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Prefazione

Questa pagina riproduce una parte di
La Rocca di Spoleto
di Carlo Bandini

Tipografia dell'Umbria
Anno XII E. F.

Il testo è nel pubblico dominio.
Le eventuali foto a colori sono © William P. Thayer.

Questa pagina è stata attentamente riletta
e la credo senza errori.
Se vi trovate un errore,
vi prego di farmelo sapere!

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Capitolo II

 p1  I
Il secolo XIV.
L'esodo e il ritorno della Cattedra Pontificia
e l'opera del cardinale Albornoz

 p2  I

Sommario

Agitato periodo di disorientamento (pagg. 3‑4).º — La malaugurata serie dei papi "caorsini e guaschi" e le sue tristi conseguenze in Italia e a Roma (4‑7).º — Il nesso che collega a tali eventi la costruzione di questa Rocca (7‑8). — Il proposito del ritorno della Cattedra Pontifica a Roma (8‑9). — Il card. Albornoz e la sua missione in Italia (9‑13). — Breve cenno dello sviluppo della sua impresa a Roma, nel Patrimonio, nell'Umbria, Marca e Romagna (13‑15). — L'ingiusto e improvvido suo richiamo in Avignone (15‑16). — Le Constitutiones Aegidiane e la sommissione di Cesena (16). — Il suo rinvio in Italia e l'opera sua nelle Romagne e nell'Emilia (17‑19). — Il pieno successo determina la possibilità del ritorno dei Pontefici ad limina (19). — Il ritorno a Roma di Urbano V: il suo arrivo e l'incontro con l'Albornoz a Corneto (20‑21).º — Gregorio XI e il definitivo ripristino della Cattedra Apostolica in Roma (21‑23).

 p3  Triste, sin dai sui primi anni, il secolo XIV.

Se anche, a segnare il tramonto del Medioevo, apparve ravvivato da splendori che il mondo, ancor stupito a tanta luce, ne ha impressione di portento (basti ricordare Dante, Giotto, Petrarca), tutt'intorno, come in turbine, svampò un impeto di bufera. Tra riflessi di sangue un pauroso strepito d'armi e l'ansimare imprecante di violenze o i gemiti di tanti oppressi.

Triste quel periodo per la vita politica e sociale d'Italia. Per l'Italia e anche per la Chiesa di Roma.

Era intanto, sì, maturata l'affrancazione dalle strette del feudalesimo e già, con le conquiste libertà, si era affermata quella gloriosa istituzione, nostra, che fu il Comune. Ma si direbbe che tuto di fremiti e di convulsione ne fosse il periodo di sviluppo. Infrante le Morse del regime feudale, allentata — anzi, allontanata da Roma — la forza normativa e compensatrice della già millenaria istituzione che, in un rinnovamento della Fede, erasi affermata l'erede vera della tradizione imperiale di Roma, parve perduto ogni freno alle irrequietezze di ogni più indiscreta rivalità di repubbliche, di città e di ambizioni. — "Dilaniata da fazioni implacabili, l'Italia era tutta in desolazione" — (Balbo).

 p4  Sciagurato periodo in cui la violenza di un uragano parve Dover sconvolgere e inaridire lo sviluppo dei germi che, già intimamente fecondi, si manifestavano come primo annuncio della meravigliosa fioritura del nostro Rinascimento.

Persino il genio di Dante potè sembrare, allora, più che luce chiaritrice, bagliore di lampi nell'infuriare della tempesta. E appunto nell'anno stesso con cui si iniziava quel secolo egli era cacciato esule dalla patria sua a sospirar, con nostalgia irrequieta, "il suo bel San Giovanni".

Anche quell'ordine religioso, già sorto, circa un secolo innanzi, dall'esempio e dal cuore e dalla suadente parola di pace e di bontà redentrice del Santo Poverello, si era gettato, anch'esso, nella lotta, schierandosi a parteggiare — triste peccato — per il re tedesco Lodovico IV, il Bavaro, contro Giovanni XXII e l'autorità pontificia.

*

* *

Sin dal primo decennio di quel secolo i Papi avean disertata la Cattedra di S. Pietro in Roma.

Quello che, pur nella lotta gigantesca tra il popolo e l'impero nei secoli undecimo e dodicesimo, non si era e non si sarebbe creduto possibile nemmeno di pensare, — "tanto, dice il Renan, per tradizione sacra e millenaria, la suprema autorità della Chiesa cattolica si riteneva strettamente e intimamente congiunta con l'Italia e con Roma", — questo era divenuto una realtà. Una sciagurata realtà, decisa dal guascone Bertrando di Goth, arcivescovo di Bordeaux, che il 5 giugno 1305, mentre era in Francia fu eletto papa nel conclave di Perugia protrattosi per oltre undici mesi; e prese il nome di Clemente V (1305‑1314).

 p5  Asservito ai simoniaci allettamenti ed alla prepotenza del re di Francia Filippo il Bello — già si spietato contro Bonifacio VIII — s'indusse a rimanere in Francia. E, chiamatavi la Curia pontificia, fissò ufficialmente, nel 1309, la sede papale in Avignone.

S'iniziava così la malaugurata serie dei papi "caorsini e guaschi" succubi più o meno, alla Corte di Francia, in quella che, con deprecazione e rimpianto e di condanna fu designata la "cattività di Babilonia". Ed è noto quanto severa proruppe la rampogna di Dante.

E, come in conformità di un apocalittico ritmo settenario, sette furono i papi di quella serie; sette i decenni che durò quell'errore funesto.

"Strappato dalla sua residenza naturale — dice uno storico non sospetto, il Pastor — allontanato dalla sua sede storicamente legittima, il papato non potè mantenersi all'antica altezza. Sotto l'influsso, così forte ed indiscreto, di una nazionalità straniera il prestigio della Santa Sede decadde."​α

E se ne scatenò tutta una tregenda di violenze sanguinose. Le cupide rivalità delle signorie e quelle tra paese e paese e, peggio ancora, le Lotte delle fazioni che, guelfe e ghibelline e con altri frazionamenti partigiani, si dilaniavano entro le cinte urbane per la conquista di egemonie, avean perduto ogni ritegno. E, tra esse, anche il pullular di sette e di eresie, che prepararono e resero poi possibile il triste Scisma d'Occidente (1378‑1417), fomentato anche dagli intrighi di Francia e, per essa, da Carlo V quando, irritato dal vedersi sfuggire il mal conquistato accaparramento di  p6 quella forza, si spinse ad ogni estremo per tentar di recuperarla.​1

E, per di più, sin dai primi decenni di quel secolo si era affacciato fra noi, e prontamente sviluppato, quel tristissimo malanno — "danno estremo e fatale della misera Italia" (Balbo), — che fu la prepotenza delle "compagnie" e dei condottieri o capitani di ventura.

Sì, molti di essi veramente magnifici, imponenti per valore di guerre e genialità d'imprese, per audacia e coraggio sino all'eroismo — più veramente, dispregio della vita propria come, purtroppo, dell'altrui, — ma mossi da ambizioni e, i più, da interessi; anime perse, vendute a servizio dei migliori offerenti. E tutta senza legge e, taluni, pessimi per mancanza di scrupoli e di fede.

"Certo è che i tristi effetti di quel'assenza della Sede Pontificia si fecero sentire — dice il Pastor — sopra tutto in Italia".

E come in Italia, se non peggio, a Roma.

Roma ne risultava ridotta in un vero stato di anarchia e di sfacelo. Molte delle sue chiese rovinose e deserte. Squallida e quasi collabente, la Basilica Vaticana, e pur quella Lateranense — già proclamata ed onorata quale omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput, che nl secolo precedente Nicolò IV aveva adornata così che parve "meraviglia del mondo", e vi aveva trionfato l'arte di Giotto e nei claustri fioriti il magistero dei Cosmati. Appena pochi decenni eran passati da che Bonifacio VIII vi aveva celebrato in trionfo il Giubileo della Chiesa romana. Eppure  p7 anch'essa in un abbandono veramente profanatore. Vi meriggiavano le pecore a brucar l'erba che verzicava fin presso gli altari.

E, peggio ancora, l'imperversare di battagliate violenze tra i Colonna gli Orsini i Frangipane i Savelli fieramente accampati in sospetto e aggressivi al Colosseo, nel Teatro di Marcello e a Castel Sant'Angelo. I palazzi fortezze, ogni torre una minaccia.

E per le vie fatte deserte, sconnesse e tetre, "fra i tempi ignudi e i colonnati infranti", gente povera e disorientata, paurosa d'insidie e di ogni incontro di persona armata.​2

Se, anche al concitato appello del suo Tribuno, Cola di Rienzo, Roma parve riscossa come se tra quella violentissima procella un bagliore dei lampi le avesse fatto intravvedere e riconoscer vive tradizioni lontane che aveva creduto distrutte e sommerse per sempre; se, con un'esaltazione esasperata — o disperata, — magnificò in gloria, allora, quell'improvviso assertore, presto irrequieta si rivolse contro questo suo idolo. E, fatta immemore, in un sogno di sangue lo infranse, e si accanì su lui con una spietata e quasi sadica violenza.

Tale, con tratti schematici, il quadro storico delle condizioni d'Italia e del papato dagli inizi ad oltre la prima metà del secolo XIV.

Forse potrà sembrare che io mi sia in esso troppo attardato, quasi dimentico del preciso tema di queste note. Ma non è così.

 p8  Non è così, perchè l'importanza grandissima e direi quasi eccezionale di questa Rocca di Spoleto è, più ancora che monumentale, sopra tutto storica: e appunto per rapporti che han speciale attinenza alle condizioni politiche e sociali di quel periodo. Anzi, quel che è più interessante e ne costituisce il pregio peculiare è proprio questo suo intimo nesso con gli avvenimenti che determinarono la benefica crisi risolutiva di quel nefastissimo stato di cose. Fu infatti contributo importante a procurare e rendere possibile il decisivo trapasso per cui il papato potè da quella terra straniera ritornare alla sua sede vera, legittima e storica, Roma.

*

* *

Ed ecco appunto di questo nesso qualche precisazione.

Si è già detto quanto vivamente deprecata fosse quella sciagurata assenza della Cattedra apostolica. Ed è noto come alle fiere invettive di Dante contro i papi "caorsini e guaschi" fece eco sdegnosa e fervida l'invocazione del Petrarca. E tutto pur vi si prodigò il fervore di quel miracolo di appassionata e fiammante devozione che fu Santa Caterina da Siena.

E il papato stesso, quantunque ancora affidato alla serie dei pontefici stranieri, se ne sentì scosso e convinto. Eccessivamente indiscreta gli si era fatta sentire l'ingerenza invadente e prepotente della Corte di Francia, e sensibile il danno che ne derivava, non soltanto alla pace d'Italia, ma anche alla Chiesa, anzi, alla religione cattolica.

Ma troppo era l'interesse della corona francese ad impedire che sfuggisse dalle sue reti e dall'ambito del suo regno questo potere; e pur troppo irto di difficoltà e di pericoli doveva apparire ai papi l'avventurarsi tra quelle  p9 tanto violente turbolenze in Italia. Certo assai rischioso il ritorno a Roma e scarse la probabilità o la possibilità di mantenervisi.

Ciò nonostante, di tentarlo sentì il dovere — e fu gran merito — Innocenzo VI — Stefano Aubert (1352‑1362), — quantunque anche lui francese, di Mont, presso il castello (fatto poi famoso per ben altri e tanto diversi avvenimenti), di Pompadour.

Provvido intendimento. Ma, perchè fosse consentito di sperarne la riuscita, occorreva predisporne l'attuazione e innanzi tutto provvedere a porre un freno ed imporsi a quei tanti disordini in Italia. Quanto difficile questo compito: tanto da sembrare irrealizzabile. L'esperienza fatta circa un trentennio prima da Bertrando del Poggetto mandato da Avignone in Italia, anche se con missione assai più limitata, non era stata tale, con il suo insuccesso, da incoraggiare.

Ma ecco che la provvidenza offrì e spinse avanti l'uomo capace di sì grande impresa: lo spagnolo Gil o Egidio Alvarez Cirillo d'Albornoz — o, come più semplicemente lo troviamo designato, il Cardinale Albornoz.

Nato a Cuenca, piccola città della Nuova Castiglia, si era dato alla carriera ecclesiastica e, già investito sin dal 1338, del vescovato di Toledo, aveva raggiunto, allora, l'eminente grado di cardinale.

Cardinale, sì; ma oltre e più che devoto ed erudito uomo di Chiesa, esperto uomo di State. E anche valoroso tipo di guerriero. Ne aveva già fornite prove come commissario  p10 nella crociata contro i Saraceni, nella quale diede contributo tanto important alla grande vittoria nella battaglia di Tariffa, 30 ottobre 1340.

Così godeva di grande credito presso la Corte di Spagna: grande per lui la stima di Alfonso XI di Castiglia, che gli conferì l'altissimo ufficio di Cancelliere del Regno. Ma, morto re Alfonso (26 marzo 1350), gli si suscitarono contro e poteron far presa sul sedicenne nuovo sovrano Pietro I le invidie di Corte, tanto che l'Albornoz ritenne prudente, sul finir del giugno di quell'anno, allontanarsene. E si trasferì presso la sede pontificia in Avignone.

Clemente VI lo ebbe subito in gran conto, e nel dicembre di quello stesso anno lo elesse cardinale col titolo di S. Clemente. E l'Albornoz tanto crebbe in credito anche in questa Corte che, salito al soglio Innocenzo VI e affermatasi in lui la sua santa aspirazione per Roma, ne fu prescelto e destinato all'ardua missione di venire in Italia in qualità di Legato e di "Vicario generale nei domini ecclesiastichi" a procurare, con amplissimi poteri, di reintegrarvi l'autorità della Chiesa ed imporvi quel tanto d'ordine necessario a render possibile l'auspicato ritorno della Cattedra apostolica a Roma.

Provvido questo proposito, come ottima la scelta. Veramente l'Albornoz, per l'armonico concorso delle sue qualità, superiori, d'ingegno e di ardire e pur di fervore sinceramente devoto, era il più possibile adatto a tanto compito.​3

"Il più grande generale che abbia avuto la Chiesa", diceva di lui il Gregorovius. Sì, anche questo; ma certo uno dei suoi più abili uomini di governo.

Sembra che l'Albornoz fosse riluttante ad assumere responsabilità  p11 sì grave. Ma s'indusse ad accettarla come per obbedienza devota ad un dovere. Così, investito, per delega, di amplissime prerogative ecclesiastiche riserbate per solito alla sede apostolica (tra le quali la facoltà di assolvere dalle scomuniche i ribelli e di sospendere gli interdetti), il 17 agosto 1353, con la sua curia ed un seguito di milizie mercenarie, lasciava Avignone e veniva, per il Monferrato, in Italia. Prima a Milano, ove fu accolto con grandi feste dal potentissimo ma non altrettanto fedele — e che poi gli darà tanto filo da torcere — arcivescovo Giovanni Visconti (e ivi s'incontrò anche col Petrarca);​4 poi a Pisa e Firenze, ove ebbe solennissime accoglienze. Il 23 ottobre giungeva a Perugia; che l'accolse con grandi feste e l'ebbe ospite per quasi un mese nel convento di S. Pietro.

Lunga questa sosta per un uomo di tanto fervorose iniziative e premurato da un compito così incalzante. Ma stava appunto per cominciare la grave e complessa partita, che, anche in quella sua prima fase, si presentava con un duplice obbiettivo: ridare un po' di pace a Roma, riacquistare autorità nel Patrimonio.

E a Roma le condizioni si eran fatte disperate, anche per le complicazioni apportatevi dall'effimero sogno ambizioso del demagogo Francesco Baroncelli, affermatosi come un nuovo tribuno e avverso alla Chiesa, appunto il 14 settembre 1353, cioè proprio lo stesso giorno in cui l'Albornoz faceva il suo ingresso in Milano. E intanto Innocenzo VI si era deciso a sciogliere Cola di Rienzo da quella specie di prigionia, in cui era tenuto in Avignone e, assoltolo da ogni censura, lo sguinzagliava  p12 in Italia affidandolo al Legato perchè, a tempo opportuno, lo inviasse a Roma: e pare che appunto a Perugia egli raggiungesse, in sul finir dell'ottobre, l'Albornoz.​5

E vicino a Roma, nel Patrimonio, c'era, temibilissimo per potere e per sfrontato ardire, campione del più aperto ghibellinismo, Giovanni di Vico, signore di Orvieto e di Viterbo e di altre terre della provincia romana.

Opportuna, anzi necessaria, dunque, quella battuta d'aspetto in Perugia per orientarsi a scattar più sicuro all'impresa. E, pur tenendo d'occhio Roma, appunto sul di Vico — cui pure obbedivano, come ghibelline, Terni, Amelia e Narni — si volse l'attività dell'Albornoz: e con laboriose vicende e complicate alternanze di fortuna​β riuscì a dominarlo e a riceverne giuramento di fedeltà alla Chiesa.

Era un primo importantissimo successo.

Ma ben più esteso era il compito dell'Albornoz nelle tante altre terre della Chiesa a settentrione di Roma — nell'Umbria, nella Marca, nella Romagna e nell'Emilia, con la più parte di queste città emancipate e in fermento o infeudate a signorotti ribelli. Difficilissimo compito, che di fatti risultò irto di contrasti di ogni genere, sia per insidie d'improvvise alleanze e defezioni, sia con aspre resistenze.

Però la duttile genialità dell'Albornoz seppe riuscirne vittoriosa, gloriosamente.

Lunga e complicata la serie di tali vicende, cui fu imposta un'assai improvvida interruzione, ma con ripresa fortunatissima:  p13 tanto lunga e complicata da non esserne qui consentito se non un cenno sommarissimo del suo sviluppo cronologico; appena quel tanto che valga almeno, se non pure ad offrire uno scorcio della grandiosa opera dell'Albornoz, a consentirci di riconoscere un po' come vi s'inserisce quanto ha più diretto riferimento con quel che egli fece a Spoleto e per Spoleto e anche come e perchè, coordinandola alle finalità della sua grande impresa, decise e dispose la costruzione di questa Rocca. Il che vedremo appunto più precisamente nel successivo capitolo.

*

* *

Ed ecco di questo schema cronologico dell'impresa dell'Albornoz qualche cenno:​γ

Sbalzato in sul finir del 1353 il facinoroso Tribuno Baroncelli, i Romani si eran sottomessi — stando al Villani per intervento dell'Albornoz, secondo altri, tra cui il Filippini, per sommissione diretta — a papa Innocenzo, che nel marzo del 1354 commise al Legato di nominarvi un senatore. E infatti, sia pur con un qualche ritardo, l'Albornoz vi mandò nell'estate di quell'anno Cola di Rienzo. È noto quanto tragico fu, pochi mesi dopo, l'epilogo di quest'avventura: ma, anche per effetto del prudentissimo atteggiamento precauzionale di riserbo con cui l'Albornoz aveva già procurato ridurre al minimo la solidarietà con il Tribuno, non ne derivò danno ai buoni rapporti tra Roma e il Pontefice.

E intanto, come si è detto, l'Albornoz aveva piegato  p14 a una pacificatrice sommissione il Di Vico riacquistando alla Chiesa Orvieto Corneto e Vetralla e poi Marta e Canino e successivamente Viterbo ed Amelia.

Questo prospero successo influì prontamente anche sulle sorti dell'Umbria, e l'Albornoz ne profittò affrettando la dedizione di Gubbio e di Spello. Poi fu la volta di Narni e di Terni, e poco dopo di Rieti.

E Spoleto, già anch'essa esagitata in un ghibellinismo violento, aveva dato chiari segni di resipiscenza e, come vedremo nel capitolo successivo, salutò ed accolse l'Albornoz come l'auspicato restauratore della sua scaduta fortuna.

Dunque facili e propizi questi primi rapporti con l'Umbria e l'iniziale suo assetto.

E appunto quest'insieme di risultati nelle terre del Patrimonio e nell'Umbria consentì all'Albornoz di avanzare verso il nord alla più ardua parte del suo compito, nella Marca e poi nella Romagna.

Ed ecco nella Marca l'urto veramente grave, reso ancor più minaccioso da un complicato groviglio di alleanze e tradimenti: l'urto coi Malatesta, e le prime avvisaglie con gli Ordelaffi. Ma anche in questo, almeno rispetto ai signorotti della Marca, ottenne un successo. Nel 1355 truppe o quasi truppe erano assoggettati.

Nuove vicende presto richiamarono la sua attività nell'Umbria e a Spoleto e quod di nuovo in Ancona, ove riuscì a por piede sicuro.

Ma poi, ecco ancor più grave la ripresa della lotta contro i Manfredi di Faenza e Francesco Ordelaffi, potente e arditissimo signore di Forlì, Cesena, Forlimpopoli, Castrocaro, Meldola e Bertinoro.

 p15  Il Manfredi riuscì, sia pur con duro sforzo, a dominarlo, tanto che il 18 dicembre 1356 cedeva al Legato Faenza. Non però l'Ordelaffi.

Sostenuto dal suo popolo, che lo amava, questi oppose ostinatissima resistenza, e sembrò che dovesse risultarne spezzato per sempre ogni tentativo dell'Albornoz, che si decise a bandir contro di lui una vera crociata come ribelle alla Chiesa. E ne derivò una guerra aspra di battaglie, di assedi e di episodi violenti. Veramente epico quello di madonna Cia degli Ubaldini, moglie dell'Ordelaffi che, combattente vigile le mura dell'assediata sua Forlì, si scagliò, come aquila che difende il suo nido, insieme ad altre donne, in una impetuosa sortita. Trentacinque ne furon fatte prigioniere e condotte a Faenza. Monna Cia fu salva, più che per fortuna, pel suo ardire.

Di fronte a tanta vigorosa resistenza l'Albornoz sentì la necessità di una breve sosta per irrobustire con maggiori aiuti un ulteriore suo sforzo. Ma, mentre più fervida era l'opera sua, gli giungeva da Avignone, il 17 marzo '57, la notizia del prossimo arrivo di Androino abate di Cluny, quale latore di riservate istruzioni di Innocenzo VI.

Triste presagio di torbide e invidiose inframmettenze. E di fatti le istruzioni portate da quel nunzio risultarono troppo in contrasto con le direttive e col programma dell'Albornoz, tanto da indurlo a chiedere, con dignitosa fierezza, di esser dispensato da quel suo ufficio e di ritornare in Avignone.

Però prima di allontanarsi dall'Italia volle integrare l'assetto delle provincie conquistate, affidando le città a  p16 fedeli e securi vicari e provvedendo, anche, ad una non meno utile ed importante opera di ordinamento legislativo.

Infatti il 29 aprile del 1357 convocò in Fano un Parlamento generale, nel quale espose e fece approvare le Constitutiones, da lui compilate, con le quali, coordinando in un armonico organismo le svariate e spesso discordanti leggi e disposizioni statutarie, fissò una base precisa e stabile di diritto alle città dello Stato della Chiesa. Opera veramente monumentale — quasi si direbbe giustinianea — raccolta nel Liber constitutionum Sanctae Romanae Ecclesiae stampato, nella sua prima edizione, a Jesi nel 1473 e poi diffuso e conosciuto con la designazione di Constitutiones Aegidianae.

E subito dopo accorse all'assedio di Cesena sollevatasi improvvisamente per la Chiesa, ma in cui l'eroica madonna Cia Ordelaffi, per quanto colta di sorpresa, era riuscita ad asserragliarsi, con i suoi fidi ghibellini, nella cittadella. E ivi ella si difese strenuamente, anzi epicamente, sin che l'Albornoz, che dirigeva di persona l'impresa, non riuscì a far crollare, scavandola alle fondamenta, la torre mastra dove, ridotta agli estremi, quella resistenza si era rifugiata. Solo allora l'arditissima romagnola fu fatta prigioniera; e come tale fu portata in Ancona, ove, per disposizione dell'Albornoz, fu però trattata con ogni riguardo.

Così anche Cesena e pure, poco dopo, Bertinoro, già rocche forti del ribelle Ordelaffi, erano state acquistate alla Chiesa.

E poi, concluso anche un accordo con la Gran Compagnia, inteso ad allontanare il pericolo che poteva minacciarne, lasciata l'Italia, l'Albornoz ritornò in Avignone.

 p17  *

* *

E fu veramente sciagurata novità, perchè a sostituir l'Albornoz fu destinato quell'abate Androino che, inetto e vanesio, poco mancò non facesse riperdere quel tanto che il geniale Legato aveva saputo ottenere.

E tanto risultò evidente questa inettitudine dell'Abate (assoluto lo scacco toccatogli in un tentativo contro l'Ordelaffi, gravissime e del tutto sproporzionate scarsi risultati le spese militari, preoccupanti le minacce di nuove insurrezioni), che lo stesso Pontefice vide la necessità di rimediarvi: richiamar, cioè, l'Androino, e procurar di ottenere che l'Albornoz consentisse di riassumere, con la pienezza dei poteri già prima conferitigli, la missione in Italia. E l'Albornoz, anche per spirito devoto di abnegazione, vi consentì.

Così nel novembre del 1358 giungeva a Firenze, e l'anno successivo, spintosi a un deciso sforzo nelle Romagne, riusciva ad impadronirsi di Forlì e ad obbligare il fiero Ordelaffi a chiedere in ginocchio, con giuramento di fedeltà alla Chiesa, pubblico perdono. Dopo quella prima lotta col Prefetto di Roma, era stata, questa, una delle più ardue e fortunate sue imprese.

Poi calava di nuovo a dare assetto alle cose del Ducato e, come vedremo, anche a Spoleto. Poi, — dopo una serie complessa di scontri, minaccie, trattative, componimenti, — sistemati i rapporti con l'Oleggio per il possesso di Fermo e con altri paesi della Marca e della Romagna, riuscì ad assicurare alla Chiesa anche Bologna, ove egli entrò il 26 ottobre 1360 quasi trionfalmente.​6

 p18  Purtroppo — per quel paradossale contrasto che troppo spesso si manifesta tra merito e fortuna — quattro anni dopo l'Albornoz doveva veder prendere possesso di questa città, da lui sì prediletta, pomposamente e come Legato, quel tale abate Androino di Cluny di cui abbiam visto il triste ufficio e lo scarso valore. E fu costretto, lui, ad allontanarsene. Così va il mondo: così andava anche allora! È malauguratamente, anche ben altri furono i morsi con cui insanì su lui l'ingratitudine per l'opera sua tanto devotamente fervorosa, nobilissima e sì genialmente provvida alla Chiesa; e ciò, purtroppo, anche da parte di quei pontefici che tanto più direttamente della sua opera beneficiarono. E più ingiusto con lui, — ancor più che Innocenzo VI — si dimostrò Urbano V (1362‑70), che, in dissenso con l'Albornoz e, stroncando addirittura le lungimiranti e ben preparate sue direttive, concluse una dannosa e disonorevole pace coi Visconti. L'Albornoz ne soffrì duramente; ma con generosa fierezza ne offerse in ricambio anche un più devoto fervore. E, mentre più tristi gravavano queste contrarietà, egli riusciva con mirabile prontezza di risorse, a spazzar via quel gravissimo e pericoloso malanno che furono le Compagnie di ventura: con magnifico sforzo ottenne di scompaginarle e di sgombrarne gli stati della Chiesa.​δ

 p19  Meravigliosa opera di stratega e di geniale politico quella così svolta dall'Albornoz, che, per il tema speciale e diverso di questo lavoro, mi son dovuto limitare a riassumere con tratti purtroppo schematici. Assai più complessa ed irta di difficoltà e ben più movimentata fu l'opera sua, sbalestrato come si trovò in mezzo ad ostacoli aspri e possenti e, peggio ancora, tra tanti pericoli di viperine sorprese.

Certo è che egli dimostrò di comprendere come non bastasse gettarsi arditamente nella battaglia, non bastassero isolati successi strategici, ma era necessario il sussidio di un sistema organico di accorgimenti. E di fatti — come osservava C. Capasso — s'industriò di tessera tutta una ben disposta trama di accorgimenti, coi quali riuscì a procurarsi da alcuni di quei signori aiuto contro altri e a suscitare loro avversari e ad assicurarsi partigiani nell'ambito delle signorie stesse. Assalì tempestivamente or questo or quel punto, procedè metodicamente a conquistar territori e, via via che procedeva, a consolidare la conquista fatta.

Insomma egli riuscì a realizzare il suo programma; riuscì a rendere effettivamente possibile l'auspicato ritorno della Sede pontificia a Roma.

"Era ormai preparata la via perchè il Pontefice venisse a sopire gli odî e a guarir le ferite e per riavvicinare a sè con le parole di benedizione, dopo tante guerre, l'animo degli Italiani."​ε

l'Albornoz aveva compiuta questa provvidenziale impresa di render possibile, finalmente, che si realizzassero  p20 il sogno di Dante, i voti del Petrarca, le fervorose esortazioni di S. Caterina, le preghiere dei cattolici a questo contributo necessario alla ripresa di una normale vita d'Italia: il ritorno della sede pontificia in Roma.

E infatti nel concistoro del 20 luglio 1366 Urbano V annunciava la buona novella: la sua decisione di tornare in Italia.

Molte le inframmettenze dei cardinali francesi per dissuaderlo, per trattenerlo. Ma il Papa non cedette.

Il 30 aprile 1367 partiva da Avignone per Marsiglia, ove trovò ad attenderlo una flotta di circa settanta galee. E tra queste, una sopra tutte gradita e memoranda: quella costruita in Ancona a spese dei popoli della Marca — già sì ribelli! — e destinata ad accoglierlo e condurlo in Italia.

Tutta una festa di colori il gran pavese, e nella cima dell'albero maestro il vessillo della Chiesa e, con le chiavi decussate, l'impresa araldica di Urbano V. E, accoltovi il Pontefice, veleggiò verso l'Italia. Il 4 giugno 1367 approdava nel porto di Corneto, allora uno dei più sicuri del Patrimonio.

Di nuovo, finalmente, il capo della Chiesa cattolica era ritornato in Italia. E quando, disceso dalla nave, s'inginocchiò sulla terra come pellegrino reduce da lungo esilio, e, fra gli osanna della folla prosternata e lo sfiammante tripudio dei vessilli multicolori delle rappresentanze accorse, fatto improvviso silenzio, si vide apparire dalla sua tenda il vecchio cardinale Albornoz e farsi innanzi, solo, nel breve spazio tra la tenda e l'altare e prosternarsi innanzi il Pontefice,  p21 ben è vero, come dice il Filippini, che si compiè cerimonia, più che supremamente augusta, commovente.

E qual sarà stato il cuore di lui, dell'Albornoz, che a costo di tanti sforzi, e pur tante amarezze, aveva reso possibile e determinato quel grandissimo evento!

Il 9 giugno il papa giunse a Viterbo, già sì pauroso baluardo del ghibellinissimo Giovanni di Vico. Poi, passata ivi l'estate, il 16 ottobre entrava solennemente in Roma, trionfalmente, tra gli osanna e le lacrime di commossa esultanza dei fedeli.

— Proprio in quello stesso anno, in quello stesso mese — il 25 ottobre — Simonello Balantralli, maresciallo del Ducato per la Chiesa, consegnava al Vice castellano Pietro Consalvo la nuova Rocca fatta construire dall'Albornoz a Spoleto. — È una coincidenza cronologica specifica e significativa — e va ricordata.

*

* *

Vero è che tre anni dopo Urbano V volle ritornare in Francia, forse per debolezza d'animo o, come altri affermò, per il desiderio di poter più da vicino portar contributo di pace nella lotta che infieriva tra Francia ed Inghilterra.

In ogni modo non è certo che fosse col proposito di rimanere in Avignone. La morte avvenutane men che tre mesi dopo — quasi in obbedienza al fosco presagio annunciatogli da Santa Brigida per trattenerlo a Roma — lascia agli studiosi la buona occasione di un quesito di più.

Certo è che quel primo passo non andò perduto.

Ad Urbano succedeva nel decembre 1370 Gregorio IX  p22 (Pietro Roger de Beaufort), uomo di alto sentire e di energie più ferme del suo predecessore.

Quantunque nepote di Clemente VI e francese — di Limoges — (l'ultimo papa francese che ha coperto la cattedra di San Pietro), sentì la necessità di reintegrare definitivamente l'autorità pontificia a Roma. E vi si decise.

Fermo il proposito, ma gravi, anche questa volta, i contrasti e i tentativi di Francia per trattenerlo. Vi s'interpose personalmente anche il fratello del re, il duca d'Angiò, inviato a questo scopo in Avignone. E, certo preoccupanti, dovean risultare queste manovre e i tanti intrighi, questa i quali già poteva intravvedersi una minaccia di quello scisma che, purtroppo, si affermò pochi anni dopo.

E intanto era morto, nel fervore dell'opera, il 24 agosto 1367,º a Belriposo presso Viterbo, il card. Albornoz. Così, prima che ne fossero consolidati i provvidi effetti, era venuta a mancare la forza meravigliosamente organizzatrice e normativa che egli aveva sì provvidenzialmente rappresentata. E i legati pontifici — francesi, di Provenza — mandati poi a sostituirlo, tanto avevano col malgoverno loro, le prepotenze, sfruttamenti e peggio, irritati gli animi da provocare aperte reazioni. Più di tutti il card. Roberto di Ginevra, crudele e senza scrupoli, capeggiatore di una violentissima compagnia di mercenari bretoni.

E la mossa ribelle fu questa volta data da Firenze — già la più fedele alleata della Santa Sede — e appunto, per reazione al losco intrigo teso a suo danno dal card. D. Nolet mandato da Avignone come legato a Bologna. I Fiorentini si allearono con Bernabò Visconti, felice di sfogare il suo vecchio astio contro il papa; e, spiegando una bandiera  p23 rossa — anche allora! — sulla quale spiccava la parola Libertas, "chiamarono a riscossa truppe quelli che eran malcontenti di quei legati" (Pastor). E prima Bologna, — che fece suo quello stemma con quel motto, — poi tante altre città (ottanta) risposero a quel grido d'insurrezione.

E la rivolta dilagò anche nel centro d'Italia: anche nell'Umbria. Non però a Spoleto, nonostante le vive insistenze rivoltegli da Firenze. Che, se pure un tentativo d'insurrezione vi fu inscenato dai ghibellini, questo fu represso con pronta e sanguinosa reazione da parte dei guelfi, prevalenti nella città da che appunto l'Albornoz ne aveva procurata la riforma a stato popolare. Ma di ciò meglio in appresso.

Gravi dunque le ragioni che dovean preoccupare papa Gregorio nel gran passo che stava per compiere. Però ne risultò vittorioso il suo deciso buon volere, anche pei fervorosi incitamenti di S. Caterina che, con ardente apostolato, l'esortava e incoraggiava.​7

E di fatti il 13 settembre 1376 lasciava Avignone, per sempre.

Imbarcatosi il 12 ottobre a Marsiglia, giungeva, dopo lungo e tempestoso viaggio, a Corneto e poi, il 3 gennaio 1377, ad Ostia. E da quì, — dopo concluse opportune intese coi Romani, — risalito il Tevere sino a San Paolo, giunse finalmente, il 17 gennaio, a Roma.

E vi fu accolto, più che con feste, con esultante commozione devota — in ginocchio.​8

 p24  Il pontificato cattolico era così ritornato per sempre nella sua vera e legittima sede, Roma, ad limina.

"Il ritorno dall'innaturale esilio in Francia — così il Pastor — segnava un'era nuova, non soltanto nella storia della Città Eterna, ma anche in quella della Chiesa.

E pur della storia d'Italia.


Note dell'autore:

α L. Pastor. — Storia dei Papi — Vol. I, cap. I, pag. 67.

1 In un pseudo conclave adunatosi il 20 settembre 1378 a Fondi, dai cardinali, comprati ("comprati" è la parola) da Carlo V fu eletto, essendo già pontefice Urbano VI, un antipapa (Clemente VII — Roberto dei conti di Savoia, di Ginevra), che tentò di riportar la Sede pontificia in Avignone. E vi si affermò il grande scisma — lo "Scisma d'occidente", il quale poi si aggravò e dilatò così da minacciare veramente la compagine della Chiesa; e "fu la più grave e lunga scissura che la storia del papato conosca" (Pastor. Storia dei Papi I.2). E durò sino al 1409.

2 "Roma era desolata, sino a non esser riconoscibile . . . Lungo il Tevere, Campo Marzio era una palude pestilenziale. A sole ventimila anime — non par credibile! — era ridotta la popolazione della città che sotto i Cesari ne aveva avute più di due milioni." — Gregorovius. Le tombe dei papi II.81.

3 Risulta da documenti precisi che l'Albornoz, per far fronte alle strettezze finanziarie tra cui si trovò preso in questa sua missione e provvedere alle spese per le truppe merenarie, giunse ad impegnare persino i suoi gioielli e le argenterie ad un ebreo di Perugia.

4 Il Petrarca, che stava a Milano, all'arrivo dell'Albornoz gli andò incontro, anche lui, fuori Porta Ticinese al seguito dell'arcivescovo Giovanni Visconti. Ma poco mancò non gli costasse caro quest'atto di omaggio. — "Mentre, accecato e riarso dalla polvere e dal sole, in mezzo alla calca dei cavalieri, dato e ricevuto appena il saluto, cercava di trarsi in disparte, gli sdrucciolò il cavallo coi piedi di dietro sull'orlo di un precipizio. . . . Lo fece accorto del pericolo il giovinetto Galeazzo, nepote dell'arcivescovo, e già accorreva in suo aiuto, quando il Petrarca spiccò un salto e si trovò sano e salvo sull'estremo margine della ripa". — Filippini, op. c. 13 — Ecco la notizia di un'abilità sportiva non abbastanza conosciuta in messer Petrarca: ed era lì lì sulla cinquantina. Peccato non fosse presente anche Monna Laura, se non a drammatizzare con un terrorizzato strilletto la scena, per lo meno ad ammirarlo.

5 Il Rainaldi ed altri sulla sua traccia hanno affermato che Cola di Rienzo fu affidato da papa Innocenzo al Cardinale Albornoz in occasione della sua partenza da Avignone e con intesa che in Italia andassero insieme. Il Filippini dimostra esaurientemente che ciò non è vero. La partenza di Cola da Avignone avvenne oltre un mese più tardi di quella dell'Albornoz, il 24 settembre, e, forse, come novità, non del tutto gradita almeno in primo tempo, al cardinale.

β C. Calisse.I Prefetti di Vico, in "Archivio della R. Società Romana di Storia patria", Vol. X 1887.

γ Cfr.: F. Filippini op. cit.G. Mazzatinti, Il Cardinale Albornoz nelle Marche e nell'Umbria — in Arch. Stor. per le Marche e per l'Umbria, Vol. IV.

6 Bologna, già tenuta dai Pepoli come vassalli della Chiesa, era caduta in potere di Giovanni Visconti da Oleggio. L'Albornoz, giuocando abilissimamente tra le asprezze del dissidio che, appunto per Bologna, procurò di trar dalla sua e farsi amico Giovanni, da cui ottenne quella signoria, concedendogli in cambio il marchesato di Fermo. — E a Bologna l'Albornoz fu provvido veramente. Ne sta tuttora a ricordo il Collegio di Spagna, da lui fondato per i giovani suoi connazionali che frequentavano quello Studio. E la commissione — così risulta da preciso documento trovato e pubblicato dal Filippini — ne fu data, prima, il 5 aprile 1352, al mastro muratore Andrea di Pietro ed altri suoi Compagni, poi, il 21 aprile 1365, a Matteo Gattapone, quello stesso al quale, come vedremo, affidò la costruzione di questa Rocca.

δ Minacciosissima era divenuta, per potenza ed ardire senza ritegno, la così detta Compagnia di S. Giorgio capitanata da Ambrogio Visconti e da Giovanni Acuto. Questa nel maggio del 1366 aveva avanzato nel territorio della Chiesa e invaso parte del Ducato di Spoleto. Pronto accorse l'Albornoz da Casanzana e il 18 giugno giungeva a Norcia per far argine all'invasore. E nel settembre, per opera del prode Ugolino di Montemarte capitano delle sue milizie, inflisse a quelle soldatesche una sconfitta decisiva presso Orvieto. Cfr.: Filippini op. cit. cap. XV pagg. 385‑397.

ε F. Filippini, op. cit.

7 Quanto ardenti e affocate di passione le invocazioni con cui lo sollecitava S. Caterina nelle lettere allora inviategli. — ". . . Siatemi uomo virile e non timoroso . . . rispondete a Dio, che vi chiama che veniate a tenere e possedere il luogo del glorioso pastore Santo Pietro . . . Venite, padre, e non fate più aspettare li servi di Dio, che s'affliggono per lo desiderio. Ed io misera, miserabile, non posso più aspettare; vivendo, mi par morire stentando, e vedendo tanto vituperio di Dio . . . — Tomasseo, Le lettere di S. Caterina ridotte a miglior lezione, Vol. III.

8 Questo suo arrivo si vede rappresentato, bene inteso per approssimazione — e anche questa assai relativa, — in una grande tela del Vasari, nella Sala Regia in Vaticano.


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