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Capitolo III

Questa pagina riproduce una parte di
La Rocca di Spoleto
di Carlo Bandini

Tipografia dell'Umbria
Anno XII E. F.

Il testo è nel pubblico dominio.
Le eventuali foto a colori sono © William P. Thayer.


Se vi trovate un errore,
vi prego di farmelo sapere!

seguente:

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Capitolo V

 p53  Capitolo IV
La Rocca e i suoi poderosi spalti alla prova
Assedi e battaglie

Della parte dell'edificio destinato quasi a reggia dei signori del luogo — castellani e governatori — e pur dei personaggi cospicui che come ospiti vi soggiornarono e della vita che vi si svolse, tanto ricche e interessanti furono le vicende che sarà bene parlarne poi separatamente. E lo faremo nel capitolo successivo.

Ma pur convien ricordare i principali tratti della storia di questa Rocca in funzione di edificio militare, gli assedi e le battaglie per cui sanguinarono i suoi spalti poderosi.

Ed eccone appunto qualche notizia.

Quali e quanti quei conflitti! Sì, la maggior parte per impeto o repressione di fazioni cittadine, ma pur taluni con ripercussioni assai estese, connesse ad importanti vicende della storia d'Italia.

E cominciaron presto: sin dai primi anni in cui al loro ritorno in Roma i pontefici molto ebbero da fare e penare per superare la crisi già preparata da quel settantennio di sciagurata assenza in terra straniera. Se pur reso possibile quel loro ritorno, non potè a meno che ne seguisse un agitato periodo di assestamento. E si sa che una delle conseguenze fu purtroppo un lungo e gravissimo scisma, — lo "scisma d'occidente", — che sì profondamente  p74 turbò, non soltanto le coscenze, ma pur la politica, nonchè della Chiesa, d'Italia e d'Europa.

Già prima che, nel 1378, con l'elezione dell'antipapa Clemente VII, si affermasse quel conflitto, era riuscito, profittando delle discordie cittadine, ad insediarsi in questa Rocca, Pietro Orsini conte d'Anguillara, potentissimo signore.

Ma troppo apertamente scopertosi avverso la Chiesa e partigiano dell'antipapa, contro di lui si decise a intervenire Urbano VI, che nel 1380 mandò qui a spossessarlo un apposito legato, il Patriarca di Gerusalemme. Il quale con lo sforzo di numerose milizie e favorito dell'aiuto datogli dagli Spoletini, — che, scacciati nel 1377 i ghibellini, tenevan per la Chiesa, — riuscì ad espellerlo dalla città e dalla Rocca. E questa fu allora affidata a tal messer Pietro cavaliere napoletano.

Ma poco più di due anni dopo, — nell'autunno del 1383, — con l'appoggio, a quanto sembra, di ambiziosi malcontenti, veniva a Spoleto e vi si imponeva un altro Orsini, — Rinaldo dei Dottrina di Bracciano conte di Tagliacozzo e Signore di molte castella, — anche lui fieramente avverso a Urbano VI. Però, se facile gli era stato, con quegli aiuti, di prendere piede nella città, arduo il necessario compito di impadronirsi anche della Rocca, che teneva fermo per papa Urbano. Eppur questo era necessario per mantenersi in Spoleto; e dovè insistervi per oltre quattro mesi con uno stretto assedio. Solo così, anche perchè favorito dalla gran moria con cui la stagione eccessivamente rigida e una fiera carestia decimò i difensori della fortezza, ottenne, in sul finir del gennaio 1384, di farla cedere per fame.

Però, se parve, per qualche tempo, che potesse reggervisi sicuramente, — mentre altre più gravi cure tenevano diversamente impegnato Urbano VI, — solo per pochissimi anni gli fu consentito di conservarne più o meno quieto il possesso. Rara e quasi impossibile e pur sempre affebbrata la quiete a quei tempi.

Infatti Papa Urbano, non appena districatosi da altri impegni, era venuto a Perugia e, nominato Legato generale il cardinale di Monopoli, l'incaricava (1387) di riconquistar per la Chiesa le terre dell'Umbria. Così Rinaldo si vide costretto, anche per prevenire l'avanzata del Legato su Spoleto, di andare in soccorso di Orvieto sua alleata, contro cui come inizio di quell'impresa si volgevano le milizie pontificie. E questa sua motion gli riuscì tanto efficace che i pontefici disorientati rinunciarono, allora, ad altri tentativi. E l'Orsini ne approfittò per estendere il suo dominio nell'Umbria. Ma poco dopo giungeva la notizia della sua morte in un agguato tesogli presso Aquila dal conte di Montorio per essersi gli Aquilani accorti delle sue mire di farsi Signore della loro città.α

Gran turbamento fra i partigiani suoi, che intanto dalla Rocca, retta da un suo fiduciario, tal Guglielmo di Assisi, — mentre già il 2 novembre 1389 era succeduto a Urbano VI Bonifacio IX (Tomacelli), — erano scesi a spadroneggiare in città. Però, perduto il capo, parvero disposti  p76 a quiete. Ma il 18 aprile 1390 un'improvvisa insurrezione degli Spoletini acclamanti alla Chiesa li costrinse a correre a rifugiarsi di nuovo nella Rocca. Ed ecco subito un altro assedio, ancor più grave, diretto in persona dal cardinale di Monopoli, che intanto, il 6 maggio 1396, era venuto a Spoleto e che, forse non del tutto estraneo allo scoppio di quei moti, si era allocato, come suo quartier generale, nel convento annesso alla chiesa di S. Salvatore.

E quale saggio del come e quanto fossero aspre e gravi siffatte imprese, ecco la notizia che ne troviamo nelle Historie di Spoleti lasciateci MS. da Bernardino Campello, così: "Chiesti e venuti aiuti, si strinse l'assedio con molto vigore, serrandosi intorno ogni passo dentro e fuori della città con nuove opere di cave e di bastide disposte in luoghi opportuni e ben munite di macchine e brave genti. Furon le cave quasi sotto il muro dell'istessa Rocca sopra il convento dei frati minori; e le bastide principali si piantarono, una ai molini del ponte (cioè nel fortilizio presso la sua testata sul Monteluco), al quale ponte furono tagliati molti archi, che insino ai nostri tempi abbiamo veduti ricongiunti con legni;32 le altre presso le chiese di S. Margherita, della Trinità dietro il Duomo, di S. Illuminata, di S. Elisabetta, di S. Chiara. (Povere chiese destinate a tanto immediata loro ingerenza in tali cose). E una ne stava nella piazza del Duomo medesima, e un'altra alla grotta che chiamavan dei Brandali, alla quale si passava dalla città per la portella di San Marco con una via coperta di legni e ben assicurata dai colpi della sovrastante vicina Rocca" . . . E intanto dalla Rocca "spessi erano i colpi di gran sassi scagliati dalle bombarde e dai trabocchi sulla città, con  p77 frequente ruine degli edifici e con molestissimo travaglio degli assediati".β — Veramente si facea sul serio.

Ma la Rocca tenne fermo per gli Orsini. E poi, quando parve che stesse per arrendersi, uno scoppio improvviso di malcontento cittadino — provocato da tristi iniziative del Legato, card. di Monopoli — impose, più che una tregua all'assedio, l'abbandono dell'impresa. Anzi, così viva fu l'indignazione degli Spoletini per le tante prepotenze del Legato, che, per reazione, si volsero a parteggiar per l'antipapa Clemente. E ciò con uno scoppio così violento che molti cospicui cittadini guelfi furono uccisi e le loro case incendiate. E fu gran ventura pel cardinale legato se, un po' malconcio, riuscì a scamparne fuggendo in salvo a Terni.

Così ritornarono anche i fuorusciti, e guelfi e ghibellini. La pace, dunque; anche nella Rocca, un poco di pace? Si, ma breve sorriso di sole marzolino, chè quasi immediatamente si fu da capo, e anche con più esasperato odio di parte. I ghibellini corsero di nuovo ad arroccarsi nella fortezza, ove li raggiunse Tommaso da Chiavano; gli altri, popolani e guelfi, le si strinsero intorno ad assediarla.

E più di prima fu grave la lotta, e se ne diffuse il turbamento anche con ampie ripercussioni.

Giunse infatti il 1 gennaio 1391 a dar mano agli assedianti il vescovo di Montefeltro tesoriere di Romagna inviato, come rettore del Ducato, con numerose milizie, mentre a molestare la città o gli assedianti venivano da Foligno, numerose genti d'arme dei Trinci, e pur da altri  p78 luoghi ostili a Spoleto. E poi, mentre così gli Spoletini eran costretti a tener testa alle due fronti, ecco che — riferisco dal Campello — "al sorgere del sole tra gli elci del Monteluco si vide un insolito luccicar di alabarde e di armature. Tommaso da Chiavano (che intanto era uscito dalla Rocca per andare a procurarle aiuto) alla testa di trecento fanti e insieme con lui Gaspare Pazzi d'Arezzo, "gran caporal ghibellino: con seguito di settecento fanti era giunto per alpestri sentieri sopra quella vetta, e li seguivan bestie cariche di grano e d'ogni raggio di vettovaglie da rifornirne la Rocca. E con celere discesa venner giù sino al Ponte e occuparono la torre che sorge al suo ingresso con una ben guarnita fortificazione (il così detto Forte dei Molini) che si teneva per la città, e vi riposero le vettovaglie che conducevano per introdurle, assicurati che avessero i pochi passi che restavano da superare per gli archi rotti del Ponte, nella Rocca".

Grave il pericolo e, in primo tempo, anche lo sgomento degli Spoletini. Ma, prontamente rinfrancati gli animi, si volsero, con a capo Giovanni de Domo ad affrontarli risolutamente in campo aperto, nel tratto ove il Monte declina sul Tessino. E fu vittoria sì grande, tanto pronta e decisa da far ritenere quel successo procurato da un effettivo portentoso soccorso, anziani concorso, di San Pietro martire, che gli Spoletini solevano allora invocare a far propizie le loro imprese di guerra. Era il 9 aprile 1391, appunto la ricorrenza della festa di quel santo.33

Scorati da tale insuccesso e già ridotti all'estrema penuria, gli assediati si videro costretti a capitolare. E la Rocca, così liberata, ritornava alla Chiesa.

Ne seguì un poco di pace, forse per stanchezza — se stanchezza sentì mai questa gente in quella sua indomata smania di litigarsi.

Certo è questo: che nell'autunno dell'anno successivo 1392 Bonifacio IX — Pietro Tomacelli (139‑1404) — muovendo alla riconquista di Perugia, potè sostare sicuro e tranquillo a Spoleto, — e appunto nella Rocca, — ove si trattenne quattro giorni.

Breve questo soggiorno, ma che bastò a far comprendere anche a quel forte pontefice — "principe di animo grande, quanto sagace", dice il Gregorovius — l'alta importanza politica e strategica di questo luogo. tanto importante da consigliargli come necessaria cautela di affidarla a persona assolutamente sicura e a riconoscerne la custodia ufficio non indegno di qualsia persona più cospicuo. E, difatti pochi anni dopo, nominò Rettore del Ducato il fratel suo marchese Giovanni Tomacelli conte di Sora e, Castellano della Rocca, un altro stretto suo congiunto, Marino Tomacelli,γ il quale pochi anni dopo riuniva in sue mani anche l'ufficio, prima di Vicerettore del Ducato, e poi di Rettore. Per di più, da papa Bonifacio fu disposta per questi suoi parente la devoluzione ereditaria di tali uffici ai discendenti loro sino alla terza generazione.

Nepotismo? Si, anche questo. Ma non è di questo che or dobbiamo parlare: avremo occasione di occuparcene poi.

Quel che qui interessa per la storia di questa fortezza son le altre prove e cui fu sottoposta, quel che per essa avvenne allora e quel che è avvenuto in appresso.

Che, da quando era stata nel 1367 consegnata al Castellano per la chiesa, avesse già adempiuto il suo compito di fare, anche se in cattive mani, buona guardia, questo è certo: guerraia temuta e perchè tale rispettata. Ne abbiam già visto qualche saggio. Ma ancor più gravi — e ben riuscite — furono le ulteriori prove, per cosi dire, di collaudo, anche se intanto si era affacciata quel novità nelle cose di guerra che furono le armi da fuoco.

E ricominciò presto, questo nuovo periodo di prove, — nel 1419 — mentre del governo della Rocca era investito uno di quella serie dei Tomacelli destinatavi, come si è detto, da Gregorio IX: serie famigliare cominciata tanto bene con Marino, che fu ottimo, ma poi scivolata giù tanto male e finita sciaguratamente con Pirro che, vedremo, fu pessimo.

Anzi pare che si cominciasse a scantinare proprio dal successore immediato di Marino — il fratel suo Roberto, detto il Tartaro, — con le sue troppo aperte ambizioni di tramutarsi in Signore di Spoleto. E tanto s'inasprirono le diffidenze, le rivalità e i contrasti da procurare una serie di conflitti che fecer capo ad un'altra assai grave e memoranda prova in cui fu impegnata questa Rocca.

Grave conflitto, veramente, perchè vi si prodigò, e a fondo, un altro ambiziosissimo: Braccio Fortebraccio conte di Montone, uno dei più experti, audaci e possenti tra i capitani ci quel periodo di agitatissima vita d'Italia.

Vinto Carlo Malatesta ed i Raspanti, egli aveva nel 1416 conquistata la Signoria di Perugia e pur era riuscito nel 1417 ad occupare Roma, nella quale parve spingere i suoi sogni ambiziosi sino ad affermarvisi padrone e "Signore". Ma poi che non a lungo aveva potuto mantenervisi, più aperto e, quasi direi, logico si precisò il suo programma, già anche prima manifestato, d'impadronirsi del Ducato e almeno di Spoleto. Quelle divisioni e quei rancori parvero atte ad agevolarlo: quasi un invito. E difatti, giunto nell'aprile del 1419 nel territorio spoletino e accampatosi sul colle di Busano presso Pontebari, cominciò ad iniziar pratiche con la fazione che era al potere per farsi cedere la città. Almeno la città, se non la Rocca, che stava in altre e più sicure mani e per la Chiesa, essendo stato intanto investito del governo di Spoleto e della castellania Pierfigliolo Tomacelli, fratello di Marino, coadiuvato da Rufillo suo nepote del tutto fedeli al Papa. Gli dessero la città: quanto a farsi poi padrone della Rocca sarebbe stato affar suo.

E, con promessa che egli avrebbe rispettati i privilegi cittadini, Spoleto vi consentì. Così il 15 aprile 1419, al grido di Viva Braccio e parte guelfa, entrarono in città le sue milizie, mentre i pochi fanti del Comune si ritiravano nella Rocca. E subito dopo — proprio il giorno di Pasqua — ecco a Spoleto anche lui, Braccio, venuto da Pontebari per la via della Cerquiglia alla Porta di S. Gregorio, ove trovò, adunata a fargli omaggio, la magistratura. Con le milizie risalì la città, e pose il suo quartier generale al vescovato.

Padrone dunque della città. Ma c'era là su, chiusa e minacciosa e ben guardata, la Rocca.

E Braccio diè subito mano all'impresa d'impadronirsene. E appunto nel metodo da lui tenuto vediamo una conferma dell'esistenza e dell'efficenza strategica dei posti avanzati, disposti nel modo che si è detto, a integrar la difesa della Fortezza.

Infatti, prima, fece dare l'assalto alla torre del Duomo. E par che vi procedesse la sera stessa del 17 aprile, di sorpresa, così che a suo presidio non vi trovò più di tre o quattro persone, che furon facilmente sopraffatte. Buon vantaggio per lui e grave danno pel Tomacelli, perchè questa torre era utilizzata, con una corda tesa tra la sua sommità e la Rocca — specie di teleferica, — al rifornimento degli assediati.34

L'indomani, impresa più grave: quella contro il fortilizio che sorge ove il Ponte fa capo al Monteluco.

Per l'erta falda del Monte saliva, alle prime luci del giorno, su dal torrente una numerosa schiera di armati. E in mezzo ad essi lo stesso Braccio, incitatore arditissimo, dissimulato tra i suoi — tanto arduo ed importante aveva giudicato questo cimento! — in veste di semplice gregario, con rigoroso divieto ai combattenti di svelare l'inganno con manifestazioni di rispetto e, tanto meno, di chiamarlo con la qualifica che, dopo la fortunata sua impresa su Roma, aveva pomposamente assunto: Imperatore.

Protetti dalla boscaglia raggiunsero il Ponte; ma da un lato quel fortilizio e dall'altro la Rocca bersagliavano furiosamente. E, per quanto violento, l'attacco quel giorno non riuscì. Anzi in uno dei ripetuti assalti egli stesso fu ferito da un verrettone, che gli inchiodò addirittura un piede su una trave di quei tali suoi arnesi d'assalto, e in  p83 si male modo che si stentò schiodarlo.35 E così malconcio fu costretto a ritrarsene e farsi trasportare in salvo al vescovato.

Il giorno successivo, lui assente, ma pur con più rabbioso sforzo di "piccuni, painconcelli nelli mantelliti, bombarde e balestrieri" (Parruccio) fu rinnovato il tentativo, e con miglior fortuna, chè riuscirono ad occupare ubuapa del fortilizio. Solo nel terzo giorno questo si arrese. Ma i difensori ne erano scampati.

Vennero intanto da Perugia e Foligno Medici e cerusici a curar quella sua ferita. E fu obbligato a riguardi per oltre un mese; ma rimase zoppo per sempre. Triste ricordo di Spoleto. — Anzi poco mancò non gli toccasse peggio, chè fu lì lì per essere accoppato da una delle grosse pietre lanciate sul vescovato dai mangani della Rocca; "da lu manganu de lu casseru che trasse nellu Vescuvatu, et appresso a lui" (così narra Parruccio), tanto che ritenne prudente andare nelle case anche allora esistenti persona la chiesa di S. Pietro.36

Nè miglior fortuna ebbero altri tentativi disposti intanto contro la Rocca, nè l'assedio con cui la strinsero. Solo dopo quasi un mese — il 14 maggio — le sue milizie riuscirono ad impadronirsi della torre di S. Marco, "già molto desertata dalle bombarde" (Parruccio).37 Ma la Rocca, no. Nè valsero i mille fanti venuti da Perugia.

Ed egual sorte ebbero ulteriori tentativi dei luogotenenti e dei partigiani suoi. Prima che finisse lao, Spoleto ritornava, con atto di sommissione, alla Chiesa.

La Rocca aveva tenuto fermo e corrisposto al compito affidatole col suo battesimo.

Era così superata questa crisi. E seguì un periodo di calma, almeno relativa, questa cioè consentita da quell'habitus di sopraffarsi e dilaniarsi tra fazione e fazione e dalle tante sedizioni e repressioni di castella e di paesi, mentre a Roma veniva cacciato proprio a sassate l'ottimo Eugenio IV — che però vi ritornava benedetto ed acclamato nel 1443, — e quei grandi e magnifici capitani, Francesco Sforza e il Piccinino, non avevano nè davan pace nella mutevole vicenda di contrastarsi ed allearsi nella loro formidabile attività battagliera.

Ci furono anche qui conflitti tra guelfi e ghibellini; e gravi e sanguinosi quelli dell'estate del 1433, però prontamente, se non placati, almen sedati dall'intervento del cardinale Lodovico Colonna, mandato dal suo zio Martino V a rimettere ordine nella città.

Ma intanto Spoleto aveva potuto allietarsi per il passaggio dell'imperatore Sigismondo che, giuntovi il 20 agosto 1433, vi si trattenne de giorni festeggiatissimo, e che nel Duomo e alla presenza di due re e gran numero di autorità conferì allo spoletino Tommaso Martani — era, allora, questa, cosa importante, che si facea di rado, ma sul serio — le insegne di cavaliere.

Però appunto in questo stesso anno 1433, regnando Eugenio IV, veniva a Spoleto, col duplice ufficio di Rettore del Ducato e di Castellano della Rocca un altro — l'ultimo — di quella serie dei Tomacelli, e che ne fu l'epilogo sciaguratissimo.

Abbiamo già visto come Roberto, detto il Tartaro — avesse con le sue velleità ambiziose provocato in Spoleto  p85 irritazione e diffidenze tali che, spianando la via a Braccio da Montone, aveva tirato addosso alla città e alla sua Rocca il malanno di quel grave attentato. Ma, col ritorno di Spoleto alla Chiesa, l'orizzonte si era rasserenato: diffuso uno stato d'animo per cui bene accolto doveva riuscire questo nuovo fiduciario e parente — nepote — di papa Gregorio.

Era, sì, figlio di quell'infausto e mal sopportato Tartaro, e anche piuttosto torbidi erano stati i suoi precedenti a Cassino. Però questi probabilmente a Spoleto non si sapevano, e il buon ricordo lasciato da Marino Tomacelli si riaffacciava con lusinghieri affidamenti, tanto che fu rapportato Spoleto a raccomandare questo Pirro Tomacelli al nuovo pontefice Eugenio IV, chiedendo per di più — così scrisse il Campello e riferisce il Sansi — che in lui fossero riuniti i due uffici di Rettore e di Castellano.

Invece fu sventura assai grave e occasione di tristissimi malanni per Spoleto: tutta una serie di sciaguratissimi eventi. E in essi troviamo impegnata e, vedremo, anche in giuoco, se non pur compromessa, l'autorità della Chiesa o, per lo meno, l'avvedutezza o la coerenza di Eugenio IV. Hanno pertanto un'importanza storica maggiore di quella di semplici episodi di cronaca paesana: e appunto perciò mi è sembrata opportuna una qualche particolare cura nello studio di tali vicende, e ciò con il sussidio di documenti neutrality, inediti, e precisiδ1 che, sfuggiti agli storiografi regionali di quel periodo, consentono notevoli integrazioni all conoscenza di siffatti eventiδ2 anche nel loro retroscena e,  p86 quel che più importa, possono rappresentare, forse, un qualche nuovo contributo allo studio della politica e, website direi, della psicologia di papa Eugenio.ε

E innanzi tutto risulta che il Papa consentì di buon grado alla proposta fattane dagli Spoletini, accettando la designazione del Tomacelli; e con suo breve 28 febbraio 1433, molto laudativo delle virtù di lui, sentito il parere dei cardinali, lo nominava "Rettore della città e provincia del Ducato di Spoleto" già troppo a nostris Romanae ecclesiae hostibus oppugnata — dichiarandosi convinto di averla così affidata in buone e sicure mani. Poi, con altro breve 30 aprile dello stesso anno, gli conferiva anche l'ufficio di Castellano della Rocca — ad beneplacitum.ϛ

Buoni dunque gli auspici che nel 1433 salutarono la venuta di questo Tomacelli a Spoleto. E pare che per qualche tempo le cose andassero ben. Se anche si affacciò qualche raggio di diffidenza o di malcontento, il Tomacelli seppe per qualche tempo destreggiarsi in modo da non scapitare nella benevolenza del Papa. Tanto è vero che questo, con altro breve del 19 luglio 1434, da Firenze, in attestazione della piena fiducia nelle sue virtuosis operationibus — nientemeno! — lo confirmava nel duplice ufficio.ζ

E, come se non bastasse, appena tre mesi dopo — il 2 ottobre, — ad ulteriore manifestazione di compiacimento e di fiducia per la sua "prudenza, rettitudine e devozione alla Chiesa", gli conferiva la "facoltà di nominare Rettori ed ufficiali in sa vece nelle diverse terre e luoghi del Ducato con relativi salari, oneri, onori etc.η

Così sembra che per quasi due anni queste faccende procedessero senza inconvenienti gravi.

Ma nel secondo biennio le cose mutarono, e volsero al peggio. Sia per istigazione di Corrado Trinci che, divenuto per fosca tragedia famigliare Signore di Foligno, si era dichiarato in aperto contrasto con la Chiesa ed era di Pirro divenuto sempre più amico; si per altri e più complessi rapportati politici di fronte al Pontefice allora nel periodo di suoi più gravi imbarazzi; sia perchè a questo doveva portarlo il vero, e malvagio istinto suo, ecco il Tomacelli, gettata la maschera, trascorrere ad ogni più grave eccesso, non solo di arroganza, ma pure di spogliazioni.

E, come se non fosse abbastanza, a questo sciagurato indirizzo si conformò anche l'opera di un suo parente ed alterego, Carlo Tomacelli, (che non si trova menzionato nelle cronache di quel tempo, ma il cui intervento è accertato da un documento inedito e preciso dell'Archivio Vaticano), e che fu suo fiduciario e anzi collaboratore specifico, in quanto da lui nominato, — per le facoltà già concessegli col Breve del 2 ottobre '34, — quale Castellano della Rocca. Un suo facente funzioni e addirittura una canaglia che, incoraggiato dall'esempio, ne deve aver fatte di ogni colore. E tra le altre venne a Galla questa, che appunto risulta dal documento in aprola: il Papa, con suo dispaccio datum Bononiae il 2 novembre 1436, diretto a questo Signor Carlo Tomacelli Castellano Arcis nostrae Spoletanae (Pirro doveva essere in quel tempo assente da Spoleto per le sue beghe con l'abbazia di Cassino), gli dichiarava essergli pervenuta espressa denuncia che egli aveva preso e spogliato di tutto, "cavalli, armi, danaro, argento, e ogni altra cosa, pel cospicuo valore quingentorum ducatorum ad minus etc., e per di più chiuso in carcere" tal Minicuccio, uomo d'armi, di Aquila di passaggio a Spoleto per andare a Firenze. Perciò gli imponeva o di portare o di mandare subito spiegazioni e giustificazioni.θ — È chiaro!

Come finisse quest'affare non ho potuto scoprire: probabilmente con la sconfessione e l'allontanamento di questo cattivo soggetto. Però sembra che la responsabilità di Pirro non si limitasse soltanto a quella di una culpa in eligendo,  p89 ma che, pur conoscendo le criminose abitudini, avesse voluto favorire questo suo fiduciario perchè a lui già legato da altri vincoli di complicità. E ciò sembra verosimile, anche se il Papa, forse perchè non ancora bene informato sul contado di pirro, o per dar maggior rilievo al monito, concludeva quel Breve dichiarando a Carlo Tomacelli che questa sua malefatta risultava tanto più deplorevole in quite "in contrasto con le intenzioni del diletto figlio l'Abate di Montecassino".

Certo è che questa bieca figura scomparve dalla scena, e vi riappare in pieno pirro, reduce da Montecassino. E, col suo ritorno, gli eventi precipitano: più gravi le sue prepotenze spogliatrici; addirittura aperto, sfacciato, il suo favore per il ghibellinismo campagnolo, e ancor più ostentati i vincoli di solidarietà con il tiranno e ribelle Corrado Trinci.

E ne derivò, come vedremo, una serie di sciaguratissimi eventi, nella quale questo Tomacelli campeggia come bieca figura di uomo ambizioso e violento, avido senza scrupoli di potere e di ricchezze, amorale ed immorale. T. Martani, suo contemporaneo, si sfoga su lui con ogni più violenta accusa, denunciandolo, non solo perfido e criminale, ma persino turpemente incestuoso con una sua sorella condottasi qui;ι e così, sul scorta del Martani, ripete il Campello. Il Minervio sprezzantemente lo definiva del tutto negato a qualsiasi virtù (Vir ab omni virtute alienus).

Male, troppo male per un fiduciario del Papa, anzi un funzionario della Chiesa. Ma si sa che allora era un triste periodo per papa Eugenio; altre e assai più gravi cure lo tenevano impegnato. Come se non fosse bastata, quasi subito dopo la sua elezione, la convocazione (23 luglio 1431) del Concilio di Basilea, che minacciò di scuotere, non soltanto in lui, ma nella Chiesa l'autorità pontificia, il 29 maggio 1434 era scoppiata in Roma la rivoluzione che l'obligate a fuggire a Firenze, — ove si trattenne un intiero decennio.

Ma, acquietatesi un poco le cose, l'attenzione di Eugenio potè rivolgersi su questo triste e malfido suo rappresentante. E, convintosi di aver fatto cattiva scelta, il 1437 gli ordinava di riconsegnare la Rocca e di lasciare il Rettorato.κ Ma il Tomacelli, anzichè rassegnarsi, gettata la maschera, si dichiarava addirittura ribelle alla Chiesa: e, rinsaldate le difese della Rocca, vi abbassava il gonfalone pontificio ed inalberava sulla torre maestra quello con bande a scacchi della famiglia sua.

Gli Spoletini, il 23 settembre di quel stesso anno (1437) — insisto nel precisar le date perchè più chiaro risulti quanto occorrerà ricordare in appresso — insorsero e, ricacciati nella Rocca gli ultimi partigiani di lui, ne intrapresero l'assedio, ed inviarono messi al Papa, a Firenze, perchè provvedesse. Ed il Pontefice si affrettò a rinnovare l'ordine a Pirro di rilasciar la Fortezza, e poi, avendo urtato anche questa volta nella resistenza del Tomacelli, in sul finir del 1437, inviava a Spoleto Amorotto Condulmer conte di u91 Massa, suo congiunto, come commissario, investito — con Breve 16 Xbre — di ogni più ampia facoltà per procurare di far desistere, innanzi tutto, notisi, con le buone, il Tomacelli dal suo atteggiamento ribelle ed ottenerne la pacifica riconsegna della Rocca, nel qual caso doveva essergli assicurata un'equa liquidazione dei suoi crediti, e indennità per il governo di questa Forza e di ogni competenza per l'ufficio qui tenuto. — Ponti d'oro purchè desistesse. — E solo in caso di un ostinato rifiuto — ma solo in questo caso e, per così dire, in via subordinata — gli commetteva di procedere, con ogni energia e subito a piegare il ribelle, valendosi di ogni mezzo, anche dell'aiuto che avrebbero dovuto dargli gli Spoletini e gli abitanti del territorio, con espressa minaccia di condanna a quanti vi si fossero rifiutati e, peggio, avessero aiutato il Tomacelli.λ

Che molta fosse la fiducia di papa Eugenio nella possibilità di risolvere questa bega bonariamente con un accordo, non è da credere; sì, però, una qualche speranza: per lo meno un gran desiderio. E se ben si osserva questo documento pontificio, specie in relazione agli altri da cui fu integrato, si è indotti a intravedere in quell'ottimistica ipotesi così premessa, piuttosto che un ripiego per un insincero sgravio dalle responsabilità dell'eventuale conflitto, un espediente per propiziare quelle speranze: una porta che si offriva aperta perchè il Tomacelli s'inducesse a profittarne. Sbaglierò, ma mi sembra che, appunto al avvalorare  p92 questa mira pacifica, più che al proposito d'impegnarsi, sia pure di malavoglia ma per dovere, in un conflitto — se non pure il proposito di esimersene a qualunque costo, — e allo scopo di sospingere il Tomacelli in quella scappatoia, sia stata allora iscenata tutta la montatura delle sanzioni che, oltre quelle minacciate nel Breve, d'un tratto e, per così dire, in massa si adottarono, od ostentarono contro questo ribaldo.

Infatti contemporaneamente — proprio nello stesso giorno 10 dicembre dell'invio di quel Breve al Condulmer, — Papa Eugenio ne emanava un altro, pur da Bologna, ancor più solenne — ad futuram rei memoriam — col quale, affirmed la necessità (questa sì, veramente) di reprimere tale ribellione e deplorando che il Tomacelli avesse deluso tanto tristemente la fiducia già in lui riposta (purtroppo un sogno scomparso l'aver confidato nelle sue virtuosis operationibus), e che insistesse nel rifiuto di riconsegnare la Rocca di Spoleto, lo dichiarava ribelle e meritevole di essere punito con la destituzione, non soltanto da questi suoi uffici a Spoleto, ma pur da ogni diritto, onore etc. a lui spettante sull'abbazia di Montecassino. Però — ecco il punto sintomatico, — "per dare a lui occasione di resipiscenza e per il proposito di agire verso di lui, almeno in primo tempo, più mitemente" (ad dandum ei materiam resipiscendi mitius secum ad praesens agere volens), si aveva la premura di dichiarare che, quanto all'Abbazia, la sanzione così adottata era soltanto provvisoria e revocabile a volontà dello stesso Pontefice (usque ad nostrum beneplacitum suspendimus). Ma, ben inteso, se Pirro avesse insistito nel suo rifiuto di restituir la Rocca, tale provvedimento  p93 sarebbe divenuto irrevocabile, con in sopra più la scomunica latae sententiae.JJJ

E pur nello stesso giorno si spediva altro Breve al Priore e ai monaci tutti di Montecassino, col quale, denunciata la disobbedienza del Tomacelli nella restituzione della Rocca, veniva data loro notizia del provvedimento preso a carico di lui rispetto a quell'Abbazia, con ingiunzione di trattenere — intanto — ogni provento etc. etc. Però — notate — anche questo a solo titolo di sospensione, provvisoriamente, solo per quel tanto che durerà tale provvedimento (huiusmodi suspensione durante) cioè se in quanto il Tomacelli fosse renitente a riconsegnare la Rocca.

Altro consimile, anche questo nello stesso giorno, ne era inviato ai preposti dell'Università della terra di S. Germano, castelli etc., cioè del patrimonio feudale dell'Abbazia di Montecassino.JJJ

Addirittura una scarica: quattro, questi Brevi, e proprio tutti nello stesso giorno; che sembrerebbe non risultar del tutto coerente o almeno non pratico, mentre s'insisteva sino a sazietà nel dichiarare che non si voleva punire il Tomacelli per le sue malefatte di prima e per l'indocile suo atteggiamento, ma solo e in quanto si fosse "ulteriormente ostinato" a non restituire la Rocca. Che se, bontà sua, egli avesse mollato, si era disposti a favorirlo anche con danaro. Tanto il desiderio di liberarsi senza maggiori sforzi di questa bega; tale il proposito che, come vedremo, pare  p94 abbia spinto poi sino ad estremi inescusabili, se non indecorosi, la indulgenza di Eugenio IV in questa faccenda.

Pirro di certo sentì e comprese la voce allettatrice; però non si arrese; respinse anche questo intìmo, e più saldo si asserragliò nella Rocca, mentre il Papa, cedendo alle vive insistenze degli Spoletini, s'induceva a mandar qui, agli ordini del commissario Condulmer, Baldovino da Tolentino con duecento fanti, che furono accasermati in città e in gran parte nel palazzo Corvi (purtroppo, anche questo, accumunato, con la sua triste sorte di Carcere giudiziario, a quella sciaguratissima toccata poi alla Rocca).

Frequenti gli scontri e le sortite, talune per rabbiosa ferocia, sanguinosissime — mentre in tutta intiera questa regione, i partigiani di Pirro, che riconoscevano in lui un campione della ribellione antipapale, — si collegavano per venirgli in soccorso.

Da otto mesi durava quell'assedio; e sembrava che inevitabile e prossima ne fosse la resa, per fame. Ma ecco che il 4 aprile 1438 veniva su dal piano e giungeva a Spoleto una gran turba di armati ad assaltarne la porta che più direttamente potea condurre dalla pianura alla Rocca, la Porta Ponzianina. Si faceva così impeto sulla stessa porta per la quale poco mentre di tre secoli prima era avvenuta la disastrosa irruzione degli imperiali del Barbarossa.

Ed erano tanti, questi ghibellini, oltre diecimila, con a capo Corrado Trinci, Vitaliano del Friuli e Francesco Piccinino, mentre Pirro, dalla Rocca, con accanto Cecchino Campello, tempestava dall'alto sulla città con mangani e bombarde.

Spaventosa la condizione degli Spoletini, che erano in arme poco più di tremila. Ma il coraggio della disperazione fece il miracolo. Sortirono impetuosi e travolsero quei tanti, che, abbandonando molti morti e prigionieri, si ritrassero a scampo, nel territorio di Foligno.JJJ

L'attacco in forze non era riuscito. E allora si ricorse al tradimento per soccorrere la Rocca già ridotta veramente allo stremo. E la notte del 3 maggio 1438 Vitaliano del Friuli con un gruppo di suoi fidi provenienti da Foligno e con la scorta di abbondanti salmerie, superato il Colle RisanaJJJ e ottenuto che per fellonia del guardiano gli venisse aperta la Porta di S. Matteo, irruppe improvvisamente in città. Ma, destatosi in armi la città, anche questo attacco fu ricacciato.

Però troppo importante era la partita perchè vi si rinunciasse, anche perchè, esorbitando i limiti di una competizione locale, vi si affermava la politica antipapale di tutta intiera questa regione. Così si tentò un altro colpo, anche questo notturno e di sorpresa, ma con forze maggiori. Un numeroso compose di armati, guidato da anime perse e a tutta prova, quali Antonello Disperato e Antonio Schiavo, otto giorni dopo risaliva da oriente il Monteluco e, calato  p96 improvviso su San GiulianoJJJ e sopraffattovi, per sorpresa, il presidio che ne stava a guardia, scendeva rapido a Spoleto e s'insinuava in città per la porta S. Angelo, anche questa volta aperta a tradimento. E cauti e silenziosi tra le tenebre si diffusero a prender posizione nella città, in attesa che dalla Rocca, conforme gli accordi, uscissero a far impeto gli assediati.

Era il 12 maggio 1438, e purtroppo questa volta il piano riuscì.

Al grido di Viva l'Abate calarono dalla fortezza quelli di pirro. E effectual una strage: strage e saccheggio — "Non restò luogo dell'afflitta città, profano e sacro (così troviamo dalle Storie di B. Campello) che fosse intatto da violenze e rapine. I prigionieri spoletini furono intorno a mille e, consegnati al furor dell'Abate, parte furon dati a morte, parte costretti a recuperare la libertà con molto oro. Tutti gli altri mandati a Foligno." E le rubere da non dire. Negli annali di Perugia (Pellini, Stor. lib. 12) si trova registrato che ne furono asportate più di quattordici millennia some e se ne fece mercato nei paesi vicini.

Baldovino da Tolentino si era intanto prudentemente affrettato a scappare.

Trista leggenda di sangue, di cui troppo lungo sarebbe il racconto nei particolari. Pirro coi partigiani suoi eran così ritornati padroni della città.

Tanto padrone che nelle Riformagioni di quel tempo lo troviamo qualificato come Signore. — Ma "signore" di una città squallente e avvilita da tanto scempio e disertata da tanti fuggiaschi.

Pare che in sul finir del 1438, per istigazione, notisi, del Martani, — che intanto era ritornato dalla podesteria di Firenze, — si proponesse di far intervenire Francesco Sforza a tentare il colpo d'impadronirsi, per tradimento, della Rocca; ma, se pure potè occupare Beroide ed altre castella di Spoleto, per la Rocca non riuscì; il tentativo fu sventato dal Tomacelli. Il quale, a procurarsi degli ostaggi, fece catturare e condurre nella Fortezza tredici maggiorenti cittadini di Spoleto. — Era il 18 marzo 1439.

Il 18 marzo 1439. — Strana e inesplicabile coincidenza. Proprio con questa data Eugenio IV inviava a pirro un suo Breve — che credo assolutamente inedito — coll quale, compiacendosi della sua "offerta" di consegnare la Rocca ai commissari pontifici, gli dichiarava di ritener esso Tomacelli del tutto scusato anche dell'impertinenza di avere, come già si è detto, abbassate o rimosse le insegne pontificie nella Rocca, e di riconoscere che ciò era avenuto non per cattive intenzioni, statuendo altresì che nessuno dovesse ritenerlo di ciò responsabile (absolvimus et etiam liberamus dicta intersigniorum amissione).JJJ

Dunque, a parte la benevola indulgenza con cui lo si assolveva da mancamento tanto grave, risulta che il Tomacelli aveva allora di arrendersi e di esser pronto a ritrarsi dalla Rocca.

Come si può conciliare questa notizia di sì tardiva e pur già tanto vanamente auspicata resipiscenza del Tomacelli? — come conciliarla con le condizioni di fatto e lo stato delle vicende, che abbiamo esposte con esattezza cronologica in conformità delle particolareggiate notizie tramandataci da chi ebbe parte personal importantissima in quegli eventi, Tommaso Martani? — Non è facile. Solo può soccorrere l'ipotesi che il Tomacelli, preoccupato per l'intervento di un condottiero sì potente come Francesco Sforza — che, come abbiam visto, mirava alla Rocca — e dal pericolo di esserne sopraffatto, avesse escogitato l'inganno di questa sua sottomissione perchè l'autorità del papa e la sua benevolenza dissuadessero lo Sforza, allora devoto e "vessilifero" della Chiesa, dall'insistere in tale sua aspirazione. Quanto a mantener la promessa sarebbe stata poi un'altra cosa. Fatto sta che avvenne così: papa Eugenio fu di nuovo giucato; lo Sforza si ritrasse dall'impresa, e Pirro se ne restò a tiranneggiare nella Rocca. Anzi sappiamo che, a sfogo del suo animo perverso, giunse a questo: di compiacersi dello spettacolo di far tormentare con tratti di corda alcuni di quei disgraziati, suoi prigionieri penzoloni dalla sommità di una torre della Rocca e ciò alla [ALT dell'immagine: missing ALT][ALT dell'immagine: missing ALT]z vista.JJJ

Troppo! Lo sconforto eccitato e incitato all'esasperazione.

E la città insorse; e Pirro e i suoi seguaci furono di nuovo costretti nella Rocca. E, mandate al sicuro le famiglie, gli Spoletini si disposero a una lotta senza quartiere.

Era dunque un periodo in cui più sfacciata e vituperevole si manifestava l'opera di questo tipo di criminale, e più duramente ne era tormentata la città e pur più offeso ogni rispetto alla Chiesa. Ebbene, proprio nel colmo di esso, meno di venti giorni dopo l'incarcerazione di quei poveri ostaggi, e mentre, forse, la città doveva ancora inorridire allo spettacolo di quelle torture, ecco una novità ancor più inconciliabile, più inesplicabile, anzi addirittura ingiustificabile in relazione ai precedenti e a quello stato di cose: un altro breve di Eduardo IV, in data 8 aprile 1439, inviato da Firenze a Spoleto, proprio al "diletto figlio" Pirro Tomacelli per annunciargli formalmente la sua conferma a Rettore e Castellano. Anzi, per sua maggior quiete, lo esortava a non dar retta a chiacchiere e non a preoccuparsi di malintesi, ma di rimanersene fermo e tranquillo nel duplice ufficio di Rettore della città e di Castellano della Rocca (in eisdem Rectoria et Castellania persistas). E ciò perchè proprio lui è l'uomo adi fiducia di esso prova; fiducia dovutagli per la sua "fedeltà, prudenza e diligenza". E si dà ordine che tutti gli prestino obbedienza.JJJ

È molto: un eccesso. Ma c'è di più. Lo stesso giorno papa Eugenio inviava, pur da Firenze, un altro Breve a Nicola Arcivescovo di Capua,JJJ col quale, premesso, in sunto  p100 il contenuto del Breve così inviato a Pirro, gli commetteva di versare allo stesso Tomacelli il danaro da lui reclamato — sino all'ammontare di ottocento fiorini d'oro — a titolo di stipendi per il governo della Rocca, e pur di riceverne, come riconfermato nell'ufficio di Governatore e Castellano, il giuramento di fedeltà alla Chiesa.JJJ

E come se ciò non bastasse, poco dopo il cardinal Condulmer, nepote di papa Eugenio, inviava a Pirro "Governatore e Castellano di Spoleto", "d'ordine del Papa" una lettera, con la quale riconosceva essergli dovuta una somma anche maggiore degli ottocento fiorini già offerti in precedenza: trecento venticinque fiorini di più,JJJ e impegnava la Camera Apostolica ad effettuarne il pagamento. — Si vede che il Tomacelli non se ne era accontentato. Ma ora sì, tanto per tenerselo caro.

Tutto questo mi pare — con buona pace della memoria, ottima, di Eduardo IV — addirittura inescusabile, e non soltanto per mancanza di coerenza in relazione ai noti precedenti. Ne era addirittura compromesso, avvilito il rispetto all'autorità della Chiesa. Nè si può riconoscervi una manifestazione di carità evangelica verso il peccatore, chè in questo caso, oltre l'ostinazione nel peccato, c'era di peggio il danno, grave danno, di altri: il tormento imposto  p101 ad una città fedele alla Chiesa, quale, almeno allora, era Spoleto. E non si arriva a capire perchè, se pur si esclude un ulteriore eccesso, inescusabile, di quell'opportunismo che già abbiamo visto affacciarsi negli altri precedenti e che così arrivava a un colmo illogico e indecoroso. A meno che il Martani non abbia troppo calcato sua tinta.

Ma eccoci a un'altra fase di questa strana vicenda; e questa volta diversa e, finalmente, risolutiva.

Appunto in quei giorni dell'aprile 1439 gli Spoletini, per quanto ancora ignari — così risulta certo — di queste concessioni pontificie, decisero di inviare al Papa il concittadino Tommaso Martani — persona di gran conto e da poco ritornato dalla podesteria di Firenze — per invocarne un energico e risolutivo intervento. E il Martani vi andò. Giunse a Firenze il 7 maggio e, ammesso con sollecitudine all'udienza del Pontificato e pur del Collegio dei Cardinali, ne ottenne, così egli afferma, oltre che attestazioni di condoglianza per tanta sciagura cittadina, affidamento certo e promessa precisa che si sarebbe provveduto alla salvezza della città cacciandone il Tomacelli. Anzi, giunto che fu a Firenze — pochi giorni dopo, ai primi di giugno, — il Cardinale legato, in un nuovo colloquio, tenuto insieme a lui col Prefect, ancor più recisa fu l'assicurazione i aiuto, con la promessa che il Legato sarebbe presto venuto nell'Umbria con tutte le sue milizie (cum tota armorum potentia), prima a riassoggettare Foligno e poi a stanar dalla Rocca l'iniquissimo abate — (Extraemus iniquissimum abbatem de arce nostra spoletana).

Tali le assicurazioni con cui il Martani in sul finir del u102 giugno (1439) ritornava in queste terre; e poco dopo, ai primi di agosto vi veniva pure, come era stato promesso, il Cardinale Legato generalissimo delle Armate pontificie.

E chi era questo Legato? — Giovanni Vitelleschi che fu onorato, sì, di molte cariche ecclesiastiche — vescovo di Recanati, poi patriarca di Alexandria e arcivescovo di Firenze e poi (9 agosto 1437) cardinale, — ma che, si sa, anzichè aver animo di sacerdote, fu tutto intiero uomo di guerra e di avventure, senza scrupoli, implacabile e violento; tale, dice l'Infessura, da "inspirar paura a tutti".

Buon cane da presa in questa rabbiosa guerra!

E difatti, adunati ch'egli ebbe tremila cavalli ed ottomila fanti, mosse, nell'estate del 1439, contro Foligno e le terre del Trinci, — gran fautori, come abbiam visto, di Pirro — e, con assedi ed energiche fazioni, riuscì a ridurlo in soggezione. Poi, chiamati a raccolta gli Spoletini anche fuorusciti, giunto il 29 ottobre a Spoleto, iniziò subito l'investimento della Rocca con la cooperazione energica di Amorotto Condulmer — quello stesso che, come si è detto, era stato già, in primo tempo, inviato da papa Eugenio come commissario per assumere, potendo, il possesso della Fortezza e della città.

Presto fu presa la torre o fortilizio dei Molini — quel a capo del Ponte — con il suo presidio. Ma la Rocca, no; che però fu stretta con più severo assedio, quando già, dopo sì lunga lotta, vi risultavano esaurite le vettovaglie. Si era giunti a sacrificare i cavalli. Ma poi? . . . — Trista cosa è la fame: e a questa si era giunti. Così, forse perchè perduta ogni speranza di soccorsi, (assai cautamente il card. Vitelleschi aveva cominciato coll'impadronirsi di Foligno e sottomettere  p103 i Trinci che, come amico di Pirro e avverso alla Chiesa avrebbe potuto apportate un intervento molesto, se non pericoloso), sia perchè la prepotenza, se pur può procurar degli obbedienti, non assicura fedeli al di là della ventura, molti dei fautori di Pirro cominciarono a tentennare.

Vi si intravvide la possibilità di una qualche trattativa d'accordo. Persino il fiero Cardinale Vitelleschi parve disposto a secondarle.

Così dunque furono iniziati approcci con alcuni del presidio del Rocca che più erano stanchi e disperavano; i quali pare che, con leale deferenza, proponessero e raccomandassero a Pirro di render possibile una soluzione a buoni e dignitosi patti. E Pirro, con Cecchino di Campello, si dimostrò a ciò favorevole, promettendo di conformarsi a quanto sarebbe stato concluso dai successivi accordi, che egli autorizzava.

E le trattative, con gran lietezza anche della città, furono subito iniziate. Stabilita una tregua, Angelo Ronconi, commissario del Legato, fu ammesso nella Rocca per discutere i patti.

E par che prontamente si riuscisse ad i conclusione, anche per l'arrendevolezza del Commissario della Chiesa che, a nome del Legato, oltre garantire salva la vita a quanti, già in armi nella Rocca, se ne fossero ritirati, prometteva di pagare a Pirro a titolo di "buon'uscita" cinquemila fiorini.JJJ Più che quintuplicata l'offerta precedente!

Al corrente di tutto ciò, e pur mostrandosene consenziente — falso però, — doveva essere, con il gruppo dei suoi sosia, l'abate Pirro. Ma invece, mentre con tale inganno teneva a bada il rappresentante del Legato e i fautori dell'accordo, faceva venire clandestinamente ed adunava nuovi armati nella Rocca.

Però l'inganno fu scoperto, e più indignati ne furono quei del presidio incaricati delle trattative. — L'abate stava tentando quel tiro, forse anche con la mira di sopprimerli di sorpresa? Sì? Ebbene scontasse, lui, il peccato di sua cattiveria. Non più riguardi: l'accordo si sarebbe concluso ed effettuato lo stesso, presso a poco alle condizioni pattuite, volente o nolente l'Abate e, sia pure, a suo danno. — Così, sconfessando ogni solidarietà con lui, conclusero col Ronconi e col Legato che, fermi rimanendo i precedenti patti di salvacondotto per gli assediati aderenti a tali trattative e il versamento dei 5mila fiorini assegnati a Pirro (ma da devolversi, con prelazione, al pagamento degli stipendi rimasti insoluti), essi avrebbero consegnata al Legato la torre maestra. — Quanto alla sorte di sè e dei suoi, Pirro avrebbe dovuto pensarci lui.

Così fu di fatto.

"Tutto il presidio armato prese la detta torre, e il 18 gennaio 1440 v'introdusse 80 fanti del Cardinale e in tal guisa fu occupata — finalmente — la Rocca". (Sansi, I.361)

E, in conformità dei patti conclusi col Ronconi e sanzionati dal Legato, la guarnigione ne uscì con salvacondotti.

Diversa fu la sorte di Pirro e dei suoi. Raccolti negli appartamenti residenziali doverono attendere — anche la sua sorella e le due bellissime figlie di lei — le decisioni del Legato. E questi, giunto a Spoleto ed accertato con sicure prove il tentativo di tradimento di Pirro, dispose che, ghiotto cadeau, fossero date in balia della soldatescaJJJ — E, questo, quel sig. Cardinale avrebbe avuto il dovere d'impedirlo. Ma eran tempi strani; e non si dice cosa irriverente ricordando che il card. Giovanni Vitelleschi non era uomo da crucciarsi in molti rammarichi per siffatte cose. — (Strana e paurosa nemesi: appena un anno dopo, caduto in sospetto di Eugenio IV, anche a lui toccava di essere arrestato, di sorpresa, e chiuso a Castel S. Angelo; e sulla sua morte grava il mistero se avvenuta per le ferite nel difendersi per scampar alla cattura o per veleno.)

Sette anni, circa, dal 1433 al '40, era durata questa serie di conflitti; oltre tre anni quest'assedio. E, come si è visto, fulcro dell'oscillante, sciagurata vicenda era stata la Rocca.

Morì, dunque, prigioniero a Roma Pirro Tomacelli, miseramente. Ma chi sa che a confortarne l'agonia non gli sia apparso un qualche sogno premonitore che neppur lieta sarebbe stata la sorte di chi tanto si era dato da fare per la sua rovina — il conte Amorotto Condulmer — e che per causa anche di lui altri guai si preparavano agli Spoletini e pur gravi ne sarebbero toccati a questo suo rivaleggi. Vero, se mai, quel sogno.

Come si è detto, il Condulmer era stato qui inviato da Eugenio IV, contro l'abate Pirro Tomacelli, oltre che come commissario, anche per sostituirsi a lui nel castellanato della Rocca: al che abbiam visto quali ostacoli si opposero. Ma, poi che fu eliminato il Tomacelli, egli assunse di fatto il duplice ufficio di Governatore e Castellano, e ne prese solenne possesso il 1. febbraio 1440.JJJ E, anche perchè parente benamato del pontificato, la città ripose in lui molte speranze.

E anche il Papa. Il quale però sembra che non si dimostrasse troppo sollecito ad inviargli quanto dovuto, sia per rimborso dei salari per i militi a servizio nella Rocca, sia per stipendi dovuti a lui per il suo ufficio, per così dire, i suoi "onorari". Glieli fece sospirare quasi otto mesi.  p107 E su questo punto è interessante il Breve 28 agosto di quell'anno, 1440 con cui finalmente, per tranquillizzarlo in proposito (si capisce che dovevano essere state avanzate delle sollecitazioni), ne disponeva il pagamento. — Da questo documento risulta che gli uomini "in forza" nella Arcadia, eran stati, dal febbraio a tutto luglio, cento, ma dal primo di agosto ridotti a ottanta; che il loro stipendio mensile era di tre fiorini ciascuno e che per il suo ufficio competevano al Condulmer sessanta fiorini al mese. — Mica male per quei tempi, anche perchè eran fiorini d'oro.JJJ E il tono della missiva pontificia è del tutto benevolo.

Dunque buoni e pacifici quest'inizi. E gli Spoletini, dopo quel tormento di Pirro, chi sa mai che sospirone di sollievo. . . . Ma, poco dopo, ecco anche lui, Amorotto, scoprirsi in Nero; se non pure con gli eccessi di Tomacelli, presto finì per manifestare il suo debole: un'eccessiva ambizione senza scrupoli e senza freno. E chiare si rivelaron le sue mire di volersi imporre in città addirittura come Signore, cioè con dominio pieno, absorb. Anzi parve che, con una qualche strizzatina d'occhio compiacente, papa Eugenio lo incoraggiasse.

Figurarsi gli Spoletini, sì gelosi delle loro libertà statutarie e scottati da prove tanto recenti. Mandarono subito nell'ottobre del '43 oratori al papa a dolersene e a chiedere che l'Amorotto fosse allontanato o che, per lo meno, si ritornasse alla buona usanza di tener distinti e affidati a persone diverse i due uffici di governatore e di castellano, così che l'Amorotto potesse averne uno solo. E il papa, spinte o u108 sponte vi consentì. Tolse al suo parente il governatorato, che affidò a Mario Orsini, ma lo confermò nell'ufficio di castellano.

Se ne sperò vantaggio; invece fu peggio: valse soltanto ad inasprir ancor più l'Amorotto contro gli Spoletini.

E tale non felicissimo suo stato d'animo rese possibile quest'assurdo: una sua intesa con quel Cecchino di Campello capeggiatore ghibellino e già grande amico e braccio disclose di Pirro, proprio quell'irrequietissimo ed astuto Cecchino che, come abbiam visto, era stato, più che aiuto, consocio del Tomacelli nella sua triste impresa ribelle e che, ambiziosissimo, aspirava a farsi, lui, signore dell'Umbria e di Spoleto. Tanto per far dispetto e danno agli Spoletini. Amorotto si rassegnava a cedergli il posto. E i Colonna — irritatissimi contro il card. Vitelleschi, che aveva allora sconquassato il loro nido a Preneste, spalleggiati dai Caetani, Conti e Savelli, tutti contro il papa — anch'essi entrarono nella partita.

Ed ecco quel che fu combinato — e, purtroppo, attuato.

D'intesa con Amorotto, (che intanto qui sul luogo vigilava e preparava) e "col favore dei Colonnesi — riferisco dal Sansi (Vol. II.21), — egli (Cecchino Campello) venne raccogliendo duecento fanti, che con buon numero di ghibellini e di villani di questi luoghi, egli inviò, alla spicciolata e di nascosto, nella Rocca di Spoleto, deve venivano ricevuti da Amorotto, e dove poi venne egli stesso segretamente. Come giudicarono che fosse pronto tutto quanto necessario all'impresa, deliberarono di metterla in effetto il 2 luglio (1444), giorno del Corpus Domini, quando i cittadini, lontani da ogni sospetto, fossero intenti a celebrar  p109 la festa con la solennità della processione. E così fecero. Giunta l'ora opportuna, mentre il devoto corteo trascorreva salmodiando per la città, Cecchino trasse fuori dalla Rocca le schiere dei suoi armati e, gridando facete carne et fochu, li spinse contro il popolo inerme, mettendo tutto in disordine. Ma i più lontani dal luogo dell'assalto, avvertiti dal tumulto, con pronto animo corsero per l'armi e, tornati e dato agio di armarsi agli altri, sempre ingrossando, si fecero incontro ai sediziosi e, combattendo ferocemente, li respinsero e ricacciarono nella Rocca".JJJ

Il colpo non era riuscito. E, perchè Cecchino, disilluso da questo nuovo insuccesso e premuto da altre cure, abbandonò la partita. La posizione di Amorotto, per quanto sicuro nella Rocca, a meno di romperla addirittura col Papa, suo congiunto, divenne insostenibile.

E anche il Papa ne fu convinto: dispose che l'Amorotto si allontanò, e lo sostituì con un altro suo parente Jacopo Condulmer, che era castellano di Narni. Il quale si condusse assai diversamente, tanto che, a dimostrargli riconoscenza, gli Spoletini lo ascrissero tre anni dopo (1447) alla loro cittadinanza.

Notoria, dunque, e meritata la reputazione di questa Rocca come munitissima fortezza.

Così sappiamo che tra i patti imposti da Carlo VIII ad Alexander VI in Roma — quando, inebriato dal tanto facile successo, s'illuse di aver consolidata, chi sa mai per quanto, la conquista d'Italia — fu pure compreso quello specifico della cessione della Rocca di Spoleto. Vero è che  p110 l'impegno non fu osservato. Scarsa sempre la fede dei Borgia, come effimera quella vampata francese. Ma l'imposizione di questo patto dimostra che anche quel sovrano straniero aveva avuto notizia ed era convinto dell'importanza di detto luogo.

Anzi, quando, nella scorsa che faremo in appresso nella serie dei Governatori e Castellani, vedremo anche questo: che quando il Valentino, appunto in occasione di quella "calata" dei Francesi, riuscì a scappar di mano a Carlo VIII, il luogo da lui prescelto per mettersi in sicuro fu questa Rocca, ove accorse a sua salvezza. — E vedremo anche con quali cure Alessandro VI ne predispose la resistenza.

Così pure, quando il famoso condottiero Giacomo Piccinino, fattosi già padrone di Assisi, Gualdo e Nocera e invasa gran parte del territorio spoletino, volse nel 1418 le mire all'occupazione di Spoleto, paventò della eventuale resistenza di questa Rocca, e il meglio che riconobbe possibile per tale suo progetto fu quello di tentar di ottenerla a tradimento. Ma la cosa non riuscì per fedeltà del castellano Biello.JJJ

Fasti notevoli, dunque, buone proeve di collaudo, quelli di questa Rocca. Per oltre un secolo affermazione e reputazione di una forza dominatrice.

Però anche su di essa, ecco, nella seconda metà del sec. XV, ecco le luci, sian pur luci infocate, del suo tramonto.

Lo sviluppo delle armi da fuoco, il progresso allora ottenuto nell'arte di fabbricar i grossi cannoni "in metallo" (bronzo), invece delle vecchie e maldestre bombarde di ferro e le innovazioni che ne derivarono all'arte militare, anche  p111 con la necessità di speciali e diverse forme e resistenze defensionali, menomarono il valore strategico anche di questo edificio, già concepito e disposto così come poteva volersi ed occorreva quando ad assicurare i suoi spalti bastava farli irti di lance e di balestre e che dai merli e dalle piombatoie saettassero fitti verrettoni e freccie e dai mangani scattassero in pesante parabola le pietre.

Così la Rocca, anche questa Rocca, cominciò a declinare con una menomazione manifestatasi sin dai tempi di Paolo V. Che, se pur sembrò ritardarla, per riflesso, la tradizione e l'importanza almeno amministrativa ancor rispettata, allora, alla vecchia Spoleto, non risultò meno inesorabile fatale. E nel Seicento raccogliersi, scontrosa, come in un isolamento arcigno, nell'ostentazione pomposa delle aristocratiche sue tradizioni. E ne stanno a far fede numerosi stemmi e iscrizioni magniloquenti.

Poi, coi primi del Settecento, i suoi castellani, — già sì fieri e imperiosi signori tra le mura severe, — scesero nella città, non più la spada al fianco, ma lo spadino gemmato e la parrucca incipriata docile e prodiga in riverenze. — Casi e cose del Settecento.

Sì, di truppe seguitò ancora a vederne, la Rocca; molte, purtroppo e, purtroppo, straniere — alemanne, spagnole, francesi, — e, quel che è peggio, con facoltà di sosta o di libero passaggio.JJJ Non più destinata e capace a far buona guardia, le vide, ma quasi sonecchiando.

Solo più tardi parve riscossa da un qualche fremito della sua prima battagliata vita; un guizzo, l'ultimo, e come  p112 in un brivido di agonia. Le si imponeva l'ultimo suo sforzo per contrastare in queste terre l'avvento della Nazione d'Italia. Agonia mal confortata da intrusi stranieri.

Si era nel settembre del 1860 — i giorni del riscatto nazionale di terre regni. Finalmente la tanto auspicata impresa era stata decisa, ed i soldati d'Italia avanzavano in Marcia ad attuarla.

E fu allora che si ricordarono, ancora una volta, di questa Rocca e delle sue tradizioni: di questa povera Rocca cui, come meglio preciseremo in appresso, da circa cinquant'anni avevano già inflitta la vergogna di essere adibita a reclusorio. La "darsena"!

Sin dai primi di luglio di quell'anno, forse in previsione di quel che stava per maturare nella politica italiana e forse anche per il monito derivato dall'eroica insurrezione che l'anno precedente era scoppiata a Perugia, la Rocca era stata sgombrata dei "forzati" per accogliervi delle truppe pontificie — ben inteso, mercenarie e straniere.

Window poi, nel settembre, si spinse innanzi al riscatto di questa regione l'esercito nazionale, e la prima divisione del corpo d'armata del general Morozzo della Rocca, al commanda del generale Giannotti, presa il 14 Perugia — ancor triste di crucci e di lutti per le stragi con cui lo Schmidt vi aveva soffocata nel sangue l'eroica insurrezione del 30 giugno '59 — spinse su Foligno la brigata Lombardia comandata dal generale Filippo Brignone puntando su Spoleto, allora il governo pontificio pensò all'opportunità di utilizzare il valore strategico di questa Rocca. E grande il da fare per procurarne ogni maggior efficenza.

Già appunto a Spoleto Lamoricière aveva posto il  p113 quartier generale delle truppe pontificie "come punto strategico delle sue operazioni di difesa". La difesa avanzata di Roma. — Ancora una volta si riconosceva, come già si ritenne quando fu costruita la Rocca, tale specifica e rilevante importanza a questo luogo.

E vi adunarono questo più possibile di truppe, quasi tutte straniere: Olandesi, Tedeschi, Belgi, Svizzeri e, la maggior parte, Irlandesi; minima la percentuale degli Italiani. Ma poi, — chiamatovi da quel triste suo destino, che poco dopo, gli si rivelò il 18 settembre, a Castelfidardo, — il Lamoricière era partito, per le Marche, puntando su Ancona. A Spoleto era rimasto al commanda della piazza il maggior O'Reilly, che all'avvicinarsi degli Italiani si asseragliò nella Rocca.JJJ

La sera del 16 settembre le truppe del Brignone giunsero a San Giacomo; prima dell'alba erano a Spoleto.

E nelle prime ore del mattino le artiglierie italiane, postate in cima al Colle Risano (o Risana) — quello stesso su cui circa sette secoli prima si era accampato l'esercito imperiale del Barbarossa, — cominciarono il tiro sulle precinzioni della Rocca, ove ancora se ne vedono le tracce. Poi fu imposta la resa. Ma il comandante vi si rifiutò. E allora fu tentato un eroico, ma temerario, assalto — (per il quale la responsabilità può solo ritenersi attenuata da ragioni politiche, forse anche in obbedienza al consiglio attribuito a Napoleone: fate presto). Ma anche questo s'infranse — e, purtroppo, con numerose vittime — contro la saldissima seconda porta, quella del bastione, da cui partì improvvisa una scarica a mitraglia.

La Rocca, sia pur frustata a compiere sì sciagurato compito, vi aveva corrisposto, ancora una volta.

Ma poi bastò la notizia che, a tagliar corto, eran stata chiamate e stavan per giungere più grosse artiglierie — i cannoni "rigati" — perchè là su riconoscessero la impossibilità di un'ulteriore resistenza. Quella sera stessa, tardi, di notte, la Rocca capitolava.

Era il 17 settembre 1860. Da quel giorno Spoleto, anche Spoleto, fu annessa, esultante, al nuovo Regno d'Italia.

Giorno benedetto, sempre benedetto, anche se, per un malaugurato capriccio di smania innovatrice — di cui or si è capito l'errore e la necessità di una prima correzione, — che però si sente tuttavia iniziale ed incompleta — quest'auspicato evento costò allora a Spoleto, già caput Umbriae e poi PrefetturaCapoluogo del Dipartamento del Trasimeno, un'ingiusta, improvvida e dolorosa sua menomazione.


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