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Capitolo I

Questa pagina riproduce una parte di
La Rocca di Spoleto
di Carlo Bandini

Tipografia dell'Umbria
Anno XII E. F.

Il testo è nel pubblico dominio.
Le eventuali foto a colori sono © William P. Thayer.


Se vi trovate un errore,
vi prego di farmelo sapere!

seguente:

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Capitolo III

 p27  Capitolo II

La fortuna, anche questa volta ingiusta, negò all'Albornoz la consolazione di assistere a quel grande avvenimento. Era morto, come si è detto, nel '367 presso Viterbo.

Quale premio sarebbe stato a tante e sì provvide sue fatiche. E quanto meritato! — chè la storia riconosce a lui la gloriosa benemerenza di un decisivo contributo ad aver resa possibile la restaurazione della cattedra pontificia a Roma.

E appunto in questa sua opera s'inquadra, anzi, è proprio intimamente connessa la costruzione di questa Rocca, che ancora sta salda e imponente a coronare il poggio donde digrada al piano la città di Spoleto.

Ponderoso edificio militare; uno di più notevoli e muniti di quel tempo. — "Una delle più importanti e meglio fornite fortezze che avesse nel medioevo lo Stato della Chiesa", scriveva il Guicciardini.

Di questa sua importanza, che è, non solo monumentale, ma anche storica per lo scopo che ne determinò la costruzione e non meno per gli avvenimenti politici e di guerra che vi fecero capo e per il grado cospicuo dei personaggio che ne ebbero il governo, vedremo poi, con qualche precisa notizia, gli elementi più chiari e notevoli.

 p28  Ma prima, sarà opportuno far qualche cenno, necessariamente sommario, delle vicende e per così dire del clima storico locale che precedettero e che diedero occasione e vita a questo edificio.

Il quale fu costruito appunto dall'Albornoz, e ad opera del suo architetto di fiducia, Matteo di Giovannello da Gubbio, detto il Gattapone. — Anche nella scelta di quest'artista si rivelò la intuizione pratica e geniale dell'Albornoz, che il Gattapone — quanto nostro conterraneo, — fu per certo uno dei più grandi artefici del suo tempo.

Abbiamo visto quanto grave ed irto di difficoltà era stato il compito dell'Albornoz, di fronte a Giovanni di Vico e agli Ordelaffi. Ma, se con minor violenza di contrasti, tutt'altro che agevole esso fu pure in questa regione e nelle terre del Ducato, anche perchè a complicarlo concorreva la necessità di quel certo gioco a bilico necessario con Perugia, che, per il suo attaccamento alla Chiesa, era prediletta e protetta da quei pontefici. Però anche quì l'Albornoz seppe risultare vittorioso e, al solito, ammirevole per l'alternanza veramente geniale di energie e di elastici accorgimenti.

Quando nel 1354, sottomesso, come abbiam visto, Giovanni di Vico, risalendo alla riconquista della Marca, giunse nelle terre del Ducato di Spoleto, trovò tutta in fermento questa regione, anche questa regione.

Vero è che con il successo ottenuto sul di Vico, molto si era avantaggiato il credito del potere della Chiesa in persona del suo Legato. Grande davvero tale aumento di prestigio in confronto di quando l'Albornoz era la prima venuto in questi luoghi. Dice l'anonimo autore della  p29 vita di Innocenzo IV che, entrato che fu nelle terre del Ducato di Spoleto, il cardinale non vi aveva trovato ubi pedes figeret. Appena nel castello di Montefalco. Luminoso e amenissimo luogo, questo, ma troppo poco!

Ma per effetto di quel ravvivato prestigio, Narni, per prima, si diede al Pontefice (che delegò l'Albornoz a nominarne il podestà e il capitano); poi Rieti, e Terni cacciarono i ghibellini. E lo stesso fece, nel 1354, anche Spoleto — e vedremo poi in qual modo e con quali condizioni.

Era già, questo, un importante successo, che però non consentiva affidamenti abbastanza sicuri. Specie Spoleto. Troppo invetereta e, per così dire, allo stato cronico era l'irrequietezza turbolenta di questi luoghi e particolarmente di questa città — forse anche come morboso fenomeno di contrazione per la stroncature che sì di netto ne aveva menomata l'importanza politica con la caduta del suo già tanto ampio e possente ducato.

"Divisa nelle fazioni guelfa e ghibellina, per una serie di rivolgimenti, per un'alternativa mai interrotta di vittorie e di conflitti, di offese e di vendette, per odi incancellabili, seppelliti col sangue e trasmessi di generazione in generazione, Spoleto ne era veramente dissanguata."α

E questo, ripeto, si manifestava come uno stato purtroppo cronico.

Era sembrato che l'alba del secolo XIV avesse portato a Spoleto, già ordinatasi a stato guelfo, un poco di pace. Ma quel triste e inopinato esodo in terra straniera della Sede  p30 pontificia vi ebbe subito una violenta ripercussione, e ciò con una coincidenza, anche cronologica, tanto precisa da metterne in evidenza i rapportati, sia pur complessi, di causalità.

Proprio in quello stesso primo ano dell'esodo della Cattedra pontificia (1305) i ghibellini, presa baldanza da quell'avvenimento, insorsero in Spoleto e con sanguinosa violenza riuscirono a cacciare i guelfi, che governavano la città. I quali però — eccoci alla sciagurata serie di tanto tragiche alternanze — dopo aver corso a rappresaglia il territorio e occupate alcune castella, assediavano Spoleto e, con l'aiuto dei Perugini rimasti anche allora attaccati alla Chiesa, e con il soccorso di Roberto duca d'Angiò, riuscirono l'anno dopo a farvisi riammetter. E parve che fosse ritornata un poco di quiete, relativa.

Ma presto — appena tre anni dopo — si fu da capo, e anche con più aspra violenza. I ghibellini insorsero di nuovo; i guelfi si asserragliarono nelle case. La città si tramutò in un campo di lotte e di insidie; ogni casa una fortezza e per mesi e mesi una guerriglia spietata, sino a che, sopraggiunti, nel marzo 1310, a dar man forte ai ghibellini quelli questi Todi e pur molti di Foligno, i guelfi, sopraffatti, furono costretti a cercar scampo nella fuga.β

Ma ecco in aiuto dei fuorusciti, ecco ancora una volta con numerosa milizia la guelfa Perugia. E non Perugia soltanto, ma anche le principali città guelfe della regione: Gubbio, Camerino, Città di Castello, Montefalco, Trevi, Assisi,  p31 Bevagna e pur dei compagni di fede guelfa che c'eran nella stessa Foligno, mentre Narni, Terni, Todi, Amelia, Sangemini di parte ghibellina e anche frazioni ghibelline di altre città a regime guelfo mossero in armi a sostegno dei ghibellini rimasti padroni di Spoleto.

Così la guerra — grossa e sanguinosa guerra — imperversò con saccheggi, assedi, battaglie: violentissima quella del 10 luglio 1310 nel piano did Spoleto nelle vicinanze di Maiano e poi l'altra nel territorio di Todi presso il ponte di Montemolino, ove morì in combattimento anche il Rettore del Ducato, che si dice fosse uno di casa Savoia. Non meno sanguinosa quella del 28 febbraio 1312 presso S. Brizio. Ma se anche in tali scontri risultarono vittoriosi i guelfi, non sembra che mutassero le sorti della guerra: e a Spoleto seguitarono a spadroneggiare i ghibellini, che si rifiutarono di riconoscere come nuovo Rettore il fratello di papa Clemente inviatovi da Avignone. E Clemente, da lontano, fulminò Spoleto d'interdetto.

E a far più grave ed esteso quel conflitto si aggiunse l'intervento di Enrico VII che, ritornando da Roma, — ove era sceso per farsi incoronare, — diè mano ai ghibellini e, bruciando ville e castella, devastò, nel risalire a Firenze, il territorio di Perugia.

Circa quattro anni imperversò, con alterne vicende, in queste terre il malanno di questo conflitto, sino a che la gravità dei danni e la stanchezza non indussero alla conclusione di una pace — che fu celebrata nel 1314 a Perugia nella loggia sotto il campanile di S. Lorenzo.

Pace solenne, consacrata da giuramenti ed abbracci. Però breve ed infida: come la bonaccia in cui si raccoglie  p32 per più violento impeto la forza della bufera. E rabbioso vi soffiò dentro anche quel battagliero campione del ghibellinismo delle Marche, Federico I di Montefeltro.

Ed ecco improvviso lo scroscio della tempesta sulle vecchie mura di Spoleto, il 16 marzo 1320, violentissimo. I ghibellini — essi, anche questa volta — insorsero di sorpresa contro i guelfi. E questi, colti alla sprovvista, corsero colle loro famiglie a cercar scampo nella cattedrale e vi si barricarono. Era da sperare che la santità del luogo li tutelasse. Ma i ghibellini, aiutati da milizie feltresche venute da Assisi, infrante le porte, misero a sacco la chiesa e, di quanti vi trovarono, molti uccisero; gli altri — circa quattrocento — "uomini, donne, fanciulli trassero in prigione, parte in una grande torre degli Anselmi, parte in certe basse e oscure volte avanzi di antiche terme.9 Quivi la più parte in ceppi furono, con scarso cibo e durissimo trattamento, tenuti due anni e cinque mesi" (Sansi op. cit. I.191).

Ma come se questo non bastasse, ecco un epilogo veramente atroce: — Eran già circa due anni e mezzo da che quei disgraziati eran stati rinchiusi in quelle mude. Non erano valse preghiere ed interposizioni: nessuna pietà per loro. Peggio si volle: distruggerli addirittura. Morto il Montefeltro e vista ormai inevitabile, per complesse circonstanze, l'imminente fine della loro terroristica tirannia, i ghibellini, invasati da sadico furore, corsero schiamazzando a quelle prigioni e di quei tanti reclusi, uomini e donne, quanti più poterono ammazzarono e, a sterminar quanti ne eran rimasti vivi o moribondi, adunatavi molta legna, vi appiccarono fuoco.

Spaventosa tregenda. Però, anche se in un alone sanguigno,  p33 ecco apparire un chiaro lume, e pur tra quel concitato strepito di grida di rabbia e gli spasimi di dolore, ecco giungere a noi una dolce voce che, nell'esaltazione del più caro e santo degli effetti umani, scende al cuore come pietosa redentrice di tanto eccesso di ferocia bestiale; l'apoteosi e l'esaltazione di quella cosa sacra — la più sacra fa le cose umane —: la madre.

Tra quei disgraziati su cui incombeva sì straziante fine c'era una giovane donna, già nata di famiglia ghibellina, ma poi, in quegli anni di effimera pace, accasatasi con un nobile guelfo della città, — che par fosse stato ucciso in quel primo tumulto, nel Duomo — e perciò come guelfa compresa in quella razzìa e portata e chiusa là den: una giovane madre con due suoi bambini. A un tratto, mentre già si preparava quel rogo, Ella riconobbe tra quegli energumeni un suo fratello. E lo chiama, lo supplica, rievocando i ricordi di convivenza nella loro giovinezza — "Siamo dello stesso sangue. . ." — E quel fratello sembrò ne fosse scosso: in un qualche segno di sua pietà sorride alei una speranza di salvezza. Ma egli guarda quei bambini e si riscuote. — "Questi, no; questi son d'altro sangue: sangue di guelfo; e il sangue dei guelfi deve essere distrutto. Lasciali e vieni: vieni, ma sola.

La madre si chinò su quelle sue creature; li prese in collo e con essi si ritrasse. Con essi e per essi preferì il martirio.

Il ricordo se ne trova anche nelle cronache attendibilissime del Minervio, (Lib. I cap. IX), nelle Storie del Campello (lib. 32), nel Leoncilli, ed è pur riferito come certo dal Sansi. E deve esser vero. Ma se vero non fosse, grazie sian rese a chi lo avrebbe inventato.

 p34  Troppo grave si ritenne tanto scempio.

E se ne scatenò una violentissima guerra, di reazione, anzi una vera crociata, chè tale fu il carattere che le fu imposto dal papa, contro Spoleto come ribelle e colpita da interdetto.

E non soltanto mossero contro di essa i guelfi della regione, ma pur di Firenze, di Siena e di Orvieto. Con numeroso esercito ne invasero il territorio e devastatolo a rappresaglia, misero l'assedio alla città "con cinque campi e nove battifolli (bastite), battendo la città con gran numero di mangani e di trabucchi (Sansi Ivi I.196).

Lungo quest'assedio, che i ghibellini di Spoleto tentarono di rompere con audaci sortite. In una di esse contro il campo posto a San Giuliano assalirono la bastita che era stata costruita presso San Pietro e, presala, l'incendiarono. E, sciaguratamente, ne risultò bruciata anche la bella e allora veneratissima chiesa. Ma l'assedio si fece sempre più stretto, sino a che la città, dopo aver resistito circa due anni, dovè il 9 aprile 1324, arrendersi per fame.

E i Perugini, sbarazzatisi degli alleati, entrarono in Spoleto da padroni, mentre Giovanni XXII, da Avignone, se puer consentiva di sospendere per un anno l'interdetto, con suo breve datum Avinioni VI idus mai pontificatus nostri anno nono (1325) dichiarò Spoleto soggetta a Perugia, — anzi, dice il Villani — "distrettuale di Perugia".

E, come se non bastasse, ecco da Avignone ordini di procedere con tutta severità contro i tanti colpevoli e ribelli  p35 di Spoleto. E non è a dire come e quanto fu eccessivo lo zelo con cui vi provvide la Corte generale del Ducato. Ben settecento condanne di bando capitale e di confisca, senza contare quanto altro, con severissima procedura, fu disposto per provvedere a quel malanno delle superstizioni e delle tristi pratiche negromantiche che, anche questo per spirito di ribellione alla Chiesa, si erano diffuse tra quel tanto disorientamento. Un disastro. Veramente, come scriveva il Fumi, "per le morti, per gli esìli, per le proscrizioni e le confische la città di Spoleto era ridotta allo stremo".10

Oltre a ciò, la soggezione a Perugia. A questa il diritto di nominar il podestà di Spoleto e di ricevere, in segno di soggezione, l'annuale tributo di un pallio.

E a far più irritante questo stato di cose si aggiunse che i Perugini, a maggiore ostentazione del predominio loro, si accinsero a costruire un cassero proprio nel cuore della vecchia Spoleto e, quasi ad irrisione, accanto alla porta che col nome di Porta fuga ricorda la gloria di Spoleto per la sua vittoriosa resistenza ad Annibale.11

Vero è che contro questa iniziativa, oltre il malcontento cittadino, pare insorgesse anche l'autorità pontificia, forse in sospetto, nonostante le prove di devozione avute da Perugia, che troppo si consolidasse il suo potere anche a Spoleto. E, a quanto attesta il Filippini, i Perugini dovettero sospendere, allora, quei lavori. Però quod differtur non aufertur, specie quando si tratti di realizzare siffatti propositi di egemonie. Tutt'al più aspettare l'aiuto di una qualche occasione, di un pretesto. E questo, come vedremo, fu fornito tre anni dopo, nel 1327, da un'iniziativa ardita  p36 ma intempestiva di Pietro Pianciani. E credo che appunto ad essa ed al suo tempo — cioè tra gli anni 1328‑'30 o '31 — debba riferirsi la definitiva costruzione del Cassero perugino a Spoleto, la Castellina; proprio una robusta fortezza "col ponte levatoio dalla Banda de dentro, et fossi grandi": così attesta Parruccio, che ne riferisce "de veduta".12

Certo cosa odiosissima per gli Spoletini: e ne seguì tutto un period di più o meno sorde ribellioni e di disorientata irritazione.

In esse campeggia la figura di uno spoletino di alto ingegno, gentiluomo illustre e di gran conto, — fu anche Podestà di Firenze, — Pietro Pianciani. Già bandito da Spoleto con gli altri gentiluomini ghibellini e poi riammesso in città, cominciò con l'affermarsi quale capeggiatore del malcontento di Spoleto — consenzienti in questo anche i cittadini guelfi — contro quell'egemonia perugina. E di fatti procurò, appunto nel 1327, che la cerimonia di consegna del pallio a Perugia fosse fatta con riserve tali da escludere il significato del vassallaggio. Ardita e nobile, ma imprudente iniziativa, che procurò, oltre che a lui un nuovo esilio, il pretesto ai Perugini di costruire il cassero in Spoleto.

Però l'anno dopo, per interposizione del duca di Calabria, il Pianciano ritornava in città, e presto vi riprese posizione tanto preminente da essergli attribuita la carica di Gonfaloniere perpetuo. Una specie di dittatura, che tenne per circa sette anni. A tanto si adattarono, per quanto irrequieti, gli Spoletini, pur di affermare con più chiaro esponente il malcontento loro al prepotere dei Perugini.

 p37  Purtroppo molte delle speranze riposte nel Pianciani risultarono deluse. Sì, fu animatore di una serie di movimentate vicende, però con direttive non precise, anzi ambigue, che lasciano incerti se, più che l'amore per la città sua, in lui potesse un eccesso di ambizione. Certo è che, già campione preminente ghibellino, finì — poi che, perduto quell'alto ufficio dittatoriale e bandito della città, non gli riuscì con ripetuti e aggrovigliati tentativi d'insediarvisi di nuovo, — finì, dico, col ricorrere all'aiuto dei fuorusciti guelfi per rientrare, di forza, in Spoleto; e, peggio ancora, si ridusse ad invocare l'aiuto dei Perugini — Ma fu respinto. Triste e non raro e, purtroppo, non ultimo esempio di un'ambizione eccessiva.13

Ma se pur sul Pianciani parve imperniarsi quella serie di triste vicende spoletine, ben più ampio fu il raggio delle interferenze e ripercussioni di tali eventi, e non soltanto nei limiti regionali. Come abbiam visto, vi s'intromise il potente Duca di Calabria, e pur risulta che molti dei ghibellini di Spoleto, parteggiando per lej Lodovico il Bavaro, sì ostile alla Chiesa, passarono in Romagna e poi nelle Marche e in Toscana a combattere in suo aiuto, mentre altre Spoletini, avviatisi in armi negli Abruzzi in sostegno di re Roberto, sorpresero presso Narni le milizie del Bavaro, che — dice il Villani, X cap. 78 — con "grande battaglia rimasero sconfitti e morti e presi in gran parte". E ciò senza contare le incursioni armate nel contado.

E, come se tante preoccupazioni non bastassero, sopraggiunse fierissima, nel 1348, una terrebbe peste (quella stessa che al Boccaccio suggerì lo svago di cui sino a noi si è protratto  p38 il sorriso), che desertò con tanti lutti anche Spoleto; e poi, in sul finire di quell'anno, disastrosi terremoti.

Triste e pauroso insieme, le cui conseguenze furono così sinteticamente esposte da Pietro di Castagneto Rettore del Ducato in quel disgraziato period: "Cum dura civilium guerrarum commotio civitates et castra ita afflixit quod iam quasi ad extremum sunt deducta, nonnulli etiam nobiles et potentes in paupertate sunt deducti et, quod gravius est dicere, multae nobiles mulieres coguntur sua corpora exponere propter quaestuum". — E l'ho riferito in latino perchè, non dico sia necessario, ma può esser utile a prevenire equivoci cronologici, se mai non bastasse ad escluderli quello che a quel buon messere risultò più grave di Dover dire, ma che pure ha detto sin troppo chiaro.

Tali le condizioni di questi luoghi quando nel 1354 vi si presentò l'Albornoz. Tj altro che liete e tanto meno incoraggianti. Peggio ancora le rivelavano quei precedenti: addirittura allo stato cronico il malanno di quelle irrequietezze.

Però la notizia di quel tanto che il Legato aveva già fatto a Roma e, più che a Roma, nel Patrimonio e pur di quanto si proponeva di fare per il riassetto politico delle terre della Chiesa fece sorgere a Spoleto delle speranze. Sopra ogni altra vagheggiata l'emancipazione dalla malvisa soggezione a Perugia. E quel cassero? Proprio una spina nel cuore.

Vero è che, come si è detto, nel conflitto che aveva  p39 avuto per epilogo quella soggezione, Spoleto era stata attaccata e vinta perchè ghibellina, anzi ribelle alla Chiesa, e che Perugia si era mossa e aveva capeggiata questa impresa come di parte guelfa. E c'eran state anche le tanto severe sanzioni di Giovanni XXII e persino l'interdetto emanato nel 1311 da Clemente V perchè la città non aveva voluto ricevere il fratello suo come Rettore del Ducato.

Insomma Spoleto doveva trovarsi iscritta a grossi caratteri nel libro Nero della curia pontificia. Però cose passate da un pezzo, già da decenni, e passato pure da qualche tempo anche papa Giovanni, tanto parziale in favore di Perugia e severo e mal predisposto contro Spoleto. E Spoleto intanto, sin dal 1347, si era riformata a stato popolare guelfo, e d'esser guelfi avevan giurato i suoi priori. E si same che il potere, sino a che stancando con eccessivi abusi non incìti a reazioni, attrae ed alletta aderenti.

Eppoi, anche se i ghibellini erano intanto riusciti ad infiltrarsi e a prender di nuovo piede in Spoleto; anche se l'ultimo tentativo del Pianciani di rientrare in città era stato fatto da lui, nel 1350, con l'appoggio dei guelfi, ma respinto dai ghibellini di Spoleto con l'aiuto del ghibellinissimo e ribelle Giovanni di Vico, certo è pure che anche il di Vico era intanto, come abbiam visto, ritornato, più o meno candido, in grazia della Chiesa, auspice l'Albornoz. E Spoleto, già datasi al Vico, era così ridivenuta (vero rompicapo quest'alterno viavai a zigzag!) di buona marca guelfa.

Anzi, tanto per completare questo gioco, proprio con assoluta coincidenza con l'arrivo dall'Albornoz e pochi mesi prima che egli venisse in queste terre, i ghibellini di Spoleto avevano, tra il marzo e l'aprile 13354, cacciati di città tutti i  p40 guelfi più autorevoli; ma, poco più di un mese dopo, i guelfi che vi erano rimasti, ripreso ardire, insorsero e alla lor volta e con spargimento di sangue, cacciarono i ghibellini. E, a far più manifesto questo mutamento, furon disposti severissimi provvedimenti di confisco contro i banditi ghibellini e gravi sanzioni contro ogni loro fautore.

Dunque guelfa, almeno allora, pecorella sbandata ma ritornata all'ovile, era Spoleto; guelfissima anzi, se misura del guelfismo deve intendersi l'odio contro i ghibellini. Perciò non del tutto illogiche quelle speranze nelle nuove provvidenze dell'Albornoz per il riordinamento di questa regione.

Così, non appena giunse il Legato in queste terre e, più ancora, quando vennero a Spoleto alcuni suoi messi, vi furon ricevuti con liete accoglienze. E pare che subito fosse iniziata in proposito una qualche trattativa.

Certo è che l'Albornoz comprese prontamente quanto e quale partito avrebbe potuto trarre dal secondare tali tendenze. Però c'era una difficoltà: il dovere o la convenienza di non disgustare Perugia. Questo consigliavano ragioni pratiche di politica contingente: questo il proposito d'Innocenzo VI, anche con precise istruzioni al Legato. Partita complicata, ma non tale però da impastoiare un uomo della duttile genialità dell'Albornoz. Così, pur con cauto giuoco di riserve, — intese anche a tener meglio in mano e in sospeso Spoleto e nello stesso tempo non alienarsi ed irritar Perugia, — egli si dimostrò ben disposto a favorire le aspirazioni spoletine. E a Spoleto egli apparve come l'uomo destinato a ripristinare le fortune cittadine. Perciò assai bene accolti furono altri suoi commissari e poi festeggiatissimo  p41 il suo nepote Blasco Fernandez, da lui mandato (1355) come Rettore. E per volontà popolare fu disposto che i Priori di Spoleto s'intitolassero Priores Populi pro Sancta Romana Ecclesia.

E non è a dire quanto l'entusiasmo con cui fu accolto quando a Spoleto venne proprio lui.

Poi, corrispondendo al suo invito — in conformità anche delle istruzioni intanto giunte da Avignone perchè si procurasse di dar sicura quiete a Spoleto placandone i dissidi di parte con una stabile concordia, — il 4 febbraio 1355 il Sindaco di Spoleto e quello dei fuorusciti ghibellini si riunirono innanzi a lui in Foligno, affidandogli autorità di far qualsiasi provvedimento per ricomporre le cose cittadine, impegnandosi ad osservarlo con fedele obbedienza. E in quanto così dispose fu di fatto obbedito.

E poco dopo veniva a Spoleto il vescovo di Ferrara, Rettore del Ducato per lo spirituale, ad assolvere solennemente la città di Spoleto dalle censure ecclesiastiche, e a riceverne il giuramento di fedeltà alla Chiesa.

Tutto benissimo, dunque: e pare che non sembrasse nemmeno troppo grave a Spoleto la penalità di riscatto o, diciam pure, il prezzo, di quell'assoluzione: ottomila fiorini.

Così ancora una volta la pace: la pace con il ritorno dei banditi ghibellini: pace con il rituale scambio di ramoscelli d'ulivo, di abbracci e di baci. Ma, anche questa volta, effimera; pochi mesi. In quello stesso anno 1355, non appena allontanatosi l'Albornoz per l'impresa del recupero delle Marche, si fu da capo. I guelfi insorsero e con sanguinosa violenza cacciarono un'altra volta dalla città i ghibellini.14

 p42  Sì, la sommossa avvenne al grido Viva la Chiesa, ma in realtà con uno spirito d'impertinenza ribelle, violatrice dei patti di concordia conclusi pochi mesi prima a Foligno, sanzionati dal Legato e giurati poco dopo a Spoleto. Come e perchè i guelfi spoletini s'inducessero a passo sì Ardito e in contrasto con gli atteggiamenti nei precedenti rapporti con il Legato è difficile precisare. — Forse dal vedersi delusi, con l'allontanamento dell'Albornoz per altre imprese, in quelle speranze di assoluta affrancazione da Perugia? — forse da intollerabili prepotenze dei riammessi ghibellini? o non invece da quella irrequietezza cronica di cui si è parlato, per cui — dice il Filippini — "a Spoleto era divenuta consuetudine quell'alternarsi dell'una o dell'altra fazione, e il fomite della discordia era inestinguibile"? Forse anche una ripercussione della poco coerente e non felice politica di Innocenzo VI, che troppo si mostrò parziale con Carlo IV venuto allora in Italia e che destò allarmi per le libertà cittadine? — Certo fu un'improvvisata pericolosa, perchè poteva compromettere irreparabilmente i buoni rapporti di Spoleto col Legato. Il quale infatti prontamente reagì, e il 19 settembre di quello stesso anno pubblicava da Fermo un editto — che fu letto nelle chiese di Trevi, Foligno e Montefalco — col quale prescriveva che, se entro venti giorni Spoleto non fosse ritornata all'obbedienza e non fossero comparsi avanti a lui i parecchi personaggi cospicui spoletini nominativamente designati in quell'editto, la città sarebbe stata privata di tutti i benefici e diritti e messa al bando.

Grave minaccia; ma non sembra che Spoleto se ne mostrasse allarmata. Certo non docile. Ed ecco di nuovo a dar man forte alla Chiesa i Perugini. E par che intervenisse  p43 qualche fatto d'armi, con le solite disastrose scorrerie e pur anche un assedio o minaccia d'assedio.15

Ma la necessità di evitare l'aggravio e le preoccupazioni di un siffatto conflitto in queste terre, mentre urgeva l'impresa, che si annunciava sì grave, delle Marche, indussero lo stesso Albornoz — ed anche il Papa — a procurare che le cose qui si accomodassero. perugini si accontentasse del merit procuratosi; Spoleto facesse ammenda di questo suo nuovo peccato e, con nuovi giuramenti di fedeltà, ritornasse con le buone alla Chiesa. E questa le avrebbe concesso il perdono un'altra volta; bene inteso con, un'altra volta, il versamento di altra oblazione redentrice. Però senza l'obbligo di riammettere i ghibellini.

E così fu fatto: e l'Albornoz, liberatosi da questo impaccioso fastidio alle spalle, potè avanzare e attendere con fortuna all'impresa nella Marca e poi iniziar la lotta contro l'Ordelaffi a Forlì.

Ma, come si è detto, presto sopraggiunse — ingiusto, inopportuno e stonato intermezzo — il richiamo dell'Albornoz e la sua sostituzione con Androino abate di Cluny. E anche Spoleto ne ebbe turbamento, tanto che, per quanto guelfa e legata da quei sì recenti giuramenti, si rifiutò di riconoscere questo nuovo venuto, come se fosse un intruso.

Però sappiamo che quest'intermezzo dell'assenza dell'Albornoz fu breve e che poco dopo egli ritornò in Italia e riprese, con maggior vigore e fortuna, la lotta in Romagna.

Ma anche in queste terre il suo compito non era esaurito: per lo meno occorreva consolidare la sistemazione procuratane in un primo tempo.

 p44  E senza pace con ricaduta Spoleto. Nel 1357 vi si era aggravato, anche per l'inettitudine dell'abate di Cluny, il giogo di Perugia; e la città manifestava una ripresa dell'irrequieto suo spirito d'indipendenza da quella soggezione, spingendosi anche ad aperte provocazioni. Mentre infatti Perugia nell'estate del 1359, si trovava impegnata in guerra contro Siena e Firenze, Spoleto, in odio ad essa, diede aiuto e rifugio al conte di Nola che accorreva in soccorso di Firenze. Inde irae dei Perugini, che mandarono il loro Conservatore a Spoleto per infliggere alla città punizioni di rappresaglia. Ma Spoleto gli interdisse l'ingresso.

Era la rottura definitiva tra le due città, e pure una ribellione innovatrice di uno stato di rapporti politici sanciti dalla Chiesa, prima da Giovanni XXII e poi anche dal Legato. L'Albornoz non poteva approvarla. Ma si mostrò indulgente, quasi benevolente. E chi same che a renderlo tale non concorresse quell'impertinenza fatta da Spoleto all'abate di Cluny? — Sì, quell'affronto di non averlo voluto riconoscere come successore dell'Albornoz era stata una grave mancanza di disciplina verso la Chiesa, e perchè tale l'Albornoz non poteva, come Legato, approvarla: condannarla, anzi, doveva, con severe censure. Condannarla, formalmente. Ma nj intimo suo, non poteva essergli dispiaciuta quella dimostrazione degli spoletini. C'era stato, in fondo in fondo, un contenuto di solidarietà e deferenza per lui. E forse, chi sa? — oltre che Legato l'Albornoz era uomo, anche lui — non sentisse un qualche compiacimento riconoscente che Spoleto avesse inflitto un tale smacco a chi gli aveva fatto tiro sì Mancino e con intrighi altri glie ne stava preparando.  p45 Insomma, se non proprio un nesso di solidarietà, una ragionevole ed umana predisposizione a simpatia.

E difatti, convocativi dalla Albornoz, il 25 ottobre 1359, comparvero nel palazzo papale di Ancona, dinnanzi a Blasco di Belviso Rettore della Marca, il sindaco del comune di Spoleto e il sindaco dei fuorusciti, e con mandato del 16 ottobre gli chiesero perdono ed affidarono con pieni poteri la riforma della città.γ E l'Albornoz diede incarico al suo cancelliere Enrico di Sessa che procedesse alla pacificazione dei cittadini col consiglio di 12 buoni uomini.

E — notisi — "lo stesso Legato chiese al Papa licenza esplicita di poter annullare la costituzione di Giovanni XXII che lasciava ai Perugini la nomina del podestà di Spoleto".

Innocenzo VI lì per lì non vi consentì, perchè aveva bisogno di non disgustare del tutto Perugia. Non era prudente inimicarsela mentre il Legato stava impegnandosi nella grossa prova per Bologna, e tanto irrequiete si facevano le Romagne. Ma la partita di tale affrancazione, era impostata e messa, per così dire, all'ordine del giorno.

Anzi, come giustamente in proposito hanno osservato il Sansi e il Filippini, se si esaminano gli atti del Consiglio in queste annate di Spoleto (Cfr: Archivio comunale di Spoleto. Riformagioni), si rileva che di fronte al Vicario e al Capitano eletto dal Legato — ai quali eran devolute tutte le questioni giuridiche ed economiche per il riassetto della città e del contado — l'officio del podestà perugino si era  p46 ridotto più che altro a una parvenza. Il comune agiva di fatto sotto la diretta vigilanza della Chiesa. E, per di più, Perugia era alquanto scaduta nella predilezione di cui aveva già goduto presso la Corte di Avignone: pare che avesse destato diffidenza il modo con cui si era comportata lao innanzi favorendo i ribelli di Ascoli. Fatto sta che, non ostante alcune discordanze cronologiche tra gli studiosi di tali avvenimenti, può concludersi che quest'affrancazione di Spoleto da Perugia abbia avuto un principio di riconoscimento sin dai primi del '359, perchè risultato che appunto il 1 marzo di quell'anno l'Albornoz emise una costituzione che dichiarava che Spoleto con il suo territorio dovea ritenersi da allora in poi solo e direttamente soggetta alla Chiesa — ad romanam Ecclesiam nullo medio pertinente (Sansi — Op. c. I.236). Insomma senza interferenze perugine.

Certo è che, annunciato con lettera 15 marzo '361, giungeva pochi giorni dopo a Spoleto l'Albornoz in persona, e il 22 aprile vi presiedeva il Parlamento generale con l'intervento del Rettore del Ducato Ugolino di Montemarte, enrico di Sessa auditore della Curia ed altri ufficiali e notabili della provincia. Vi fu deliberato anche sulla misura del sussidio che Spoleto avrebbe pagato per la guerra di Bologna (1300 fiorini). Ma si può ben credere che in tale occasione si rinnovassero le raccomandazioni di Spoleto per la sua affrancazione da ogni resto di egemonia perugine. Anzi sembra certo che pur vi si trattasse, con proposito preciso, anche della costruzione della nuova Rocca e implicitamente della demolizione dell'inviso cassero perugino.

 p47  Infatti nella lettera 15 marzo '361 con cui il Rettore del Ducato annunciava ai Priori di Spoleto il prossimo arrivo del Legato e la convocazione del Parlamento si accenna, come un numero dell'"ordine del giorno" di quella riunione, precisamente anche alla necessità di provvedere alle "fortificazioni col monte". Il che indurrebbe a far ritenere che già sin da allora il progetto della costruzione della nuova Rocca sul sommo del poggio sovrastante alla città — il monte S. Elia — fosse già, di comune e più o meno segreto accordo con gli spoletini, fissato. Troppo, sia pure con mire diverse, concordavano in ciò i desideri del Legato e quelli della città.

C'era ancora, sì, quella tal remora dei riguardi a Perugia. Ma ormai anch'essa risultava fiaccata nella sua presa, tanto più da che in questi ultimi tempi le relazioni di Perugia erano diventate addirittura tese anche con l'Albornoz. Anzi sembra certo che i Perugini ne elevassero preciso reclamo a papa Innocenzo, il quale procurò di quietarli e d'indurre l'Albornoz a non precipitare.

Ma l'ultimo vestigio del dominio di Perugia su Spoleto — cioè quel suo diritto di nominare il podestà e di tenere un suo cassero, la Castellina, con i suoi stipendiari — stava per tramontare. E si il primo era già, come si è detto, divenuto una sì anemica cosa da non più preoccuparsene (e, perchè tale, riuscì ancora per qualche anno a vivacchiare), sempre più inviso era il secondo, e vivo e addirittura impaziente fremeva il desiderio di vederlo scomparire.

E di fatto poco dopo l'Albornoz tagliava netto su ogni contrarietà.

 p48  Deciso l'abbandono e l'abbattimento del cassero perugino, il 22 aprile 1362 commetteva la costruzione della nuova formidabile Rocca, disponendo che vi si procedesse con ogni sollecitudine.16

Tale iniziativa — che vedremo poi quanto grandiosa — corrispondeva alla ragione d'essere e al complesso programma della sua missione; riconquistare e assicurare alla Chiesa quanto già di sua spettanza in Italia: render così possibile il ritorno della Sede Pontificia a Roma.

Molto egli aveva ottenuto anche in questa regione centrale d'Italia e nel Ducato Spoletano. Però troppo irrequieto gli si doveva esser rilevato come e quanto anche sulle più bene ordinate conquiste incombesse il pericolo della precarietà per eventuali resipiscenze. Fidarsi sì, ma prudente premunirsi da ogni sorpresa. Premunirsene, sopra tutto con organiche e forti provvidenze militari. Era questa condizione necessaria perchè il ritorno dei Papi potesse risultar sicuro da pericoli di novità.

E che di più adatto a tale scopo — a tale duplice scopo — che coronare di una formidabile fortezza la sommità del poggio che, campato alto sulla città, domina con aperta vista Spoleto e tutta intiera la sua valle, mentre per ampio tratto precipita impervio in un baratro profondo? Non c'eran là su a farne suggerimento poderose tracce di ultramillennarie opere defensionali?

Quello il luogo ove doveva sorgere la nuova fortezza, destinata a costituire, sì, una sicura difesa di Spoleto, ma che, nel riposto pensiero del sagace uomo politico, doveva  p49 rappresentarsi come efficacissima risorsa a dominar la città e così tenere in mano quest'importante centro dello Stato pontificio e assicurarlo alla Chiesa.

Anzi, se ben si considera, risultato che dalla mirabile genialità dell'Albornoz questo provvedimento fu concepito come elemento organico di un piano più vasto, conformato ad uno scopo politico e strategico più importante e di raggio assai maggiore: il dominio, cioè, e la tutela di tutta la parte centrale d'Italia, che costituisce il largo baluardo settentrionale di Roma.

E di questo piano fece centri Ancona e Spoleto.

Così provvide a far completare con opere poderose un'imponente fortezza, già dispostavi, nel 1357, sul colle di S. Cataldo che domina Ancona; e la volle dotata di ampi alloggi per residenza cospicua di Pontefici e di fedeli ed autorevoli castellani.17

Non meno grandiosa, ricca e potente — non un semplice castello munito, come avrebbe potuto sembrar sufficiente se limitato a guardia della città — volle che fosse questa di Spoleto. E, ad assicurarne la maggiore efficenza militare e far più saldo il possesso di questo perno strategico di passaggio dalle Marche e dalla Toscana a Roma, dispose che la fiancheggiassero, scaglionati su ampie linee le fortezze e i castelli muniti, pur da lui fatti costruire, di Assisi, Piediluco, Narni e, a quanto sembra, anche di Campello.

La storia e il suo occhio di esperto militare gli aveva rivelata l'importanza strategica di questi luoghi, per cui l'ampia ed aperta valle dell'Umbria sembra protesa, ma  p50 con sinuosi e sospettosi attorcimenti — vigilati dalla minaccia delle impervie balze montane — verso quella del Tevere, verso Roma. Accesso e baluardo classico dell'Urbe su una delle più importanti sue vie.

E l'alta Spoleto ne sta come a scolta.

Anche Annibale, vittorioso al Trasimeno, ne fu arrestato e deviato. E — dice Livio — ne derivò la salvezza di Roma.


Note dell'autore:

α F. Filippini op. cit. pag. 72.

β "Quel tumulto fu così implacabile e micidiale che il portarne in salvo la vita potè parer prodigio." A. SansiL Storia del Comune di Spoleto Vol. I pag. 180.

 p238  9 Questa designazione "avanzi di antiche terme" non è esatta. Non sono i Resti delle "terme," ma invece i maestosi ambulatori di un bel teatro romano — probabilmente dei primi anni dell'Impero — rivelato da un saggio di scavo iniziatovi nel 1891 da G. Sordini Sulla guida di alcuni rilievi già fatti da Baldassare Peruzzi. Scavi disgraziatamente sospesi, ma che sarebbe doveroso riprender con metodo, perchè trattasi di un monumento assai importante di rara grandiosità. E male sarebbe che per ciò non si profittasse della propizia occasione dei nuovi lavori che ora si stanno eseguendo per sistemare quella zona. Giace in gran parte sotto il tratto sud-occidentale del palazzo già degli Ancaiani, poi sede delegatizia e successivamente del Governo, presso Piazza V. E. (G. Sordini, Avanzi dell'antico teatro romano in Spoleto, Notizie degli Scavi, 1891.) — L'inesattezza del Sansi nel designar quel luogo come avanzo di terme si giustifica nel fatto che, quando egli pubblicò quelle notizie, tali scavi rivelatori non erano avvenuti, mentre si same che poco distante dovevano essere le terme romane.

Nel tratto di ambulacro scoperto si riconoscono fosche tracce d'incendio, trade le macerie non è difficile trovare ossa combuste. Mi è occorso di raccogliervi un ossicino sottile e un po' e bruciacchiato: e sembra sia una costola di bambino.

Macabro ricordo — child same? — di quello scempio.

 p239  10 L. Fiumi. Eretici e ribelli nell'Umbria. Bollettino della R. Deputazione di Storia Patria dell'Umbria. — Cfr. Archivio Segreto Vat.: Castel S. Ang., C. 2, n. 8, 1327 Informatio super facta Spoletanorum, que sunt bona rebellium et quid fieri potuerit in illis, con particolari interessanti.

11 Il Sansi (l.c. II, 261) precisa che questo fortilizio fu costruito "sull'altura che sovrasta al Borgo S. Gregorio (ora Corso Garibaldi) presso la Porta fuga, a Manon destra di questa, al principio del tratto di via che va diritta alla Misericordia; luogo che sino ai suoi tempi portò il nome di castellina. Parruccio Zampolini, che dice di averlo veduto edificare, così ne fa menzione: "Peroscia . . . fece el cassaru su nella porta de S. Gregoriu (così allora era designata la Porta fuga), et ciò dico de veduta, et fu col ponte levatore dalla banda de dentro, et fossi grandi. . . il qual cassaru vedi (vidi) dopo 1335".

12 Qualche studioso ha affermato — così pure il Filippini — che, pe le opposizioni elevate dalla Corte pontificia, la costruzione di questo cassero fu differita al 1355, pur essendone state, già qualche anno prima, poste le fondamenta, e che si addivenne alla sua erezione soltanto in seguito ai moti avvenuti in appunto nel 1355 a Spoleto pe una sollevazione dei guelfi con eccessi che assunsero il carattere di ribellione (Cfr. pagg. 41‑42). E l'Albornoz stesso l'avrebbe allora, a punizione, consentita. Però questo è contradetto da quanto troviamo registrato dall'annalista Zampolini e riferito nella Nota precedente (11), cioè ce egli vide il cassero "dopo il 1335". — Vero è che questo "dopo" è indicazione imprecisa, tanto più che egli ne dà notizia con riferimento alle cose del 1325. Però, sta ad indicare che già venti anni prima del '55 era costruito. — In relazione alle vicende di quel periodo la conclusione più verosimile è questa: che il cassero non fu costruito, subito dopo la vittoria dei Perugini, ma che, anche sorto più tardi, esisteva già nel '35. Ed è probabile che la sua costruzione sia stata decisa ed effettuata proprio in seguito alla manifestazione ribelle promossa nel 1327  p240 dal Pianciani (pag. 36), che tanto aveva irritato Perugia, così da imporre a Spoleto anche altri patti dure ed umilianti. E mi compiaccio che questo mio convincimento si avvalori pel consenso del Sansi — mentre la fissazione di tale data risulta, più che non può sembrare, interessante, per comprendere il giuoco dei successivi rapporti che informarono la politica dell'Albornoz verso Spoleto e che fecero capo alla costruzione della Rocca. — In ogni modo l'Albornoz, che tenne tanto a propiziarsi la fiducia e l'affezione di Spoleto anche con chiare manifestazioni d'indulgenza, non può aver mai autorizzato, proprio lui, siffatta cosa tanto invisa alla città. Tutta la sua politica rispetto a Spoleto ebbe indirizzo assolutamente diverso (pagg. 44‑48).

13 Non sembri eccessivamente severo ed arbitrario tale giudizio su questo cittadino, per quanto sia da riconoscergli alto valore d'ingegno e di cultura. Oltre che il Sansi, vi trovo consenziente anche P. di Campello, che a proposito di lui così conclude: "Non aveva principi nè guelfi nè ghibellini, ma sottometteva ogni cosa alla sfrenata ambizione di dominare il paese natìo. Egli si era acquistata primieramente popolarità pe osteggiare i guelfi perugini e, poco appresso, divenuto loro bene accetto, ne ottenne l'aiuto per rientrare a Spoleto. — P. Campello. Storia documentata aneddotica di una famiglia Umbra, I pag. 41.

E neppur credo di far ingiustizia e di togliere al Pianciani ciò che gli spetta se affermo — anzi insisto nell'affermare, chè già da tempo ho detto chiaro questo convincimento mio — che non a lui va riferito il merito della costruzione del palazzo recentemente battezzato col nome di Palazzo della Signoria — quello vicino al Duomo, ora sede del Museo civico e che deve attribuirsi al Gattapone. Anzi all'Albornoz, per opera del Gattapone. — Cfr: pagg. 64‑65.

Questo affermai, convinto sin dal 1921, nella monografia Spoleto (Collezione "Italia Artistica") e meglio chiarii in quella sul Monteluco. E mi compiaccio del consenso ottenuto di autorevolissimi competenti, e che questo mio ulteriore studio  p241 degli elementi architettonici della Rocca, anzichè insinuar dei dubbi, mi abbia fatto ancora più sicuro in tale convincimento.

14 Il Sansi non fa cenno di questa nuova sollevazione e, diligentissimo come era, si sarebbe indotti a aspettare che la notizia, che altrimenti ne ho trovata, faccia capo ad un equivoco e, per così dire, a un duplicato, che scambi come un fatto nuovo la sollevazione guelfa precedente, in tutto somigliante, avvenuta nel 1354 e composta poi a Foligno il 4 febbraio 1355. Ma il Minervio in proposito è esplicito — "Anno postea MCCCLV Ghibellini expulsi fuerunt, magnaque eorum clades fuit" — S. Minervii. De rebus gestis atque antiquis monumentis Spoleti. L. I, cap. IX. — E può intravvedersene una conferma negli Annali di Parruccio, in cui troviamo annotato all'anno 1355: "furone cacciati lead Ghibellini con grande occisioni d'homini, et dire: Viva la Chiesa".

Quanto è in proposito precisato successivamente dal nostro testo, e anche dalla nota seguente (15), e quel che si desume pure dal Salvi (Il card. E. Albornoz e gli archivi di S. Ginesio) e pur dal Theiner (II, 316; 4 novembre – 5 dicembre 1355) eliminano, così mi pare, ogni dubbio in proposito — che però, per scrupolo, ho voluto prospettare.

15 Sembra che i Perugini venissero allora in oste a stringere d'assedio Spoleto. Si legge in una lettera di papa Innocenzo al Comune di Perugia, del 6 feb. 1357: Sed illud ex omnibus in pubblicam proferre sufficiat quod hactenus Spoletanis illis in manibus tunc ecclesie prefate rebellibus, arta obsidione constrictis et ad dedicionem compulsis, eidem ecclesie iura sua et pacem patriae reddidistis" Arch. Vat. — Reg. 238. Cfr. la Nota precedente.

γ Filippini, op. cit. pag. 204. — Archivio comun. di Spoleto. Pergamena 189.

16 Per la lettera di commissione 2 aprile 1362 al Gattapone vedi Documenti I, e pure a pag. 56 e la Nota 19.

17 Further incominciata nel 1357 su disegno di Ugolino conte di Montemarte, di Orvieto, come riferisce Oddo di Biagio che assistè alla sua costruzione, e diligentemente l'ha descritta.

 p242  Vi era annessa una dimore principesca, destinata anche ad accogliere eventualmente anche i Pontefici, e perciò fu designata come "Rocca papale", con, nell'interno, una chiesa o cappella e tutt'intorno formidabili baluardi. Si same che fu compiuta nel 1356 — così è attestato da un atto di quell'anno: "Actum in aula paramenti ipsius domini legati sita in Rocha Papalis Anconae per eundem d. legatum in honorem et gloriam sedis apostolice fundata et aedificata." (Arch. del Collegio di Spagna, vol. V, n. 23) — Così il Filippini in Matteo Gattaponi da Gubbio etc. Bollett. d'Arte, agosto 1922.

Ricca grandiosa e munitissima fortezza che, anche per quelle sontuose residenze chee vi Eran comprese, trova assoluto riscontro (e, rispetto a quei tempi e all'Italia centrale, un riscontro esclusivo) con quella di Spoleto. Ma in Ancona non esiste più. Il popolo, sollevatosi con insurrezione violenta, dopo tenace asalto riuscì ad impadronirsene nel 1383, e la distrusse.

Oltre che di questa in Ancona sembra certo che allo stesso Ugolino Montemarte sia da attribuire il disegno della rocca di Assisi e di altre in questa regione. E sta bene. Ma voler dedurre da ciò che a lui si debba anche il disegno di questa di Spoleto è una trovata, non solo strana ed arbitraria, ma che contrasta con precisi documenti. — Vedasi appresso a pag. 56 e alle Note 16 e 19 e pure a Documenti N. I. — A meno che non si voglia supporre che il Gattapone, questo magnifico architetto, tanto celebrato al suo tempo, fosse venuto qui col modesto ufficio di semplice assistente ai lavori — anzi di "caporale"!

Male è che siffatte aberrazioni abbiano potuto trovar credito in un Annuario Scolastico.


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