

Di questa chiesa fa menzione il Camerario perchè era fra quelle ammesse a ricevere il presbiterio. Il codice di Torino nota che habet sacerdotem et clericum. Dovea trovarsi presso la omonima di s. Gregorio.

 p600 

S. Maria in Cosmedin

Sulle rovine d'un antico tempio di Cerere, di cui restano tuttora in piedi alcune colonne con i capitelli, fu eretta questa nobilissima chiesa dedicata alla ss. Vergine, che da molti secoli porta il titolo di s. Maria in Cosmedin. Quel tempio, dagli eruditi del secolo XVI, fu erroneamente creduto essere della Pudicizia Patrizia. Dionisio scrive che il tempio di Cerere e Proserpina sorgeva precisamente all'estremità del Circo Massimo, e nelle mura della nostra chiesa restano incastrate alcune delle colonne corintie che appartenevano al peristilio del monumento medesimo, il quale, dopo un incendio che lo consumò, fu rinnovato da Tiberio. La penuria di documenti non ci permette sapere quando la nostra basilica fosse su quei classici avanzi edificata; ma è certo però che sul volgere del secolo VI era annoverata fra le diaconie romane ed avea il titolo di s. Maria in Schola graeca, ovvero Graecorum.

Io credo che presso quel luogo sorgesse fino dai secoli delle persecuzioni una diaconia urbana. Ha dimostrato infatti il dottissimo abate Duchesne, che i titoli diaconali furono in origine stabiliti nel centro dell'antica Roma e negli stessi monumento pubblici, mentre i titoli presbiterali erano in luoghi diversi ed anche remoti della città. La ragione di questo aggruppamento, secondo il Duchesne, è che le distribuzioni caritatevoli delle diaconie avevano qualche somiglianza con le frumentatio degli imperatori romani, e che forse le horrea ecclesiae erano situati non lungi dalle horrea publica dei tempi imperiali sotto il monte Aventino, vicino appunto alla nostra chiesa di s. Maria. La diaconia infatti fu un'istituzione prettamente caritatevole destinata al sussidio degli orfani, degli ammalati e delle vedove; questi luoghi di beneficenza dipendevan perciò da amministratori anche laici, coadiuvati bensì dai preti per le cose spirituali, ma non erano in modo speciale affidate ai diaconi, i quali non prendevano il titolo delle chiese ma delle regioni, dicendosi diaconus regionis primae, secundae ecc. Però da Pasquale II in poi, cioè dal principio del secolo XII, i diaconi ebbero la sorveglianza speciale di quei luoghi, e presero il titolo delle chiese annesse come: diaconus s. Angeli, diaconus s. Nicolai ecc. Tornando ora alla denominazione Schola graeca, questo nome probabilmente ebbe origine dall'esistenza d'uno spizio di Greci che numerosi risiedevano forse nella vicina contrada e la cui memoria è tuttora serbata dal nome di una via attigua  p601 alla chiesa, detta ancora via della Greca. Infatti ai Greci apparteneva non solo la chiesa, ma tutta la contrada, cosicchè nel secolo VIII la vicina ripa del fiume s'appellava Ripa Greca. L'Anonimo di Einsiedeln, additando la via che conduce a s. Paolo, nota nel suo codice: Inde per scholam Graecorum; ibi in sinistra ecclesia Graecorum. Il nome adunque antonomastico della nostra chiesa nel secolo VIII era ecclesia Graecorum. Adriano I la riedificò, poichè la primitiva era troppo angusta e fatiscente, e dopo quella riedificazione prese il titolo che tuttora mantiene, in Cosmedin, il quale fu comune a parecchie chiese durante l'influenza dei Greci in Italia e in Roma.

Il biografo del papa ne dà la ragione dicendo che fu chiamata dalla voce κοσμας che vale ornamento. Così a Roma dicevasi Cosmedin anche la chiesa di s. Maria in Traspontina, a Napoli ed a Ravenna due chiese pure dedicate alla Vergine erano chiamate in Cosmedin, cioè ben ornate. Checchè sia di ciò, poichè non mi soddisfa del tutto l'interpretazione di questa oscura parola, che il ch. p. Garrucci fa piuttosto derivare da un nome di illustre matrona, ed il Gregorovius da quello d'un luogo di Costantinopoli, egli è certo che dall'epoca di Adriano, come ho detto, incomincia la nuova denominazione. Quel gran papa, vi edificò la basilica a tre navate, precedute da un atrio, il quale si mantenne fino dopo la metà del secolo IX, quando fu di nuovo fabbricata dal papa Niccolò I, già diacono di questa chiesa. Questi ivi innalzò pure una nobile abitazione pontificia con un triclinio ed un oratorio, che ebbe poi il nome di s. Niccolò.

Sul principio del secolo XII, in cui si ridestò il sentimento dell'arte, Callisto II di nuovo pose mano a restaurare la basilica, ed a quei lavori con pio amore fu preposto l'Alfano, camerario del papa.

La chiesa conserva ancora molti ornati ed il carattere di quell'età, sculture di stile semplice e graziosamente rozze, cioè il musaico del pavimento, gli eleganti amboni di marmo, i pilastri delle porte, la cattedra vescovile a musaico che è nell'abside. Forse più antica è la torre o campanile che risale al secolo VIIIIX, quadrangolare e non rastremata, alta 162 palmi, con sette ordini di finestre, tre per lato, separate da piccole colonnine. Quando nel 1639 la cappella di Giovanni VII nel Vaticano fu distrutta, le cui pareti erano adorne di musaici, un quadro ne fu levato e trasferito alla nostra chiesa, dove quel  p602 monumento venerando, che conta undici secoli di vita, fu infisso nel muro della sacrestia. Rappresenta la s. Vergine col Bambino seduto in trono; innanzi a le sta un angelo e dietro v'ha una figura che offre un dono al divino infante, ed una seconda figura, che forse è quella di s. Giuseppe. Un brutto disegno ne è dato dal Crescimbeni.

Qui nel 1118 furono eletti papi Gelasio II, Celestino III e l'antipapa Benedetto XII. Il pontefice Eugenio IV, nel 1435 diede la chiesa ai Benedettini di s. Paolo che vi rimasero fino al 1513, anno in cui Leone X, eletto papa, la eresse in collegiata, che poi s. Pio V costituì in parrocchia. Inferiore al solo circostante era il suo piano, cosicchè vi si discendeva mediante sette scalini; a togliere il quale inconveniente, che rendeva la chiesa maggiormente insalubre, Clemente XI, per suggerimento del Crescimbeni, nel 1715 fece abbassare Ilario (461‑468; LP. XLVIII piano della grande piazza adiacente. Nel 1718 il cardinale Albani, essendone diacono cardinale, ne rinnovò la facciata. Il presbiterio, secondo l'uso delle antiche basiliche, innalzasi sopra il piano della nave: sotto l'altare maggiore, coperto d'un ciborio di marmo sostenuto da quattro colonne di granito rosso, vi è un preziosissimo labrum di porfido con molte reliquie di martiri. Per una doppia scala si discende nella confessione sotto la tribuna, la quale era rimasta per molti anni chiusa e dimenticata: fu riaperta nel 1717 per cura del pio ed erudito canonico istoriografo della chiesa e già suo arciprete Mario Crescimbeni: ivi si custodivano le reliquie di s. Cirilla.

Una veneranda imagine si venera sull'altar maggiore, che si crede trasportata da Bisanzio in Roma nel periodo delle persecuzioni degli Iconoclasti: non manca chi la giudichi opera di scuola italiana del secolo XII. Ma veniamo alle memorie che si conservano nel portichetto della basilica. V'ha ivi un'epigrafe del secolo IX in cui si legge un elenco di ricchi doni fatti al martire Valentino da un tale Teubaldo: fra quelle offerte sono ricordate due case ricoperte da terrazzi, domus solaratas con orti e vigneti, ed oggetti ad uso del culto, come liturgici e vasi sacri. Quest'epigrafe è però fuor di posto; spetta ad una chiesa dedicata al martire s. Valentino sulla via Flaminia. In quella epigrafe si dice che la chiesa era stata consacrata ai 30 novembre dell'anno 898 sotto il pontificato di Giovanni IX, colle sovvenzioni del nostro Teubaldo, al quale si dà il nome perciò di opifex. V'ha pure una scultura antica che rappresenta una specie di frontespizio di fabbrica ad otto arcate,  p603 colla seguente epigrafe, supplita nella parte mancante dal Crescimbeni:

HONORIS DEI ET SANCTE DEI GENITRICIS MARIE
PONTIFICATVS DOMINI ADRIANI PARTE EGO GREGORIVS
NOTARIVS.

Il Becker crede di ravvisare in quell'arabesco, che è unicamente ornamentale, la fronte del palazzo del papa Adriano nella via Lata, ma nulla di più falso. Ivi pure v'ha la pietra sepolcrale del camerlengo di Callisto II, in cui si ricorda la consacrazione della chiesa l'anno 1123:

ANNO D. MCXXIII IND. I. DEDICATVM
FVIT HOC ALTARE PER MANVS DNI CALIXTI
PAPE SECVNDI V SVI PONTIF. ANNO M.
MAIO DIE VI ALFANO CAMERARIVS
PLVRIMA DONA LARGIENTE.

Ho ragionato di questo personaggio a proposito delle campane della basilica di s. Maria Maggiore. Altro monumento del portico è quello che il popolo romano da molti secoli appella col nome di Bocca della verità, col quale più comunemente si suole denotare la chiesa di s. Maria. A quel marmo si rannoda una leggenda medievale. Il monumento è un enorme macigno di marmo di forma circolare della foggia d'una maschera destinato a chiudere l'imbocco d'una cloaca antica. Nel medio evo si diceva che coloro i quali pronunciavano giuramento, dovevano porre la mano nella bocca aperta di quel marmore mascherone, la quale avrebbe azzannato lo spergiuro: e con terrore o almeno con diffidenza anche oggi ai fanciulletti romani dalle loro mamme si fa porre la mano in quel foro.


[ALT dell'immagine: missingALT]

Nel 1998, il mondo si era fatto un po' più cosmopolita . . .

Il ch. prof. de Feis, dotto barnabita, in una erudita dissertazione si è posto a ricercare l'origine della curiosa e antica leggenda. Egli crede che la pietra fosse piuttosto destinata a chiusura di un pozzo sacro, ossia favissa, thesaurus, donarium, di un tempio puteale, in cui erano raccolte le acque sacre a Mercurio; ed invero i documenti del medio evo notano nelle adiacenze di s. Maria una fons Mercurii, ovvero un balneum Mercurii. Anzi narra Ovidio che all'acqua divina di Mercurio accorrevano i mercanti del vicino Foro Boario per purgarsi dei loro spergiuri colle parole: Ablue praeteriti periuria temporis; inquit, Ablue praeterita perfida verba die.º Alle quali parole  p604 (dice il poeta) il nume proteggitore dei ladri sorrideva dall'alto, comechè tinto della stessa pece: Talia Mercurius poscentes ridet ab alto — Se memor Orthigias rapuisse boves. Se l'ipotesi del dotto barnabita è probabile, la denominazione suddetta e la leggenda popolo romano si riannoderebbero al primo secolo dell'impero, e la leggenda avrebbe una storia di diciannove secoli! Quella pietra fu trasportata nel luogo ove ora si trova fino dal 1632 per opera del can. Placidi, il quale la tolse dal muro esterno della chiesa a cui da secoli era stata addossata.

Pochi anni fa dalla basilica venne a luce un importante cimelio, cioè una lamina plumbea lunga metri 5,10 ed alta metri 0.6, sulla quale, a lettere leggermente graffite, si leggeva la seguente epigrafe:

† HIC · HABENTVR · RELIQVIE · APOSTOLORVM · DE · VESTIBVS · ET · CORPORIBVS · CETERORVM · SANCTORVM · S · TIBVRTII · SVBDIACONI · S · AVREE · ET · SOCIORVM · S · CIRIACI · EPISCOPI · ET · RESTITVTE · S · CALIXTI · PAPE · S · TIBVRTII · ET · VALERIANI · S · IVLIANI · M · CERYNI · PRESBITERI · S · LVCINE · LAPIS · STEPHANI · S · FELICIS · PAPE · EMERENTIANE · SS · QVADRAGINTA · MARIA · DE · LAPIDE · SANCTI · SEPVLCRI · DEMETRI . . . . . . ET · OSSA · ALIORVM · SANCTORVM.

Questa lamina plumbea fu trovata forse in alcuno degli altari della medesima chiesa, ove nel secolo XIIXIII era stata riposta insieme alle reliquie in essa ricordate.

Nello scavarsi le fondamenta di una casa dietro questa chiesa, l'anno 1877, venne in luce un frammento di bicchiere vitreo del secolo IV adorno di imagini di santi, con figure intagliate sul vetro medesimo, fra le quali quella di s. Pietro e forse del suo successore Lino.

Nello Stato temporale delle chiese di Roma dell'anno 1660 trovo della nostra la seguente relazione:

"Il capitolo di S. M. eseguendo li comandamenti del glorioso regnante pontefice Alessandro VII secondo il prescritto dall'em̃o e rm̃o sig. card. Sforza Pallavicino e mons. de Vecchi nella Visita Apostolica riferisce quanto segue:

"Fu fondata nel tempio già della Pudicitia Patritia conformandosi con li riscontri di 10 colonne di palmi 27 di altezza che ancora nei muri di essa si vedono. Si tiene che fino dal 1236 fosse collegiata. Eugenio IV nel 1433 la soppresse alli 26 di gennaio unendola al convento di s. Paolo fuori le mura, ma Leone X la eresse nuovamente in collegiata l'anno 1573 con sua bolla 13 kal. maii costituendovi un arciprete e 9 canonici. Sta sotto il piano della strada palmi 6 è longa p. 120, larga p. 90, alta 140. La campana maggiore  p605 fu battezzata l'anno 1236, la minore il 1230. Ha tre sepolture et un cemeterio. Ha annessa la cura dell'anime che si esercita al presente da Gio. Domenico Cimirio vic. perpetuo così dichiarato dall'em̃o card. Vicario per sua patente alli 7 luglio 1656. Li suoi confini si estendono fuori di porta s. Paolo sino a quelli della diocesi di Ostia di là da s. Vincenzo e Anastasio. Possiede in tutto sc. 2050 e bai. 77‑½, i debiti 433:60."

Tali sono le notizie principali che a questa insigne chiesa si riferiscono, la quale fu già antica parrocchiale e nel secolo XVII comprendeva, come ricavo da un documento di quel tempo, focularia 115, comprehensis extra urbem, seu 560 animae. Vedemmo come fosse stabilita presso la medesima una dimora fa; ma nel secolo XVI tutto colà intorno era squallore ed abbandono, per cagione delle peggiorate condizioni climatologiche di Roma: intorno a che negli archivî segreti della s. Sede ho trovato un documento di qualche interesse. È una istanza del parroco e del canonico di s. Maria i quali chiedono al papa Alessandro VII l'indulto dall'assistenza del coro per ragioni dell'aria malsana, e la supplica è accompagnata dal seguente attestato medico:

"Noi infrascritti medici attestiamo che l'aria del sito dove sta la chiesa di s. Maria in Cosmedin è di qualità cattiva per diverse cause e per esser dominata maggiormente dai sirocchi dopo il taglio delle selve della campagna, fatte in tempo di Sisto V onde purgarle dai banditi che l'infestavano. Quindi è pericoloso il dimorare più d'un'hora e mezza in detta chiesa.

"Sottoscritti i medici fisici:

Gio. Angelo Maffei

Guido Lelii

Giuseppe Valerii

Domenico Colangeli"

S. Maria de Manu

Il Mittarelli afferma che questa chiesa fu edificata nel 1215: il ricordato codice di Torino la pone non molto lungi da s. Maria in Cosmedin, e dice che era uffiziata da un sacerdote.

Il Martinelli ne tace affatto, e con lui la maggior parte degli scrittori, tranne il Lonigo, il quale scrive che fu un'antica parrocchia. È anche registrata nell'elenco del Camerario.

 p606  S. Salvatore de Molellis

È nominata anche questa chiesa nel catalogo di Torino, e doveva essere non lungi da quella detta de Marmorata, prossima a s. Maria in Cosmedin; ma, più che chiesa, dovette essere un piccolo oratorio della seconda partita, perchè ivi si dice che ecclesia s. Salvatoris de Molellis non habet clericum. Veramente non saprei con certezza spiegare la natura di questo vocabolo, ma la prossimità della chiesa al fiume mi fa sospettare che fosse vicina a qualche edifizio a cui fossero congiunte macine e molini.

Nella pianta del Bufalini trovo infatti segnata una chiesa del Salvatore nella via della Bocca della Verità. In una carta dell'archivio di s. Alessio sono nominati un Giovanni console e duca figliuolo di Demetrio, e la sua sorella Teodora, i quali nel 987 fecero donazione a quel monastero della chiesa di s. Salvatore sotto il monte Aventino. Forse quella donazione si riferisce alla nostra o alla chiesa di s. Salvatore de Marmorata.

S. Niccolò in Schola Graeca

Il papa Niccolò I, nell'abitazione pontificia presso s. Maria in Cosmedin, edificò un oratorio alla memoria di s. Niccolò. Gelasio II lo arricchì di nobilissimi doni, di che fa parola Pandolfo da Pisa nella sua biografia.

S. Anna de Marmorata

È una chiesa che l'Anonimo di Torino nota fra quelle della seconda partita. Ne tacciono affatto e il Martinelli e il Lonigo ed altri; era vicina alla chiesa di s. Salvatore pure detta de Marmorata a piè dell'Aventino nella contrada che ritiene tuttora questa denominazione. La chiesa antica, da molti secoli è totalmente distrutta. Ma oggi, presso l'arco della Salara nella via di questo nome, v'ha una chiesolina detta s. Anna dei Calzettari, perchè nel 1745 da quella compagnia fu riedificata.

 p607  Sembra al Nibby che in origine fosse chiamata s. Maria. Nel secolo XIV aveva annesso un piccolo monastero ove dimoravano quattro monache, come si legge nel catalogo di Torino.

S. Salvatore de Marmorata

Era una chiesolina, nota pel catalogo del Camerario e per quello del codice di Torino, ove si dice che vi dimorava un sacerdote: era prossima all'anzidetta di s. Anna.

S. Niccolò de Marmorata

Il codice di Torino l'annovera fra quelle della seconda partita: Ecclesia s. Nicolai de marmorata habet unum sacerdotem; il Camerario la chiama de marmoratis. Sorgeva precisamente nel luogo detto anche le Marmorate, nella strada che conduce alla porta s. Paolo.

S. Anastasio de Marmorata

Stava non lungi dalla riva del Tevere sotto l'Aventino. Il codice di Torino la ricorda fra quelle della seconda partita siccome prossima dalla contrada omonima, che tuttora la ritiene. Il Camerario l'appella semplicemente s. Anastasio.

Era questa una delle quattro chiese urbane di s. Anastasio nell'interno della città, delle quali non restano in piedi che due solamente.

S. Maria de Episcopio

Questa è ricordata solamente dai due cataloghi, da quello cioè dell'Anonimo di Torino e dall'altro del Signorili. Ma nè il Martinelli, nè lo Zaccagni, nè il Lonigo ed altri ne fanno cenno veruno. Dall'indicazione dei due codici si può sospettare che sorgesse non lungi dalla contrada della Marmorata, poichè il primo la colloca presso s. Niccolò de marmorata; a quell'epoca la chiesa era abbandonata e cadente: Ecclesia sanctae Mariae  p608 de episcopio est sine hostiis, non habet servitorem. Forse fu ivi la residenza di uno dei vescovi suburbicarî e probabilmente dell'ostiense.

S. Foca

Questa chiesa, della quale ignorasi affatto il luogo ove una volta sorgesse, sappiamo che fu in grande onore presso i romani fino dal secolo V. Sant'Asterio vescovo d'Amasèa, nel secondo concilio niceno non dubita di asserire, benchè con evidente iperbole, che al suo tempo i romani non minus colunt Phocam quam Petrum et Paulum; et il santo ricorda pure la sua chiesa in questa città, la quale erat ei extructa insigni pulchritudine. Questo santo, invocato nell'antichità dai marinari cristiani, fu celeberrimo in tutto l'Orientale. Lo stesso Asterio descrive il pio e caritatevole costume dei naviganti cristiani nel secolo IV, di fare nel quotidiano desinare la parte di Foca in favore dei poveri. Una bolla di Gregorio VII, fra i luoghi dipendenti dal monastero di s. Anastasio alle acque Salvie registra anche l'ecclesia s. Phocae. Il ch. signor Leone Nardoni ha dimostrato che la chiesa era sita infra urbem e forse non lungi dalla Marmorata, luogo opportuno ai naviganti e al celeberrimo emporio romano. Ciò corrisponde anche con una notizia edita dal ch. De Rossi, d'un lungo passo di Pirro Ligorio che accenna ad una chiesa edificata sotto le radici dell'Aventino presso la ripa del Tevere, distrutta da incendio. È noto che quell'insigne falsario soleva intessere le sue menzogne di notizie vere, massime topografiche. Egli chiama di s. Hermo la chiesa subaventina, che fu probabilmente, secondo le sagaci congetture del Nardoni, il santuario di Foca, il martire di Sinope caro ai naviganti dell'Arcipelago e dell'Asia minore.

S. Lazzaro

È una cappella sotto il monte Aventino, da cui prese il nome l'arco che tuttora dicesi di s. Lazzaro alle Marmorate.​b

Annesso alla chiesolina vi fu un tempo un lazzaretto di lebbrosi, allorchè questo orrido malanno cominciò a serpeggiare in Occidente nel periodo delle ultime crociate.

 p609 

S. Ermo

Il Ligorio, motissimo impostore e falsario del secolo XVI di antiche iscrizioni, nel volume XXIII dei suoi mss. che si conservano nella biblioteca di Torino, ricorda che presso la riva del Tevere fu la chiesa di s. Hermo sotto le radici del monte Aventino ove hora ogni cosa è ridotta in piano et fatto giardino della nobilissima et illustre famiglia Gonzaga. Che ci sarà di vero nelle favole di questo illustre mariolo? Pure, trattandosi di una chiesa vicina al fiume e in luogo di approdo delle navi, non è del tutto improbabile che ve ne fosse una dedicata a quel santo, che i marinari invocavano sotto il nome di s. Elmo o Ermo; cioè il b. Pietro Gonzalez, chiamato dai navigatori portoghesi s. Telmo.

S. Lorenzo in Bascio

Fra le chiese del catalogo del Camerario abbiamo s. Lorenzo de Bascio (sic). Sull'origine di questo nome si potrebbe proporre molte ipotesi; la più ovvia risulta dalla natura del nome in bascio, ossia in luogo basso.

Io sospetto adunque che sia quella chiesuola medesima che nel secolo XIV fu detta non più de bascio, ma iuxta flumen, e che il primo nome lo desumesse dal sito forse assai depresso del suolo, detto nella pronuncia volgare del tempo bascio per basso, profondo; chiesuola che secondo il suddetto catalogo di Torino è da ricercare presso la contrada della Marmorata.

S. Giacomo in Orreu

Così il codice di Torino, che novera la chiesa fra quelle della seconda partita: Ecclesia s. Iacobi in Orreu non habet servitorem; segno che era nel secolo XIV mezzo abbandonata.

In altro documento fu pure detta in horreis, e nei regesti di Onorio III si fa parola del cappellano di questa chiesa, il quale doveva condursi alla prossima di s. Sabina pro scrutinio, baptismate, processione et capitulo contra abbatem s. Gregorii ad clivum Scauri. Il Martinelli di questa chiesa non fa menzione alcuna, ma il Mittarelli dice che era entro la vigna  p610 di s. Alessio all'Aventino (Priorato), e precisamente fra il Tevere e il monte Testaccio. Ai tempi di Giovanni XXII diceasi anche in hortis, come ho trovato nei suoi regesti.

Il nome in Orreu della chiesa è interessante per lo studio della topografia dell'antica Roma, poichè rammenta gli attigui pubblici magazzini del grano che erano in quel luogo, come abbiamo da Livio. Esisteva ancora sotto Pio V, perchè nel catalogo di quel papa, da me rinvenuto nell'archivio vaticano, si nomina la chiesa di s. Iacomo al monte Aventino.

S. Giovanni in Orreu

Anche questa chiesa è ricordata nel catalogo di Cencio Camerario ed in quello di Torino, il che ne dimostra l'alta antichità e l'importanza, poichè le spettavano inoltre sei denari di presbiterio.

Era nella contrada di Marmorata, ove furono i grandiosi magazzini dell'antica Roma e dei celebri orrei galbiani, donde orrea nel medio evo fu denominata tutta quella regione.

Il codice di Torino pone la chiesa fra quelle della seconda partita: ecclesia s. Ioannis in Orreu habet unum garrabaitum.

Ss. Pietro e Martino

Un'altra antica chiesa, ovvero oratorio dedicato a s. Pietro, a cui poi fu aggiunto anche il titolo di s. Martino, sorgeva ai piedi dell'Aventino presso le Horrea publica, a Marmorata. Congiunto all'oratorio v'era un monastero, di cui si fa menzione nella donazione fatta dal conte Balduino nel sesto anno del pontificato di Giovanni XII al monastero dei ss. Andrea e Gregorio al Clivo di Scauro. Questa chiesa è ricordata anche nel catalogo del Camerario a proposito del noto presbiterio, ove è precisamente posta immediatamente dopo s. Giovanni in Orreu.

S. Geminiano

Di questa chiesolina il Lonigo fa parola, benchè brevissimamente, dicendo che era un'antica parrocchia. Del resto, lo stesso Martinelli ne tace affatto. Nel secolo XIV ancora esisteva, poichè l'Anonimo di Torino l'annovera fra quelle della  p611 seconda partita, ma era priva affatto di clero: Ecclesia sancti Geminiani non habet servitorem. era alle falde dell'Aventino dalla parte di Marmorata; ciò risulta dall'indicazione generica che ne somministra il suddetto codice taurinense, il quale l'aggruppa fra quelle situate alle falde del monte Aventino. Nella lista di Cencio Camerario apparisce fra le chiese a cui nella solennità dei turiboli spettavano sei denari di presbiterio. Nel secolo XV sembra fosse totalmente scomparsa.

S. Stefano Rotondo ovvero delle Carrozze o S. Maria del Sole

Nel secolo XII così era denominato il bellissimo tempietto anonimo in riva al Tevere presso s. Maria in Cosmedin e che era stato dedicato a s. Stefano dalla famiglia Savelli; poscia si disse s. Stefano delle Carrozze, dalla vicina omonima strada che in linea retta conduce dietro s. Galla.

Il Bruzio narra una pia leggenda che alla storia della chiesa si connette e per la quale essa cambiò il nome in quello di s. Maria del Sole.

"L'anno 1560, così egli, in quelle adiacenze viveva donna Geronima Latini vecchia di 115 anni che a Dio aveva la sua verginità dedicata. Il fratello di lei, passando sul Tevere vide galleggiare un'imagine della Vergine dipinta in papiro e la prese e la dette alla sorella che fra le gemme del suo scrigno la chiuse. Dopo alcuni giorni nell'entrare nella camera vide l'imagine risplendente come il sole e così cinta da raggi. Tutta Roma accorse alla fama del prodigio, e dal miracolo fu detta la Vergine del Sole, cambiandosi in edicola l'atrio di quella casa. Poi l'arciconfraternita della s. Croce presso s. Marcello trasferì nel suo nuovo oratorio quell'imagine incidendone in marmo la seguente memoria:

I . O . M . HIERONYMAE DE LATINIS E NOBILI PROSPAIA MATRONAE QUAE PUDICITIA CARITATE ET CASTITATE OMNES SUI TEMPORIS EXCELLUIT HUIUS ORATORII EXCITATRICI QUAE CUM AD CENTUM QUINDECIM SUAE AETATIS ANNUM VIRGO PERMANSISSET HAUD IMMATURA MORTE FUNCTA EST . PIA SOCIETAS CRUCIFIXI."

Nel codice di Torino la chiesa è detta s. Stefano Rotondo, è posta nella seconda partita, e si dice che era servita da  p612 un sacerdote: lo stesso leggesi in quello del Camerario a proposito dei sei denari di presbiterio, ed in quello del Signorili; nei quali tre cataloghi questa di s. Stefano Rotondo è sempre ben distinta dall'altra chiesa del Celio chiamata s. Stefano in Coelio monte. Il nome di Rotondo a quest'ultima vu attribuito assai tardi, cioè dopo che la nostra fu abbandonata e cambiò il primo in quello di s. Maria del Sole; ed infatti anche nella relazione delle visite fatte sotto Alessandro VII si legge: Ecclesia s. Stephani rotundi supra flumen. Il Terribilini scrive che si diceva pure s. Stefano delle Colonne. La chiesa è ora profanata.

Questo elegantissimo tempio romano, detto volgarmente di Vesta, è costrutto in marmo lunense, ed è circondato da venti colonne scanalate dello stesso marmo d'ordine corinzio. Può ritenersi opera d'artefice greco, ma s'ignora a quale divinità fosse consecrato; il nome volgare di Vesta è fondato solamente sulla sua forma circolare, perchè il tempio di Vesta sorgeva nel Foro Romano, ove se ne veggono gli avanzi. Alcuni opinano che il nostro fosse l'aedes rotunda Herculis, ricordata da Tito Livio, ma più probabile e accreditata è l'opinione che debba riconoscervisi il tempio di Cibele ovvero di Matuta.

S. Maria Egiziaca

Anche questo è un tempio antico con colonne scanalate di nobile struttura. Si crede dedicato alla Fortuna Virile, secondo molti pretendono, e secondo altri a Giove ed al Sole, ricavandosi ciò da un'antica iscrizione fatta rinnovare dal cardinale Giulio Santorio; ipotesi però che non hanno fondamento alcuno.

L'epigrafe del Santorio è la seguente:

HOC DVDVM FVERAS FANVM PER TEMPORA PRISCA

CONSTRVCTVM PHOEBO MORTIFEROQVE IOVI

Sotto il pontefice Giovanni VIII, nell'anno 872, fu dedicato a Maria Vergine da un suo divoto di nome Stefano. Nel 1560, essendo venuto a Roma Saphar Abgaro ambasciatore del re d'Armenia mandato a Pio IV, questo pontefice concedette alla nazione di lui una chiesa; ma questa essendo poi stata distrutta per fare il ghetto degli ebrei, gli armeni ottennero da s. Pio V la presente.  p613 Gregorio XIII provvide coloro che la offiziavano di quanto ad essi bisognava per vivere, e Clemente XI ristorò ed abbellì la chiesa, come pure lo spedale annesso, ove alloggiavan i pellegrini armeni che venivano a visitare i luoghi sono di Roma.

Nell'altar maggiore il quadro di s. Maria Egiziaca, a cui il santuario fu dai nuovi possessori intitolato, è opera di Federico Zuccari, fratello e scolaro di Taddeo, uomo di grande ingegno, ma che spesso fecene abuso così nell'arte, come pure nelle scrivere intorno ad essa. Entrando in questa chiesa osservasi a mano sinistra il modello della cappella del santo Sepolcro di Gerusalemme. La chiesa era mantenuta ed offiziata da' monaci armeni, che il dì 8 aprile celebravano la festività della santa, e sulla piazza che le rimane di prospetto si leggono alcuni framentiº di memorie poste ad alcuni personaggi di quella nazione. Oggi poi che la congregazione degli armeni è stata trasferita a s. Biagio in via Giulia, il luogo è custodito da una confraternita.

Il Sodo dice che questa chiesa fu data da s. Pio V

"alla natione d'Armenia l'anno 1571. Pio V la dette in contraccambio della chiesa di s. Lorenzo situata vicino a ponte quattro capi appartenente alla detta natione, demolita e profanata d'ordine del suddetto s. pontefice ad effetto d'ingrandire il ghetto per la natione ebrea. Egli allora soppressa la parrocchia di s. Maria Egiziaca la dette con tutte le sue dipendenze agli Armeni con breve anno 1566 anno primo, e furono confermati da Gregorio XIII 1574. Il diritto parrocchiale fu trasferito alla chiesa di s. Maria in Portico, ma essendo questa troppo distante e non comoda pei fedeli, la trasferì a s. Maria in Cosmedin. Dal 1571 all'anno 1700 i singolari vicarii di s. Maria in Cosmedin goderono il pacifico possesso della cura ed esercitarono i diritti parrocchiali nelle chiese di s. Maria Egiziaca e sugl'Armeni che vi abitarono. Quando il quell'anno 1700 coll'occasione della sepoltura di un certo Baldassarre Leone in s. Maria Egiziaca, gli Armeni si ricusarono di pagare al curato l'emolumento, onde cominciò una lunga lite di cui vi è questa la posizione in archivio. In questo carteggio vi ha una lettera autografa di Giuseppe Assemani in data 10 luglio 1727 in cui dice che nel mese d'ottobre dell'anno antecedente fu fatto chiamare dal card. Sacripante il quale gli disse: che gli era stato denunziato dal sig. don Stefano confessore nella chiesa di s. Maria Egiziaca che il sig. don Gregorio custode della medesima chiesa avea venduto ad un tal Abramo armeno di Costantinopoli un grosso libro manoscritto in lingua armena intitolato Giarranter ovvero libro di narrazioni per il prezzo di  p614 tre scudi moneta, che l'istesso sig. card. avea fatto chiamare l'istesso Abramo armeno e sotto pena del carcere gli avea intimato di mostrare il ms. a s. G. che lo voleva far esaminare perchè giorni era stato detto che contenesse delle eresie.

"Portato dal card. il ms. fu invitato l'armeno a dirne il contenuto; et era un manoscritto rarissimo e di gran pregio e suggerì che fosse posto nella Biblioteca Apostolica del Vaticano siccome si fece ecc."

S. Maria de Ponte

Nella cronaca di suor Orsola Formicini, si fa menzione d'un antico oratorio dedicato a s. Maria, che la erudita abadessa dice situato sul ponte di pietra.

Ora è noto che pons lapideus, italianamente di pietra, era chiamato il Fabricio, oggi Quattro Capi: quindi l'oratorio sorgeva sulla testa di quel ponte. Quanto alla denominazione anzidetta, mi sembra probabilissimo che la medesima provenisse dalla cattiva pronuncia del nome LEPIDVS, che si legge sull'epigrafe monumentale del ponte insieme a quello di Q. Lollio, sotto al cui consolato quel magnifico monumento fu compiuto.

Ss. Lorenzo de Flumine (v. S. Lorenzo de Gabellutiis)

S. Lorenzo de' Cavallucci o de Gabellutiis

Era una chiesolina filiale di s. Niccolò in Carcere. Nell'archivio capitolare di questa collegiata ho trovato un documento dell'anno 1578, in cui si nomina: ecclesia parrocchialis s. Laurentii prope pontem S. Mariae in regione ripae. Stava dunque presso il ponte Fabricio. Nel suddetto archivio si conserva pure copia d'una bolla di Gregorio XIII in data 8 agosto dell'anno 1558, in forza della quale viene congiunta la chiesa di san Lorenzo de' Cavallucci alla collegiata di s. Niccolò in Carcere. Si chiamò anche de' Cavallini, de Caballis, Petri Leonis, de Flumine.

L'anno 1572 Pio IV concesse la chiesa agli Armeni, ma sotto s. Pio V separato il ghetto dalla abitazioni dei cristiani, la chiesa restò compresa dentro il serraglio degli ebrei, onde rimasta deserta e profanata, gli Armeni furono trasferiti presso  p615 s. Maria Egiziaca. Io dubito che questa chiesa sia la medesima che trovasi chiamata in qualche documento de mundezzariisde mundezzarie, dai cumuli forse delle sporcizie radunate nelle sue vicinanze.

S. Caterina di Porta Leone

Di questa chiesa, oggi distrutta, la più diffusa notizia che abbiasi è del Lonigo nel suo manoscritto, il quale così ne scrive: "Havea anticamente questa santa una chiesa in Roma nel rione di Ripa a piazza Montanara non molto lungi da s. Nicola in Carcere, che si diceva s. Caterina di porta Leona, la quale fu distrutta pochi anni sono, et se ne vedono ancora vestigia."

Il Martinelli si limita a dirci unicamente che era sub Tarpeio e che fu diroccata l'anno 1587.

S. Maria in Cathincio

È una chiesa assai antica, di cui il Galletti ricorda il rettore dell'anno 1403. Benedetto XIII ne soppresse la cura parrocchiale. S'intitola oggi della Divina Pietà, perchè ivi si raccoglie una congregazione di signori laici, i quali hanno la cura di sovvenire le famiglie onorate e bisognose. Nel codice di Torino è chiamata s. Gregorio de ponte iudaeorum, e si dice che habet unum sacerdotem; dal Camerario è detta de ponte. In una relazione delle visite fatte nel secolo XV alle chiese della città, ho trovate le seguenti notizie intorno alla nostra, che io qui riferisco esattamente, massime perchè questa sarà forse demolita per i lavori del Tevere.

"La chiesa parrocchiale di s. Gregorio al ponte rione di Ripa nel Trivio de Macelli della mala carne sta incontro alli due portoni del ghetto; si ha per antica traditione et massime  p616 del quondam padre Gaetano benedettino e dal quondam padre Lupo domenicano essere stata la casa ove s. Silvia partorì detto santo. Questa chiesa si vede eretta sopra portici antichi sotterranei vicini a molte altre case in riva al Tevere, le quali dimostrano gli stessi portici e volte fortissime dove erano le case degli Anici i quali poi furono chiamati Francipani, da quali nacque Giordano senatore di Roma padre di s. Gregorio Magno, che fu padrone di queste et altre case a s. Saba vicino a porta s. Paolo et al monte Celio. La struttura di detta chiesa è antica modernaº longa palmi 40, larga palmi 30, alta palmi 30. La sacristia è longa palmi 20, larga 10. Il tutto ha tre navate. L'habitatione per il parroco è sovra la facciata con distrutti stanze piccole et un'altra in luogo del coro e di sopra un'altra a tetto che va al campanile. Il detto campanile è partito da scissure con qualche pericolo con una campana di tre palmi, et un altra d'un palmo. Il parrocchia presente vi celebra quotidianamente, ma non vi ha obbligo se non per le feste alla concorrenza del popolo. Quattro anniversari annui vi si celebrano per li defunti, cioè dal Confalone,º da s. Maria dell'Horto, e dalla Consolatione; ma quello di S. Giovanni in Laterano da quattro anni non si vede. Ha il tutto un'isola quadrilatera angusta di sito con una sepoltura, senza pozzo, e cantina, nè sito da potersi fare. Si vedono tutti e quattro gli angoli, e la tribuna esteriore scantonati e guasti dagli urti continui di carrettoni e carrozze: si vede la facciata per tutto lacerata: si vedono anche gli stipiti della porta e li scalini rotti, et anco più volte li timoni delle carrette hanno sfondato e schiodato le palestriere di detta porta, non bastandovi il risanamento più volte fatto dal curato. Il cantone ove era una colonnetta a scarpa per difesa del campanile crepato, fu tirata indietro per comandamento del maestro di strade, et hora le carrette con rote ferrate fanno dano maggiore per tutto et al detto campanile. Vi fu un altro benefattore che per compassione voleva farvi un murello con colonnette basse per evitare tanti danni, ma li mastri di strade non volsero. La cura delle anime si esercita dal presente parroco, e l'ottenne in concorso pubblico il 1652 a dì 8 aprile, essendovi stato molti mesi prima per economo.

Li confini della detta parrocchia sono fino al porte: dall'altro lato sono verso le case degli antichi Anici fino alla stalla dell'arco dei ss. Savelli, dell'altro lato della casa del Forno fino al muro del seraglio degli hebrei inclusive, l'altra parte e tutte le case isolate che riguarda Monte Savello. In  p617 tutto sono case sette, casate quaranta, anime circa 160. La maggior parte di detta parrocchia sta nel ghetto dal primo anno del detto pontificato di Pio V s. m. quale serrò gli hebrei, li quali solevano pagare a detta chiesa un baiocco il mese chiamato pretatico per foco per ricompensa della perdita di tante case, ma hora quest'entrata svanisce come si dirà a suo luogo. Vi sono degli hebrei più di 40 Cesare, ma il numero delle anime non lo vogliono dire.

Dote e beni della chiesa.

"Consistono in un botteghino dello Scarpinello.

In un altro botteghino di Racino macellaro della Bufola per lo scortico dei cavalli. Consiste in una casa molto antica nella piazzetta dietro a detta chiesa verso il Tevere, divisa in sette stantione per gente povera e minuta. Sotto vi sono alcune cantinaccie, ma non si affittano, sì per alluvione del Tevere, come anco per causa de condotti immondi. Sono tutte antiche macerie e spesso vi bisognano risanamenti. Possiede un'altra casa nel cantone di detta piazzetta incontro la tribuna di detta chiesa, e l'altra facciata riguarda il Monte Savelli; questa è sostenuta da speroni per essere antica e murata a tarteresco e crepata in più luoghi, non vi è sfoghi, confina anche con la casa di Ottavio de Mazzatosti detto Pierleoni. Possiede un annuo canone di barili cinque di mosto sopra una vigna di Donato Pozzi di pezze 15 et oggi è la metà di Benedetto Pagano notaro dell'Agricoltura alla rotonda.

"N. B. Il Pretatico da pagarsi dagli hebrei è una esattione in ricompensa di molte case che rendeano emolumento a detta chiesa quali sono incluse nel ghetto. Questo credito è divenuto impossibile da esigersi dal curato, perchè o non basta che egli vada hostiatim con li sbirri et sentire mortificationi, ingiurie et bestemmie, ma alcuni si serrano dentro, altri attaccono carte di locanda, altri non vogliono pagare per le botteghe dove hanno il loro guadagno, altri mostrano inhibitioni. Et perchè non torna al curato andare oggi giorno alli strepiti di tribunali et litigare con giudei, ne meno li è lecito di ascendere nello loro stanze abominevoli per accertare il numero de fochi, vi manda li sbirri e questi ricevono mancie, non renunciando al curato il giusto numero benchè li paghi, et vogliono da esso la mancia oltre li suoi diritti; sicchè dove anderebbero queste entrate a scudi sedici o quindici l'anno incirca, a fatiga se ne ritrahe scudi sette o otto incirca."

 p618  S. Giovanni de Insula o Cantofiume
(S. Giovanni Calibita)

Nel secolo XIV questa chiesa era servita da cinque chierici, così l'anonimo di Torino: Ecclesia s. Ioannis de insula habet v clericos in totaliter, est destructa, cioè diruta. Quel nome lo avea fino dai tempi di Cencio Camerario, il quale la pone fra le chiese cui si distribuiva il consueto presbiterio: la troviamo dal Martinelli detta inter duos pontes, dal Lonigo in iuncho (sic). Era antichissima, ed il padre Casimiro d'Aracoeli dice che fu arsa dai soldati di Genserico e riedificata nel 464 da Pietro vescovo di Porto, sotto la cui giurisdizione era appunto l'isola tiberina, oggi detta di s. Bartolomeo. Si discorre della chiesa in una bolla di Benedetto VIII, e si vuole che sorgesse nell'area dell'attuale, dove per molti secoli dimorarono monache benedettine. La chiesa di s. Giovanni Calibita, ove è l'ospedale dei Fate-bene-fratelli, fu costruita sulle rovine dell'antica nel secolo XVI ed allora si scoprì sotto l'altar maggiore il corpo del Calibita. In una relazione della visita fatta alle varie chiese di Roma sui primordî del secolo XVI, che ho trovato negli archivî della s. Sede, v'hanno le seguenti osservazioni: Est parrocchialis et moniales monasterii contigui ecclesiae provident capellano et modernus est quidam dominus Andrea de Corellis de Carpineto cui mandatum est ut de coetero incedat in habitu clericali conveniente cum sottana, et non deferat camisias cum flocchis prout deferebat. Sunt in parochia familiae 27. Il Galletti riporta un documento del 1461 d'una domina Ioanna de Malpileis abbatissa monasterii s. Iohannis Cantofiume sepulta in dicta ecclesia.

Formoso vescovo di Porto e poi papa trasferì a Roma in questa chiesa le reliquie di detto santo con quelle dei martiri portuensi Ippolito, Damiano, Ercolano.

Nello Stato temporale delle chiese di Roma così leggo di questa: "È dell'ordine del b. Giov. di Dio: è situata nell'isola di s. Bartolomeo: fu fondata et eretta l'anno 1584 e sempre dall'istessa religione, della compagnia de Bolognesi con autorità del signor card. Savelli Vic. di P. Gregorio XIII. La chiesa ha l'altar maggiore con tre altri altari et una cappella della b. Vergine e un campanile con campane n. 5, sepolture  p619 n. 5, un cemetero ove si sepeliscono l'infermi che morono nell'Hospedale. Tutta l'entrata e lemosine somma a sc. 33 b. 3: 95. Il convento possiede una chiesa con orto e giardino e habitatione posta nella via felice adimandata la Madonna della Santità ove vi habita un religioso con un Terziario e vivono de quelle elemosine che vanno facendo quotidianamente, l'orto l'appigionano a sc. 20 l'anno. Detto luogo fu comprato dalla Religione parte dell'anno 1585 e parte in altro tempo come si vede dalle scritture del Varchiritio. Confina con li beni dei padri di s. Pudenziana e rr. monache di s. Lorenzo in Panisperna e la sig. Clarice Muti et strada publica."

La facciata della chiesina attuale è di Luigi Barattoni; il quadro dell'altar maggiore è di Andrea Generali detto il Sabinese.

S. Maria cantofiume o S. Maria dell'Isola o S. Benedetto all'Isola

Anche questa chiesolina era nell'isola del Tevere o di s. Bartolomeo. È mentovata in una bolla di Bonifacio IX come soggetta a quella delle Santuccie di s. Maria in Iulia (s. Anna dei Falegnami); viene appellata anche s. Maria iuxta flumen.

Nel 1366 Urbano VI con bolla del 15 di novembre ordinò che l'abadessa e le monache di s. Maria Cantofiume si unissero alla chiesa di s. Giovanni dell'isola.

Nel 1485 Innocenzo VIII confermò lo statuto e gli ordini del capitolo generale del monastero di s. Maria in Iulia, confermando eziandio che quello di s. Maria Cantifiume nell'isola venisse soggetto al detto di s. Maria in Giulia. L'anonimo di Torino la chiama a flumine, il Signorili iuxta flumen, il Camerario s. Maria fluminum. Quest'ultima denominazione ci fa indovinare il luogo preciso della chiesa, che era nel punto ove il Tevere biforca come in due fiumi al principio dell'isola oggi detta di s. Bartolomeo. Apparteneva alle chiese dell'ultima partita, e sul principio del secolo XIV era abbandonata, come ricavo dalle parole del codice di Torino, ove si dice: Ecclesia S. Mariae a flumine non habet servitorem.

Fu già in quel luogo un antichissimo monastero di religiose benedettine, alla cui riforma attese sulla fine del secolo XIII Santuccia Terrebotti di Gubbio. Da quelle religiose la chiesa fu  p620 pure chiamata s. Benedetto all'isola. Sui ruderi di quella chiesa e dell'antichissimo monastero delle Benedettine appellate le Santuccie, le quali vennero trasferite a s. Anna de' Funari, fu edificato poi l'ospedale dei Fate-bene-fratelli. Nel catalogo di s. Pio V è detta s. Maria presso fiume.

Ss. Adalberto e Paolino
(s. Bartolomeo all'Isola)º

È questa la celeberrima basilica, che appellasi oggi di s. Bartolomeo all'Isola, la quale col suo territorio dipendeva dalla giurisdizione del vescovo di Selva Candida, che avea presso la chiesa la sua abitazione come luogo di residenza.

Leone IV la tolse a questa diocesi e la unì a quella di Porto. Sorse sulle rovine del famoso tempio di Esculapio, dove era il famoso simulacro del serpente trasportato da Epidauro, al quale gli infermi risanati soleano sciogliere i loro voti. Nelle odierne lavorazioni tiberine che intorno all'isola si sono praticate, venne infatti a luce dall'alveo tiberino una quantità enorme di voti fittili, cioè braccia, gambe, occhi, piedi, ecc. che la superstizione pagana offriva al nume.

La chiesa nel medio evo fu appellata s. Bartholomeus a domo Ioannis Cagetani. Infatti era prossima al castello dei Gaetani, il quale sorgeva proprio a ridosso del ponte Quattro Capi, colla torre che oggidì tuttavia si mantiene e che fra breve sarà barbaramente demolita. Il Ciampini, per errore, attribuì questa denominazione alla chiesa di s. Leonardo a piazza Giudea.

L'origine della chiesa non risale al di là del secolo X, poichè fu dedicata alla memoria del celeberrimo Adalberto, vescovo di Praga, verso l'anno 997, la cui edificazione si attribuisce al giovane imperatore di Germania Ottone III, che vi collocò le reliquie di quell'illustre martire, insieme a quelle dei ss. Paolino di Nola, Bartolomeo, Esuperanzio e Marcello. Ottone III detto il Sanguinario, espugnata Benevento, tolse a quella città il corpo di s. Bartolomeo e trasportollo in Roma coll'intento di condurlo in Sassonia; ma, prevenuto dalla morte, rimasero qui le reliquie dell'apostolo.

 p621  Sull'architrave della porta maggiore v'ha scolpita l'epigrafe ricordante il fatto, che è dell'anno 1113, in cui era papa Pasquale II:

✠ TERTIVS ISTORVM REX TRANSTVLIT OTTO . PIORVM CORPORA QVIS DOMVS HEC SIC REDIMITA . VIGET ANNO DNC . INC . MILL . C . XIII . IND . VII . M . .º APL . DIE . IIII TPRE PSCL . II . PP . QVE DOMVS ISTA GERIT SI PIGNORA NOSCERE QVERIS CORPORA PAVLINI SINT CREDAS BARTHOLOMEI.

La chiesa fu orribilmente danneggiata dall'inondazione del Tevere dell'anno 1557. Cadde in quella catastrofe la fronte della medesima, che era ornata di musaici, dei quali conservasi oggi solo un frammento della figura del Salvatore col libro aperto, nel quale leggonsi le parole: EGO SVM VIA VERITAS ET VITA. Questo frammento fu collocato nel coro sopra il portico attuale.

L'impeto della corrente travolse anche la confessione ed il ciborio sostenuto da quattro colonne dell'anno 1284, opera del maestro Ognissanti Callarario de' Tederini. Quelle colonne che erano di porfido, vennero impiegate l'anno 1829 nella galleria degli arazzi al Vaticano. Resta nella chiesa il pozzo delle reliquie, opera dei marmorari romani del secolo XII, e forse di quel Niccolò di Angelo Vassalletto, che fece il famoso candelabro del cereo pasquale della basilica ostiense di s. Paolo. Vi si legge in giro l'epigrafe: † OS PVTEI SCI CIRCVDANT ORBE ROTANTI. La memoria dei lavori fatti nella confessione sotterranea della chiesa dal celebre marmorario suddetto nell'anno 1180, fu conservata dal celebre card. Tarugi nelle sue memoria, esistenti nella biblioteca vallicelliana. Egli è lo stesso Niccolò che fece l'altare di Sutri nel 1170, e che, non solo fu architetto e scultore, ma anche musaicista, come ha dimostrato recentemente il ch. signor Frothingham,º il quale ha trovato che i musaici dell'antico portico di S. Giovanni in Laterano, di cui nella biblioteca barberina esistono alcuni lucidi presi da disegni del secolo XVII, erano opera dello stesso Nicolaus Angeli.

Ho trovato nell'archivio vaticano i conti della fabrica di s. Bartolomeo all'isola pei restauri fatti nel 1583. Nella bolla di Benedetto VIII data l'anno 1019, il possesso di questa chiesa e dell'isola è confermato al vescovo di Porto, sotto la cui giurisdizione si trovava. La chiesa fu riedificata dal card. Santorio sotto Gregorio XIII, che rialzò la nave destra servendosi di Martino  p622 Lunghi il vecchio: fu compiuta nel 1625 sotto Urbano VIII che vi rifece il soffitto, il portico e la facciata.

È divisa in tre navi, rette da quattordici colonne di granito e di marmo: sotto l'altar maggiore v'è una preziosa urna di porfido in cui si venerano le reliquie di s. Bartolomeo, di s. Paolino vescovo di Nola, Esuperanzio e Marcello: gli affreschi della seconda e terza cappella a sinistra sono di Antonio Caracci. Il Lonigo, per errore di scrittura, non intendendo le parole Ioannes Caietani, nomina nell'isola una chiesa di s. Bartolomeo Capo Cavi (sic), che è evidentemente l'attuale.

S. Tommaso d'Aquino

Da un documento dell'anno 1368, che ho trovato nell'archivio vaticano, con la data dei 24 maggio di quell'anno, mi sembra con certezza poter affermare che una chiesa al gran maestro della filosofia cristiana fosse innalzata in Roma un secolo circa dopo la sua morte. Il documento è del tenore seguente:

24 maii 1368. Nicolaus et Mathiotius fratres germani filii qu. Pauli Petri de Cinthis de reg. arenule vendunt magnifico viro Luce q. Iacobi de Sabello medietatem integram omnium et singularum domorum ac casamentorum et locorum, que medietas est pro indiviso cum dominio Petri Leonis et Homodeolo de Buccabelly not. idest plures domus et palatia sita in regione Ripe iuxta suos fines ut in d. instrumento asseritur de pluribus domibus et palatiis ac antiquis edificiis cum cryptis et hortis posite sunt in monte ubi est ecclesia s. Tome de Aquino communia pro indiviso cum Cola de Sabello Ant. de Sabello seu Ec. Dom. Homodeolo predictis positis in dicta regione Ripe Marmorate Campitelli s. Adriani ut ex instrumento de Scambis rogato.

Questa chiesa era presso Monte Savello, nella via che conduce alla piazza della Bocca della Verità.

S. Cecilia Montis Farfae

Il catalogo di Torino pone immediatamente dopo s. Niccolò in Carcere una chiesa di s. Cecilia, presso la quale dice che abita un sacerdote: habet unum sacerdotem; egli la distingue da quella di s. Cecilia de Pantaleis, della quale si parla altrove, e che era non molto lontana da questa. Il nome della chiesa dimostra che dipendeva dalla celeberrima abazia.

 p623  S. Niccolò in Carcere Tulliano

Sulle ruine di due antichissimi tempî romani sorge quest'insigne diaconia. Si favoleggiò che quegli avanzi appartenessero al tempio della Pietà, che Roma repubblicana avrebbe edificato in onore di una matrona che col suo latte nutriva il padre condannato in quel luogo. Quelle ruine spettano invero ad un tempio della Pietà, eretto nel Foro Olitorio l'anno 604 di Roma, ma votato alla Pietà da Acilio Glabrione per la vittoria da lui riportata contro Antioco alle Termopili, tempio che fu però dedicato dal figlio del vincitore. Avanzi nobilissimi restano ancora dell'edifizio, cioè la trabeazione in pietra albana (peperino) nel lato sinistro esterno della chiesa attuale di s. Niccolò, e due colonne nell'angolo sinistro della chiesa medesima; restano inoltre le magnifiche sostruzioni in grossi paralellepipedi pur di pietra albana sotto la chiesa che nel medio evo furono ridotte ad uso sacro.​c Quei sotterranei fino dal secolo XIV furono giudicati gli avanzi d'un carcere che poi con confusione del vero tullianum nelle latomie del Campidoglio, onde poi ebbe origine la leggenda anzidetta. Questa denominazione risale almeno al secolo XIV; infatti non solo nel codice di Torino, ma la trovo anche in altri documenti, come risulta dal seguente dell'archivio di Avignone.

Collatio canonicatus et praebendae ecclesiae s. Nicolai in carcere Tulliano de Urbe per Angeli Dominici Petri Leonis de Pierleonibus resignationem permutationis causa in canonicatum et praebendam basilicae Principis Apostolorum de eadem urbe vacantium pro Urso Neapoleonis ac filiis Ursi.

Oltre il tempio della Pietà, restano pure le tracce nel sito medesimo con altro tempio incerto, creduto da alcuni della Speranza, da altri di Matuta. Non è però del tutto estranea alla storia la denominazione in carcere, attribuita fino dalle sue origini a questa antichissima diaconia. Plinio scrive infatti che un carcere esisteva veramente in quelle adiacenze, da non confondersi certamente col tulliano: et locus ille eidem consecratis deae C. Quinctio M. Acilio Coss. Templo Pietatis extructo in illius carceris sede ubi nunc Marcelli theatrum est. Di quel  p624 carcere durò la reminiscenza anche nei secoli più inoltrati di Roma cristiana, poichè è mentovato nel libro pontificale nella biografia di Adriano I.

Le parole del citato libro sono le seguenti: deductisque elephanto in carcerem publicum illic coram universo populo examinati sunt. Ora, è noto che in mezzo al Foro Olitorio (piazza Montanara) sorgeva il simulacro dell'elefante erbario e la contrada perciò era detta ad elefantum. Quindi mi sembra probabilissimo che le parole del libro pontificale accennino ad un carcere situato poco lungi dalla nostra chiesa di cui tuttora ritiene la denominazione. Presso la medesima sorgevano nel XII secolo i palazzi della celeberrima famiglia d'origine giudaica dei Pierleoni, i quali sparirono negli ultimi secoli; ma il nome di portaleone della località vicina ne ricorda tuttora il sito. Il Panvinio nella prefazione alle sue Sette Chiese, dove parla dell'origine de' Diaconi Cardinali, pone la diaconia di s. Niccolò in Carcere tra le diciotto che egli crede istituite ai tempi del magno Gregorio. Ma il primo diacono di questo titolo di cui il nome ci sia pervenuto è Crisogono, sotto Pasquale II nel 1106. Anche Niccolò III fu già cardinale diacono di s. Niccolò in Carcere; poi, divenuto papa, restaurò la chiesa. In un'epigrafe, oggi perduta, leggevasi la seguente memoria:

HAS DE VRSINIS FECIT POSTES LEVITA IOANNES

Prima di Niccolò III v'avevano posto le mani Felice IV e Bonifacio IV. Più tardi, nel secolo XV, fu di nuovo rinnovata da Alessandro VI. Allo stile odierno fu ridotta nel 1599 dal cardinale Pietro Aldobrandini, che la restaurò con i disegni di Giacomo della Porta.

La chiesa mantiene nell'interno la sua forma basilicale, essendo divisa in tre navi da due ali di colonne, sette per lato, appartenute già, come sembra, ai due o tre tempî di cui si è fatto sopra menzione. Il magnifico ciborio di mezzo è sostenuto da quattro colonne di portasanta e sotto l'altare, in una magnifica vasca balneare di basalte verde, si venerano le reliquie dei ss. Marcellino, Faustino e Beatrice.

Il Terribilini, nel suo diario che ho trovato in una miscellanea dell'archivio vaticano, narra che nella confessione della chiesa v'era dipinto un antichissimo crocifisso.

 p625 Nella Confessione antica di s. Nicola in Carcere v'era un crocifisso dipinto et hora consumato dal tempo con quattro chiodi. Me lo ha detto Migliorini canonico di quella chiesa. — Così il citato diarista.

Due pregevolissime epigrafi cristiane si conservano nella medesima confessione; l'una è riprodotta dal Bruzio, ed è la seguente:

PETRONIA PRIMITILLA PETRONIO C L. EPAPHRODI
TO FILIO CARISSIMO QVI VIXIT ANNOS VII
DEFECIT (?) IN PACE

Assai più insigne è la seconda iscrizione scolpita dopo il secolo XVI, che il Grutero descrive in basi ad aram: PAX TECVM FELIX.

Il Ciacconio dice che quest'epigrafe era scolpita sopra un'ara marmorea. Rarissime, nota il De Rossi, sono queste epigrafi sopra cippi della foggia delle are sepolcrali pagane, e questa di s. Niccolò è uno dei pochissimi esempi di siffatta classe eccezionale e vetusta di monumenti cristiani. Nella parete destra della chiesa v'ha infissa un'antica lapide dell'anno 1088 contenente il catalogo dei doni offerti alla diaconia da un suo rettore ai tempi di Urbano II. Ecco il testo dell'epigrafe:

"Ego Romanus Presbyter divine dispensationis gratia sanctissimi confessoris Christi Nicolai ecclesie, que in Carcere dicitur, procurator, vel rector, decerno, et firmiter statuo, ut quecumque bona, tam ex parentibus meis, quam ex multis amicis divinae bonitatis largitione acquisivi, vel que hactenus possidere videor, predicta sancti patris Nicolai ecclesia pro salute anime mee post obitum meum perpetuo iure possideat, hec scilicet — Aquimolum unum. Unam pedicam terre, quam emi cum monasterio S. Marie in Aventino. Aliam pedicam quam emi adº Alberto Cimoviensi. Item pedicam, quam emi a Crescentio filio Zenonis de Sergio; similiter terram, quam emi simul cum Pantano a rustico filio Ioannes Irsuti, et terram, quam emi a Georgio fratre predicti Rustici. Item duas pedicas, quas emi cum ecclesia s. Marie in Campo Martio. Item quidem iste omnes sunt in Mustacciano. Item in casa Ferrata terram, quam cum vineis suis emi a Stephano de Paulo, et terram, quam acquisivi  p626 a Boccone cum horto in territorio vocato albanensi ad cantarum quatuor. Pedicas vinearum similiter tres. Domum unam, quam emi ab Eudone. Aliam, quam modo habito. Aliam, quae intra se puteum continet. Item unus pluvialis. Unum optimum, atque integrum paratum, dalmatica una, tunica una, tres albe cum tribus stolis, et manipulis, et amictibus, atque cinguli. Item quinque libri de pratico moralia Iob, Beda super Psalterium, liber Profetarum, liber Sermonum, unus liber Concordie, liber Manuales, unus calix argenteus cum patena. Crucem argenteam unam. Unum integrum paratum, minoris pretii. Ex iis autem bonis quiscumque meo studio, vel labore, vel quolibet modo dicte ecclesie sua bonitate largitus est Dominus mei temporis regimine fideliter et devotissime omnia istituita, que subscribuntur preparare studui. In Mustacciano pedica una de terra. In Casa Ferrata XI horti cum quatuor petiis vinearum. Item ad sanctam Mariam, que appellatur in pariu VII petie vinearum; et in albanensi territorio ad cantarum quatuor petie vinearum. Una domus, quae fuit Ioannis de Ghisio. Item alia domus, que est sub domo Theophulati Manducafarina. Similiter alia domus, quae fuit Eudonis. Item textus Evangeliorum cum tabulis deauratis. Una crux, et unus calix argenteus et due turibula, et dorsale, et solcrorum, et due casselle argentee, et duo parata integra. Unius Aquimoli mediatas in Insula in Macello. Angasteria quatuor.

"Quicumque igitur sacrorum Canonum transgressor, vel violator, et sancte religionis inimicus tremendum Domini iudicium non pertimescens, aliquid ex supradictis bonis a sancti Nicolai ecclesia quolibet modo alienari praesumpserit, excepta pauperum causa tempore famis, omnipotentis Dei, et beatorum apostolorum Petri, et Pauli, et beatissimi Nicolai cuius res agitur, et omnibus communiter; nec non domini Urbani pape, atque omnium romanorum pontificum iudicio una cum catholicis omnibus, quorum consilio, et auxilio anathema hoc composuimus, non solum a corporis, et Sanguinis Domini perceptione eum separamus, sed etiam a sancte Ecclesie liminibus in presenti, et in futuro excludimus, edº a totius christianitatis societate eum sequestramus, et perpetuo maledictionis anathemate illum constringentes cum diabulo, et angelis eius omnibus reprobis in eterno supplicio condemnamus, nisi resipuerit. Fiat, fiat, fiat. Amen."

Nella seconda colonna, a destra entrando, che è di marmo cipollino, si vede scolpita la seguente epigrafe, assai più antica  p627 perchè è del secolo IX, la quale ci ricorda un'altra donazione:

DE DONIS DI ET
SCE DI GENITRICI MARIE
SCE ANNE SCS SIMEON ET SCE
LVCIE EDGO ANASTASIVS MA
IOR DOMV OFERO BOBIS PRO NATA
LICIES BEST . BINEA TABVL . VI
Q . P . IT PORTV SEV
BOBES PARIA II IVMENTA S . V . PECORA
XXX PORCI X FVRMA DE RAME LIBRAS
XXVI LECTVS ITRAT V IN VTILITA
TE PBR SEVALEO LECTO SI TRA
TO AT MANSIONARIS EQVI
SEQVENTIBVS.
IC REQVIESCIT IG ANTE.

Sotto Onorio II la chiesa fu di nuovo dedicata, cioè l'anno 1128, come abbiamo da quest'altro frammento che pur si legge in un marmo posto in fondo alla nave destra:

ANNO DNICAE INCAR
NATIONIS M . C . XXVII PON
TIFICAT . DNI HONORII II PP.
IIII . XII DIE MENSE MADII IND .
VI DEDICATA EST HAEC ECCLESIA IN
HONORE SANCTI . NICOLAI CONFESSORIS
. . . . . . . . . . . .

Fra le pietre sepolcrali di quell'epoca si conserva la seguente dell'anno 1370:

HIC REQVIESCIT CORPVS
S. ANDREAS BARTHOLOM
EIVS (sic) ALTRAMETI DICTVS
CAHETV QVI HOBIIT ANNO
DO . MCCC SEPTVAGESIMO
IN DIE XXVII IANVARII

Vi furono sepolti anche alcuni della famiglia romana dei Vastarelli, di uno dei quali trovo la seguente iscrizione scolpita in lastra marmorea intorno ad una figura muliebre:

IN NOMINE DNI AMEN ANNO MCCCXV IND. X MENSE MARTII
DIE XIX IN DIE VENERIS HIC REQVIESCIT D. MARIA VASTARDELLA
CVIVS ANIMA REQVIESCAT IN PACE.

 p628 Scrive il Torrigio che dietro la chiesa ve ne era un'altra piccola, che per la sua antichità fu demolita, ove si leggevano parecchie iscrizioni profane; quella chiesa era o quella di s. Lorenzo de' Cavallucci, o una chiesa di s. Caterina, di cui v'ha notizia nelle carte di quell'archivio all'anno 1482, ove si dice:

Simeon Sclavonius confessus est possidere domum terrineam et solaratam cum camera et mignanio in loco qui dicitur Portalioni cui retro est ecclesia s. Catharine hospitalis S. Mariae de porticu.

La chiesa è parrocchia ab antiquo, ed è collegiata fino dall'ottavo o nono secolo. In un documento del 1628 ho trovato lo stato della parrocchia in quell'anno: "Haveva 476 famiglie, 1877 anime, delle quali 1357 atte alla comunione, delle quali 1325 s'accostarono a Pasqua, v'ha nove meretricie (sic)."

Da pochi anni la chiesa è stata risarcita e riccamente restaurata. È accuratamente uffiziata dal suo benemerito capitolo e dal solerte suo camerlengo don Gabriele Tombolini, mio carissimo amico.

Nel codice di Torino è posta fra quelle della seconda partita: Ecclesia sancti Nicolai in carcere tulliano, diaconia cardinalis, habet sex clericos.

S. Maria in Pariu

Così abbiamo nel Camerario: il Lonigo aggiunge che di questa antica chiesa si trova menzione in una lapide antica posta nella facciata di s. Niccola in carcere a mano manca.

S. Niccolò di Bari

È l'oratorio della confraternita del Sacramento di s. Niccolò in Carcere. Il detto oratorio è situato nella piazzetta postìca di detta basilica, di fianco alla porticina di essa (la quale porticina è ancora la medievale a sesto acuto). La confraternita fu eretta con bolla 1 april 1583 ed elevata ad arciconfraternita con breve 31 luglio 1772. Vi si conserva no iscrizioni commemoranti alcune donazioni fatte alla confraternita nello stesso secolo XVI; ed altre del XVII fra le altre una ricorda la famiglia Bucimazza, che ha dato il nome ad una delle vie lì prossime.

 p629 

S. Maria in Portico

Quest'antichissima ed insigne chiesa si chiama ora s. Galla, poichè vuole un'antica tradizione che qui sorgesse l'antica abitazione dell'illustre figlia di Simmaco, di cui s. Gregorio Magno narra brevemente la vita e tesse gli elogi.

Si attribuiscono le sue origine al tempo del papa Giovanni I (523‑26) durante la dominazione gotica di Teodorico. Dai vicini portici e forse dai ruderi di quelli dell'abitazione stessa dell'illustre patrizia, chiamati nel medio evo Porticus Gallatorum, la chiesa prese il nome di s. Maria in Porticu. Non va confusa con un'altra dedicata pure alla s. Vergine e che fino dal secolo XIII fu detta s. Maria in Campitelli. Gregorio il Grande, divotissimo di Galla e della benedetta imagine che in quella chiesa si venerava, la cui apparizione va forse intesa nel modo stesso di quella dell'imagine del Salvatore lateranense, eresse la chiesa a diaconia cardinalizia.

Gregorio VII la riedificò di nuovo e la consacrò, di che v'ha un prezioso ricordo sotto l'altar maggiore della chiesa medesima. È un'epigrafe scolpita nei lati di un cippo antico, in uno dei quali resta ancora un antico rilievo rappresentante un albero, ai cui piedi v'ha una lepre che mangia dell'uva e presso a questo una lucertola.

Nei tre lati si legge, in caratteri del secolo XI, la seguente:

SEPTIMVS HOC PRESVL ROMA
NO CVLMINE FRETVS GREGORIVS TEM
PLVM XPO SACRAVIT IN AEVVM

AD HONOREM DNI NN IHV XPI ET BEATE MARIE SEMPER VIRGINIS GENITRICIS EIVSDEM DOMINE NOSTRE ET OMNIVM SANCTORVM CONSECRATVM EST HOC ALTARE TEMPORE DOMINI GREGORII VII. PP. ANNI DNI MCLXXIII INDICTIONE XI MENSE IVLIO DIE VIII IN HOC PREDICTO ALTARE QVIESCVNT SANCTORVM VENERABILES RELIQVIE, VIDELICET PARS CRVCIS EIVS ET SPONGIAE NEC NON ET CRVCIS BEATI ANDREE ET EX OSSIBVS EIVS ET SANCTORVM MARTYRVM STEPHANI, LAVRENTII, MARCI, IACOBI, SEBASTIANI, CROMATII, MENNE, VALENTINI, BONIFATII, ANASTASII, LEVDICII, DONATI, IPPOLITI ET IOHANNI PRESBYTERI, AGNETIS, CECILI, AGATHE, CONCORDIE, CIRILLE, VEBROBIE.

Nella parte superiore poi della confessione leggevansi scritti in musaico questi due versi:

HEC EST ILLA PIE GENITRICIS IMAGO MARIE
QVE DISCVMBENTI GALLE PATVIT METVENTI

 p630  Il Terribilini, come accenna nelle sue schede, vi lesse anche la memoria sepolcrale della famiglia romana dei Baronilli: STEPHANO SATRI DE BARONILLIS CIVI ROMANO. Fu anticamente collegiata, titolo cardinalizio e parrocchiale, ed era sede della compagnia dei Candellottari.

Dopo che la venerata imagine fu trasportata sotto Alessandro VII nella chiesa di s. Maria in Campitelli nuovamente edificata, Laura Odescalchi la restaurò. Allora fu dedicata particolarmente a s. Galla. Vi era anticamente congiunto un ospedale, che in séguito fu unito a quello della Consolazione. Circa la metà del secolo XVII il pio sacerdote Marcantonio Odescalchi fondò presso la chiesa un asilo notturno pei poveri privi di ricovero. Innocenzo XI prese a sè la cura dell'istituto, quindi donna Laura Odescalchi nel 1725 riedificò la chiesa e l'ospizio, che don Baldassarre Odescalchi ampliò maggiormente.

S. Galla (v. S. Maria in Portico)

S. Aniano o S. Anigro

È una cappellina posta in via della Vocca della Verità presso la piazza omonima. Appartenne alla compagnia degli Scarpinelli istituita nel 1612. Fu già dedicata alla Vergine e si chiamava la chiesa di s. Maria; gli Scarpinelli gli tolsero quel titolo e la dedicarono ad Aniano. Fu restaurata da Sisto IV, di cui v'ha lo stemma sulla porta della chiesa; e venne nuovamente risarcita nel 1614.

Nell'anno 1805 passò in proprietà della congregazione di s. Maria del Pianto, che la fece restaurare. I popolani la chiamavano s. Anigro.

S. Galla (v. S. Aniano)

S. Giorgio in Velabro

Dobbiamo a questa antica diaconia il ricordo dell'arcaica denominazione della contrada in cui trovasi la chiesa, cioè del Velabrum, onde si disse Velia l'angolo sporgente del Palatino verso questa contrada. Insegna Dionigi d'Alicarnasso che il  p631 nome proviene da un'antica voce italica indicante luogo palustre, come abbiamo nella radice Vel-inus, Vel-itrae ecc.

Le origini della diaconia sono assai anteriori al secolo VI; s. Gregorio il Grande la pose fra le diaconie cardinalizie, ordinando ai monaci che la possedevano di restaurarla e celebrarvi i divini uffizî. Leone III, dopo avere con nuovi restauri dato miglior forma alla chiesa, unì al culto di s. Giorgio quello di s. Sebastiano. Il papa s. Zaccaria riedificò quasi dai fondamenti la chiesa che era tornata in ruina; Gregorio IV ne ornò l'abside di musaici ed aggiunse due portici alla medesima. Bonifacio VIII nel 1295 la concesse in titolo al cardinal Giacomo Gaetano Stefaneschi, il quale ordinò a Giotto​2 che ne dipingesse la conca dell'abside.

Nel portico esterno si legge quest'epigramma del secolo XIII:

† STEPHANVS EXSTELLA, CVPIENS CAPTARE SVPERNA

ELOQVIO RARVS, VIRTVTVM LVMINE CLARVS
EXPENDENS AVRVM STVDVIT RENOVARE PROAVLVM

SVMPTIBVS EX PROPRIIS TIBI FECIT SANCTE GEORGII
CLERICVS HIC CVIVS PRIOR ECCLESIAE FVIT HVIVS

HIC LOCVS AD VELVM PRAENOMINE DICITVR AVRI.

L'ultimo verso è il documento più antico in ordine alla corruttela volgare della parola velabrum in quello di velum aureum.

La pittura giottesca dell'abside è stata da mani inesperte così goffamente ritocca, che nella più conserva della prima preziosa mano. L'eponimo della diaconia è il Giorgio di Cappadocia, soldato e martire dell'epoca di Diocleziano, personaggio intorno al quale si è formata una vera letteratura e leggenda cristiana, e il cui nome venne nell'epoca delle cavallerie e delle crociate accoppiato a quello di Maurizio e di Sebastiano. Ai tempi di s. Gregorio la chiesa diceasi pure ad sedem, benchè sia oscura la ragione di questa seconda denominazione. Nel secolo XVI diceasi s. Giorgio alla Fonte. Nel secolo V, come appare da alcune iscrizioni di quell'epoca, la nostra diaconia per antonomasia dicevasi de Belabru, soppresso il nome del titolo; così in un'epigrafe dell'anno 482 si ricorda un Augustus lector de Belabru. L'edificio mantiene ancora il suo tipo primitivo basilicale, la cui nave maggiore è sostenuta da sedici delle, parte marmoree, parte di granito. Presso la chiesa si vede un tratto della celebre cloaca romana, opera dei Tarquini, le cui  p632 acque diconsi dal volgo la Marrana di s. Giorgio; questa ebbe nei secoli trascorsi un ufficiale deputato alla sua custodia: trovo infatti nell'archivio de' Brevi sotto Clemente VIII una conferma nell'ufficio della marrana di s. Giorgio a Tommaso e Maria de Bovaris. In una relazione della visita fatta alle chiese della città nel secolo XVI, circa s. Giorgioº trovo le seguenti notizie: Est collegiata sine cura; titularis est rm̃us card. Altemps, redditus huic ecclesiae sunt sc. 90 ex casali dicto Falconiano. Sunt sex canonici; dederunt listam multorum lapidum marmorarium illinc ablatorum ex mandato Pii IV, f. r. et transportatorum in palatium apostolicum.

Leone II (682‑683) restaurò questa chiesa e alla medesima aggiunse anche il titolo di s. Sebastiano.

S. Maria in Petrocia o della Fossa
(S. Giovanni Decollato o della Misericordia)

Questa chiesa più comunemente fu detta in Petrocia, ma talvolta anche in petrocio, ovvero in patrocerio. Ancora esiste, benchè sott'altro nome e forma, essendo dedicata a s. Giovanni Battista, o, come il popolo più comunemente dice, s. Giovanni decollato, perchè ivi si seppellivano i corpi di coloro che venivano decapitati. Antichissima è questa chiesa: nei regesti di Benedetto XI v'ha una bolla in cui si conferma la concessione fatta della medesima dall'abate di s. Gregorio in clivo Scauri a Maria de Papareschi ed Eugenia de Scotti poichè vi edificassero un monastero. Veggasi pure su questa chiesa anche il Mittarelli. Ignorasi l'origine della denominazione in Petrocio.

L'anonimo di Torino la dice in petrochio, e l'annovera fra quelle della prima partita; dal Signorili è chiamata in Patrocio, dal Camerario più corrottamente in Praetorio.

Più tardi fu chiamata s. Biagio della Foss o s. Maria de Fossa. Presso la nuova chiesa, sotto Giulio II, fu eretto da alcuni fiorentini un ospedale, ed allora prese il nome di s. Giovanni della Misericordia, perchè vi risedea la compagnia che confortava i condannati all'estremo supplizio.

Cotesta compagnia fu istituita il giorno 8 maggio 1468 da alcuni buoni fiorentini residenti in Roma. Innocenzo VIII con bolla 23 agosto 1490 ne approvava l'opera e la accordava  p633 un luogo sotto il Campidoglio in vicinanza al Velabro, chiamato s. Maria della Fossa, dov'era già una casa diruta della compagnia de' ferrai.

Scopo di questa compagnia era di assistere i condannati a morte, eccitarli al pentimento, confortarli sino all'estremo, e seppellirne i cadaveri. Ed essendo s. Gio. Battista il protettore di Firenze, elessero per loro titolo e festa principale il giorno dedicato alla decollazione e morte di lui, ossia s. Giovanni Decollato: a questo medesimo santo vollero quindi dedicata la chiesa che con elemosine raccolte incominciaron ad edificare nel luogo di s. Maria della Fossa: vi posero un altare dedicato alla Vergine sotto quel titolo che poi, come si è detto, chiamarono della Misericordia. L'imagine è dipinta nel muro nè si conosce se fosse dipinta nella parete della casa, o se esistesse in una chiesuola, come più probabilmente si crede.

La chiesa fu ultimata nel 1588; nel 1600 Clemente VIII ne fece costruire il chiostro, nel quale poi si ricevettero le compagnie aggregate di Firenze in occasione del giubileo dell'anno santo.

Dal Direttorio per il maestro di cerimonie di questa venerabile arciconfraternita, composto da Francesco Riccardi e stampato in Roma nel 1773, si raccoglie che istituto principale della confraternita è il confortare, assistere associare ecc., i condannati a morte; che tra gli usi vi doveva essere quello di recitare l'uffizio per tutti i giustiziati, e che allora il tumulo si ergeva nel cortile attiguo alla chiesa, con due torce gialle.

A titolo di curiosità riporto quanto segue:

"Non potrà alcun fratello portarsi al leggio, o in qualità di corista o per dire le lezioni, con la spada, riservandosi ciò solamente per i principi, o cavalieri di Croce, o primarî ufiziali militari."

Nel locale annesso esisteva un salone dipinto nel quale tenevansi le congregazioni generali degli uffiziali.

Fino dal secolo XVI un tal Manzuoli ne fu benefattore speciale, perchè con decreto del 1598 si stabilì che in fine dei possessi dei nuovi uffiziali si recitasse sempre per l'anima di lui un deprofundis. Nel citato Direttorio si descrive la processione e le funzioni che avevano luogo nell'occasione dell'esecuzioni capitali, non che per la liberazione del condannato; nella quale seconda circostanza si dice che la processione moveva dall'oratorio di s. Orsola. In fine si aggiunge la nota della funzione, a cui doveva prender parte il collegio Bandinelli.

 p634 

S. Cecilia della Fossa

In questa medesima contrada della Fossa esisteva nel secolo XIV anche una chiesa di s. Cecilia, della quale trovo menzione nel catalogo dell'anonimo di Torino: Ecclesia s. Ceciliae de Fossa habet unum sacerdotem.

S. Eligio de' Ferrai

Fu per corruttela di pronuncia più comunemente detta s. Alo e talvolta anche s. Anigro. È posta nel rione XII o di Ripa, ed appartiene alla compagnia de' ferrai: l'edifizio sorge sull'area d'una chiesa più antica chiamata nel secolo XVI s. Giacomo d'Altopasso. La compagnia suddetta, distrutta quella chiesa, v'eresse l'anno 1513 quella che dal suo protettore disse di s. Eligio. V'ha nella chiesa un quadro di s. Orsola, che il Titi afferma essere stato compiuto da Giovanni Vannini nell'età di dodici anni.

S. Giacomo d'Altopasso

Questa chiesa apparteneva al celebre spedale di Altopasso o Altopascio, come più comunemente si dice, che era incluso nella diocesi di Lucca e che da più secoli appartiene a quella di Pescia. Nel sito della medesima fu poi eretta la chiesa di s. Eligio de' Ferrai: l'Anonimo di Torino rammenta il contiguo ospedale: s. Iacobi Altipassus hospitale habet fratrem unum. Debbo alla cortesia di S. E. mons. Felice Gialdini vescovo di Montepulciano le seguenti notizie su questo ospedale e sui religiosi che lo governano.

"Questo spedale veniva posseduto da certi Religiosi i quali portavano nella destra del mantello nero a guisa di quei di s. Antonio un T di color candido, ed avevano monasteri e spedali molto ricchi e opulenti con giurisdizione e dominio nell'Alemagna, Borgogna, Francia, Italia, Lorena, Navarra, Savoia e in antiche Province, e i rettori di detti spedali riconoscevano per loro capo e maestro generale il rettore di Altopascio per esser sottoposto alla s. Sede e da molti sommi pontefici e imperatori datogli bolle e privilegi. Da Gregorio IX l'anno 1239 gli fu dato sotto la regola de' Cavalieri  p635 Gerosolimitani, ma libero dalla loro giurisdizione. Sta registrato questo spedale nel libro intitolato: Provinciale omnium ecclesiarum Cancellariae Apostolicae, nel quale son descritti gli ordini militari ecc. . . . L'entrata molto opulenta fu applicata all'ordine militare de' Cavalieri di s. Stefano.

"Ivi pure sta registrata la citata bolla di Gregorio IX che trovasi secondo il detto autore: In archivio Vaticano in registro Gregorii IX, tom. VI, pag. 100, epist. 7."

S. Lorenzo de Palpitario o de Papitariis

È nominata quest'altra chiesuola in un istromento dell'anno 1364 in data dei 16 settembre, che il Martinelli osservò nell'archivio del monastero di s. Maria in Campo Marzio.

Il citato autore non sa dire dove la chiesa sorgesse e quale fosse l'etimologia di quell'oscura denominazione. Il codice di Torino ne fa menzione fra quelle della seconda partita: Ecclesia sancti Laurentii de Palpitario habet unum sacerdotem. Il nome è forse tratto dalla topografia del luogo, ma non so indovinarne il significato.

Nel codice di Torino è posta fra le chiese di s. Giacomo d'Altifano e di s. Maria in curte domnae Mariae.

S. Maria in Tofella

Questa chiesa era presso piazza Montanara, ed è denominata dall'Anonimo di Torino in Tufella: Ecclesia s. Mariae in Tufella habet unum sacerdotem. Non so rendermi probabile spiegazione della parola in Tufella, che nel secolo XVI si trasformò nell'altra non meno oscura Toffilato; così infatti è ricordata nel catalogo di s. Pio V, presso s. Maria in Vincis: S. Maria in Toffilato, ove però il compilatore del catalogo non lascia d'avvertire che era al suo tempo chiesa ruinata. Nel catalogo del Signorili è chiamata in Tosella.

S. Maria della Provvidenza

È il titolo della parrocchia provvisoria che trovasi in via Alessandro Volta nel quartiere Testaccio: la costruzione della stessa si principiò nel 1888 coi disegni del signor Barbiellini.


Note di Thayer:

a Almeno nello stato attuale, in questo punto l'iscrizione si legge

Crhisti

Quando ho visitato la chiesa a settembre del 2000, ho visto e notato l'errore, che mi ha stupito: non stupisce forse abbastanza, siccome vi sono altri a commettere lo stesso errore, anche nei confronti della propria foto: William Warner Bishop • Roman Church Mosaics of the First Nine Centuries — AJA 10:251‑281. Come mai, nel proprio nome di Cristo? ed in una iscrizione monumentale lunga forse 8 metri e sopra la porta principale?

Due questioni ci vengono inevitabilmente in mente:

Perchè non è mai stato provveduto alla correzione di tal errore marchiano? Anche nel secolo quinto, le autorità religiose che hanno commissionato il mosaico erano certo fra le persone che sapevano leggere, e la spesa per correggere l'iscrizione non doveva essere grande paragonata a quella complessiva. E dopo? Dietro l'errore ortografico, mantenuto da 1500 anni in cui si svolsero parecchi importanti ristauri, c'è un (piccolo) giallo.

Visto il mistero, e visto che all'Armellini piacciono gli aneddoti: come venne lui a sbagliare nella trascrizione? Non si può credere che l'iscrizione fosse CHRISTI al suo tempo, per essere rifatto da qualche archeologo nei pochi anni fra 1891, data della pubblicazione dal libro dell'Armellini, e 1906, data del saggio del Bishop qui sopra accennato. Anzi, la risposta qui dev'essere più facile: avrà letto la trascrizione altrove, forse nel Forcella, e l'avrà "corretto" . . . Ancora una volta, ci tocca a noi di stare sempre in guardia: non è perchè si vede qualcosa in un libro che sia giusto.

I due altri errori commessi dall'Armellini, invece, sono riferibili alla sua solita imprecisione con le iscrizioni: non COELESTINVS, ma CAELESTINVS (riga 1); non PRESBYTER, ma PRESBITER (riga 3). Si veda la stessa foto.

b La chiesetta di S. Lazzaro alle Marorate non esiste più. Si possono vederne due vecchie foto su Roma Sparita.

c Per la fiaba medievale secondo la quale la scultura mutilata di una oca — oggi scomparsa — sulla facciata della chiesa sarebbe rimasta a testimonianza della venerazione dai Romani delle Oche del Campidoglio, si veda The Chronicle of England del Capgrave († 1464) ad Elfinspell.

Pagina aggiornata: 8 Lug 22