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Capitolo V

Questa pagina riproduce una parte di
La Rocca di Spoleto
di Carlo Bandini

Tipografia dell'Umbria
Anno XII E. F.

Il testo è nel pubblico dominio.
Le eventuali foto a colori sono © William P. Thayer.


Se vi trovate un errore,
vi prego di farmelo sapere!

seguente:

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Capitolo VII

 p147  Capitolo VI
Rettori, Governatori e Castellani a Spoleto

Già abbiam visto come e con quanta significativa coincidenza con il ritorno della Sede Apostolica a Roma il 25 ottobre 1367 il Maresciallo del Ducato Simonetto Balantralli consegnava questa Rocca, con tutti i fortilizi annessi e quanto in essa esistente, allo spagnolo Pietro Consalvo vice castellano per Punetto nipote dell'abate Massiliense, castellano titolare di questa fortezza e, consegnandogli le chiavi, ne lo immise in possesso. E questa formalità venne celebrata alla presenza di molte onorevoli persone che già risiedevano nella fortezza — multis aliis in dicto cassaro existentibus. E ciò prova che essa era già in piena efficenza, non soltanto militare, ma pure di abitabilità.JJJ

Purtroppo l'Albornoz appena aveva potuto vederla compiuta: era morto circa due mesi prima, il 23 agosto '67, nel più fervoroso epilogo della provvida opera sua. Tuttavia pare — e bene è potervi riconoscere una qualche manifestazione riconoscente — che non tanto presto fosse stato dimenticato il ricordo di tante benemerenze sue, e che la gratitudine se ne manifestasse almeno a favore di un suo prossimo e a lui carissimo parente, il nipote (figlio di Alvaro Garzia suo fratello, già maggiordomo del Re di Castiglia) Gomez Albornoz, Rettore di Bologna e Vicario di Ascoli, erede, con suo fratello Alvaro, della maggior parte dei beni lasciati dal Card. Egidio a Cuenca. Risulta infatti che negli anni  p148 immediatamente successivi — sotto il pontificato di Gregorio XI (1370‑'78) — al Gomez fu affidato il governo di questa Rocca con facoltà d'investirne chiunque altro a sua scelta.JJJ

Però sappiamo che appunto in quel tempo Spoleto, attratta nel movimento antipapale capeggiato da Firenze e distaccatasi dalla Chiesa, era caduta in mano di un gruppo paesano di signorotti ghibellini. Ma poichè questi troppo prepotentemente cominciarono a spadroneggiare, il malcontento provocò un'insurrezione violenta, con cui nel 1374 i popolani guelfi cacciaron fuori tutti quei ghibellini e, messisi sulle difese, resistettero ai loro successivi tentativi per ritornarvi.

Era a sperare un poco di quiete, almeno tra i capeggiatori di questo nuovo stato di cose. Ma invece, in quel tumultuoso periodo di sì gran turbamento — che ebbe per esponente un antipapa, Clemente VII (1378‑'94), — ripercussioni assai gravi si fecero sentire anche a Spoleto. E i maggiorenti cittadini, per quanto la maggior parte guelfi,JJJ fatti, anch'essi, tra loro irrequieti, e in contrasto coi popolani, s'indussero, per consolidare la loro egemonia, ad affidarsi all'appoggio di un potente signore, Pietro Orsini conte dell'Anguillara. E in sue mani misero la Rocca, assegnandogli anche l'autorità di Rettore. Il popolo tentò d'insorgere, ma fu costretto a "chinare il capo innanzi alle armi del conte".JJJ E Urbano VI confermò quella nomina  p149 o, meglio, sanzionò tale stato di fatto, riconoscendo dall'Orsini l'autorità di Rettore e di Castellano.

Ma, con l'aggravarsi dello scisma, le cose anche qui ancor più s'intorbidarono. Persino il vescovo — Galardo (Palayrano) investito di questa diocesi nel 1374, — se pur ricco di benemerenze nell'adornare questo Duomo di pitture (che or sarebbero preziosi cimeli, ma purtroppo sono scomparse nel rifacimento berniniano), francese com'era, si decise a parteggiare per l'antipapa. E per ciò, scomunicato, fu rimosso da questa diocesi.

E poi lo stesso Anguillara si scoprì, anche lui, troppo infido, tanto che Urbano VI si decise nel 1380 ad inviare a Spoleto, come legato, il Patriarca di Gerusalemme per spossessarlo: e così fu di fatto, col concorso di Pietro da Filottrano vescovo di Osimo, venuto qui con numerose milizie. E la città e la Rocca ne furono occupate. E a questa fu preposto nel 1381 come castellano messer Pietro Brancaccio di Napoli a tenerla per la Chiesa.JJJ (Pag. 74).

Però presto si fu da capo con le turbolenze: ragione od occasione il "disdigniu che nacque intra lu castellanu dellu cassaru che se teneva per papa Urbanu VI et li gentilomini guelfi de Spuliti".JJJ Così nel settembre del 1383, scoppiò un'insurrezione, il cui epilogo fu questo: i maggiorenti, che avean spadroneggiato in Spoleto al tempo dell'Anguillara, si decisero col favore di taluni gruppi di popolani a sollecitare Rinaldo Orsini conte di Tagliacozzo a venjire ad impadronirsi della città e della Rocca, di cui gli  p150 avrebbero facilitato l'occupazione. Accolto l'invito, l'Orsini venne il 28 settembre a Spoleto e, dopo circa quattro mesi di assedio, riuscì anche ad impadronirsi della Rocca, nonostante le molte cure che allora erano state poste per aumentarne il perdoni e farne più salda, con copiose munizioni, la difesa.JJJ

e già si è detto quel che ne seguì (pagg. 74‑77); e abbiam visto come, non appena la Chiesa potè riacquistare forza di governo, Bonifacio IX (Tomacelli) nominò, nel 1391, Rettore del Ducato di Spoleto il suo fratello marchese Giovanni, e come Castellano della Rocca un altro suo congiunto Marino Tomacello,JJJ con diritto di devoluzione ereditaria di tale ufficio ai discendenti di lui sino all terza generazione. Così si affermava nel governo della Rocca quella serie di Tomacelli cominciata tanto bene e finita, come già si disse, tanto male.

Ma intanto, succeduti al papa Tomacelli Innocenzo VII (1404‑406) e poi Gregorio XII — che più sentì il grave urto dello "scisma d'occidente", — salito al sogno martino V (Oddone Colonna, 1417‑'31), nel secondo decennio del sec. XV si affaccia per questa Rocca una strana November 7.

Risulta infatti da documenti precisi che essa fu utilizzata per procurarsi del danaro, e non con ipoteca, ma più veramente como pegno, perchè fu proprio consegnata di fatto al  p151 creditore. — Non è cosa del tutto eccezionale e nuova per quei tempi, in cui purtroppo si faceva commercio anche delle città: però è interessante; e lo è tanto più per alcune vicende di questo affare, per lo meno, vedremo, curiose.

Si sa che papa martino, venendo da Costanza, dopo il provvisorio trasporto nella Curia a Mantova (tanto disastrose le condizioni di Roma!), per riavvicinarsi il più possibile alla sua vera sede, aveva dovuto iniziare, nel 1419, il suo alto ministero, — di cui poi si dimostrò si degno, — a Firenze.

Tristissime le condizioni per il governo della Chiesa: proprio un periodo calamitoso, e per di più assillato da una "bolletta dura." Lo scriveva — e fa pena — lo stesso papa martino nell'invocare la conclusione di un prestito, denunciando che mai come allora la R.ma Camera aveva avuto tanto "più che massimo" bisogno di danaro.JJJ E si trattava soltanto di 700 fiorini! — che furon dati da tal Francesco Boscoli, mercante o banchiere di Firenze, come da ricognizione formale di debito rilasciata dal vicecamerlengo Lodovico Aolamanus, vescovo di Magnolenne. Ma, poco dopo, al Boscolo — che forse era stato un semplice intermediario — troviamo sostituito in tutte le ragioni di credito "messer Giacomo (Ciotti) del quondam milite Marco, domicello di Siena".

A questo dunque, si apparteneva anche la garanzia. E di fatto egli prese possesso della Rocca a mezzo di un suo fiduciario e concittadino Giovanni de la Petra di Siena, vescovo di Grosseto, cui nel 1422 sostituì un altro concittadino  p152 suo, Bindo de' Tolomei — che però assunse e tenne quest'Ufficio in una condizione ibrida: la Chiesa lo riconosceva ufficialmente come castellano, ma in realtà era un custode del pegno nell'interesse del Ciotti.

Sui primi del 1423, o che il Papa volesse togliersi questo peso — tanto più che il Tolomei, forse per quella speciale sua condizione, pare che si conducesse mal e, spadroneggiando, si fosse messo in urto assai aspro col podestà e la magistratura cittadina,JJJ — o perchè fosse scaduto il termine prefisso, fu decisa l'estinzione, entro febbraio, di tale passività. E bene inteso, contro il versamento della somma — compresi, oltre la sorte, anche gli interessi o le "usure" (che il diritto canonico non avrebbe ammesso) — si doveva restituire, libera da ogni vincolo, la Rocca.

E appunto per venire a questa conclusione i documenti mettono in evidenza una schermaglia di reciproche diffidenze e di cautele complicate e quasi spassose.

Il papa cominciò col mandar qui, sui primi del febbraio 1423, mons. Giacomo Bucci (o de Briccis) vescovo di Aquino con preciso mandato di sostituirsi al Tolomei e di farsi riconsegnare la Rocca, in quanto il Ciotti veniva pagato di ogni suo credito, e di comporre ogni altra differenza in proposito. E contemporaneamente, l'otto febbraio 1424, inviava al Ciotti un Breve, con il quale, ringraziandolo della somma già mutuata, lo assicurava aver disposto  p153 per la sua restituzione integrale, con annessi e connessi, e lo esortava a non creare imbarazzi. E subito dopo, poichè il Ciotti aveva reclamato anche il rimborso di alcune spese fatte per la Rocca dal Tolomei, e par che nicchiasse pel timore che, riconsegnata che avesse la fortezza, poi, con qualche cavillo si finisse col resecargli qualche cosa del dovuto, il Papa inviava un altro Breve, — questa volta più solenne, sub anulo Piscatoris — per la riconsegna della Rocca, studiandosi di rassicurare il Ciotti da quelle preoccupazioni (super his te sensimus dubitare), con esplicita promessa che sarebbe stato pagato integralmente e puntualmente senza diffalchi o sequestri — nullum arrestum fiat. — Ma pare che neanche il Papa a sua volta, si fidasse di far versare il danaro senza la restituzione contestuale della Rocca; niente riconsegna, se non previo sborso di tutto quanto dovuto. Proprio una vera schermaglia di precauzioni e diffidenze. L'andazzo di quei tempi le giustificava anche nel trattare con sì alte autorità, anche col Papa.

Ma la cosa finì bene e fu composta con il versamento dell'importo. Però, anzichè consegnarlo direttamente al Ciotti, il Pontefice volle che, a sua ccautela, fosse inviato ai Priori e Capitani del Popolo di Siena, con istruzione di non varsarglielo se non in seguito ad accertamento dell'effettiva riconsegna della Fortezza.JJJ

Solo così se ne venne a capo, e la Rocca ritornò, libera, nel dominio della Chiesa.JJJ

 p154  Succedendo a papa martino, Eugenio IV — il veneziano Gabriele Condulmiero, o Condulmer, 1431‑47 — anche lui si affrettava a mandar qui come Governatore un fratello suo: Amorotto (1440‑44), del quale — come già si è detto ricordando i malanni di cui fu causa (pagg. 106‑109) — sembra che il papa non fosse del tutto contrario a secondar le ambiziose mire di tramutarsi addirittura in Signore di Spoleto. Certo è che quando, per le tante sue malefatte, ne risultò insostenibile la posizione, il papa, per sostituirlo ricorse ad un altro suo parente — cognato — Iacopo Condulmer, già castellano di Narni.

Anzi in proposito è da ricordar questo: che intendimento di quei papi apparve quello di cumular il più spesso nella stessa persona — loro fida, prediletta e parente — i due uffici, già del tutto distinti, di Governatore della città e di Castellano della Rocca.

Logico, tale intendimento, rispetto a quel loro scopo, non soltanto di favore nepotistico, ma anche di più sicura garanzia politica. Però pericoloso come accentramento adattato a provocare e favorire abusi di potere e a degenerare in egemonie di tirannelli, e, perchè tale, inviso alla città, che ne temeva per lo meno minacciate le sue libertà statutarie. E ciò diede occasione a trattative e pure a qualche contrasto tra la magistratura civica e il governo della Chiesa. E di fatti ne risultò una certa alternanza nei periodi di prevalenza di uno o l'altro dei due sistemi, talvolta fatti anche imprecisi da interferenze per la nomina di commissari o di legati. Nè rari furono i casi in cui taluno, inviato qui con un solo di quegli uffici, finì poi, per successiva  p155 vacanza dell'altro, col cumularli entrambi; e anche viceversa per effetto di sdoppiamento.JJJ

Da ciò la difficoltà, se non l'impossibilità, di un elenco complete e preciso di tali funzionari. Ma, per fortuna, questo non occorre al compito nostro, che è di offrire una visione piuttosto sintetica della vita e della storia di questa Rocca.

Certo è che sulla metà del sec. XV i voti della cittadinanza per la separazione dei due uffici — di governatore e di castellano — riuscirono ad ottenere una precisa e formale sanzione sovrana. Così fu nel 1443, e non meno decisamente poi confermato nel 1444.

Difatti sappiamo che la città fece tutt'altro che buon viso a Mons. Amico Agnifili, vescovo di Aquila, quando nel 1447 si presentò a Spoleto quale investito da Nicolò V del cumulo dei due uffici. La magistratura si rifiutò di riconoscerlo, e mandò appositi legati al papa reclamando l'osservanza di quelle precedenti disposizioni. Eppure l'Agnifili era personaggio già notevole, che poi, nel 1467, fu cardinale e, alla morte di Paolo II, fu lì lì per conseguir la tiara.

E il contrasto fu composto con una specie di transazione, anzi con un espediente sottile, in quanto inteso a piegar la volontà del papa e a propiziarne la benevolenza  p156 col solleticarne gli affetti famigliari: cioè proponendo di affidar la castellania a Cesare de' Conti di Lucca, cognato del pontefice, che già risiedeva nella Rocca quale tesoriere.

Espediente sottile che, sulle prime sembrò una trovata felice. Ma non si era pensato che sarebbe stato imbarazzante e certo al Conti non gradito — figurarsi poi a sua moglie, donna Caterina, sorella uterina del papa! — dover figurare nelle cerimonie con un grado inferiore a quello del Governatore.

Necessario cercare una soluzione in general, più pratica e più semplice. E, pensa e ripensa, si finì col trovar questa: riunire un'altra volta i due uffici di Governatore e di Castellano e, lasciando il Conti al suo tesorierato, investire sia pure del duplice ufficio altra persona ancor più attaccata e gradita al pontefice: il suo fratello uterino Filippo Calandrini.

Ciò era in aperta contradizione con l'impostatura e le avvisaglie di quel prim o contrasto per il rifiuta dell'Agnifili. Ma si sapeva che il Calandrini, oltre che persona proba e di gran conto, era assai caro al papa. Ne poteva derivare gran giovamento alla città, cui già Nicolò V aveva dato prove di benevolenza.JJJ

Così, ad istanza della magistratura cittadina, il Calandrini era da Nicolò V, con sua bolla 10 settembre 1474, nominato Governatore della città di Spoleto e suo distretto e pur Castellano della Rocca.JJJ E infatti poco dopo egli giungeva a Spoleto, e si allogava negli appartamenti del munitissimo edificio, — ove già risiedevano quei suoi parenti, Cesare de' Conti con la moglie Caterina, figlia di Andreola da Sarzana e,  p157 perchè tale, sorella di lui, Filippo, e pur sorella di Nicolò V. E vi rimase per circa un anno, sino a che nel 1478 il papa lo destinò alla diocesi di Bologna, per esser poi, nel 1476, eletto da Sisto IV cardinale prete di Santa Susanna.

E allora gli succedette, anche lui come Castellano e Governatore, Cesare de' Conti, che così ottenne di mettersi a posto, al primo posto. E anche donna Caterina ne sarà stata contenta. — Tanto contenti che qui rimasero circa cinque anni.

Poi, con il primo avvento della fortuna dei Borgia, Callisto III — il valentano Alfonso de Borgia (1455‑'58) — mandò, in sostituzione del Conti, Matteo Fieschi conte di Lavagna quale Governatore e Castellano, al quale seguì, prima nella castellania (1455), poi anche come governatore, Iacopo Tebaldeschi (da altri designato come Tebaldi) Vescovo di Montefeltre. qual Ma un anno dopo, nel dicembre del '56, ecco di nuovo investito di tali funzioni un nipote del papa regnante, Don Pedro Luys Borgia, fratello di colui che sarà poi Alessandro VI, — il quale, per quanto giovanissimo e di quel sangue, almeno qui, sicdu8 bene. Un Borgia: pare impossibile! — Cfr: la Nota 48, in fine.

Anzi di Borgia qui a Spoleto ce ne fu, allora, anche un altro, Gerardo, che coiadiuvò, e con lode, quel suo parente nell'ufficio di Castellano.

Ma, morto nel 1458 papa Callisto e succedutogli Pioneer II — Enea Silvio Piccolomini, — subito quei Borgia furon spazzati via, anche per far posto a parenti del nuovo pontefice. E venne, infatti, come governatore Bartolomeo Pierio  p158 Piccolomini, parente del papa, cui si associava Lorenzo Boninsegni, altro suo stretto congiunto.JJJ E, poco dopo essersi sistemati insieme nella Rocca, entrambi celebravano — e proprio nello stesso giorno, 15 gennaio 1460 — le loro nozze: uno, il Pierio, con Antonia, nipote del papa perchè figlia della sua sorella Caterina; l'altro, il Boninsegni, con un'altra nipote del papa, di nome Montanina; e le due coppie presero stanza nella Rocca. Così sugli spalti minacciosi rifulse una duplice Luna di miele. Poi venne anche la suocera, donna Caterina; ma più tardi. Nè par che troppo, anche se suocera, li disturbasse.

E intanto, nel 1459, stava pur nella rocca come castellano Lorenzo Bonifazi, di Siena, a cui favore fu, come abbiam visto (pagg. 141‑143), emesso dalla Camera Apostolica un mandato — 2 maggio — per provvedere a talune spese per il "Piccolo Turco" che era trattenuo allora in questa Rocca.

Sotto Paolo II (Barbo, 1464‑70, il Pontefice cui è dovuto il monumentale ed ora Partenza di Venezia a Roma), fu inviato a Spoleto, a reggerne il Governo, Giacomo Minutoli lucchese, vescovo di Nocera Umbra. Però, sembra, il solo Governo, che — secondo quanto attesta il Campello e conferma il Sansi — alla morte di Pioneer II il Conclave, provvedendo in periodo di Sede vacante, aveva statuito, e poi Paolo II confermato, che si ritornasse alla buona consuetudine di tener distinti i due uffici di Governatore e di Castellano di Spoleto per affidarli a persone diverse.JJJ E qual castellano troviamo designato tal Leonello da Lucca  p159 abate di Frassineto e S. Pellegrino.JJJ — "Pare", "sembra", dico, perchè, se deve ritenersi esatta la notizia di quella disposizione normativa, c'è qualche cosa che mal si concilia con essa e con il resto. Risulta infatti da documento preciso che il Minutoli fu nominato, proprio in quel tempo, nel 1464 "custode della Rocca di Spoleto, cioè governatore" — custos arcis Spoleti, seu gubernator.JJJ Che fosse sin da allora nato il tarlo che, sì ricco d'appetito, sempre florido e in buona salute, ingrassa a rodere il divieto del cumulo delle cariche e degli stipendi?

Comunque, breve fu l'osservanza anche formale di questa disposizione, chè presto risultò rvkaa di fatto dal successore, Sisto IV — Francesco della Rovere (1471‑'84), — il quale, nel 1473, inviò, come governatore e castellano, Andrea da fano vescovo di recanati, cui succedette quello di Sarsina e il Nipotino e poi, nel '75, Nicolò vescovo di Mondrussa, insigne prelato e sagace uomo di governo, ma messo proprio a faticosa prova in mezzo alle tante turbolenze, anche ribelli, della città, che procurarono a Spoleto le antipatie di quel papa torbido e scontrosissimo. E le cose accennarono a mettersi male. Ma fortuna volle che intanto venisse a Spoleto, ospite festeggiatissimo, Bartolomeo della Rovere, nipote del papa.JJJ Sembrò che avesse ambiziosissime mire,  p160 ma ebbe la prudenza di non insistervi. Così, anche perchè cortese di maniere e di aspetto gentile, si guadagnò le simpatie cittadine; e ciò valse a smussare le asprezze di Sisto.

Il quale nella primavera del 1478 diceva qui, come Castellano, e po' anche con l'ufficio di Governatore del Ducato, Domenico Gentile Riccio, nobile di Savona, suo congiunto, che aveva in moglie Violantina Riario figlia di Bianca della Rovere, sorella del papa. E presero entrambi stanza nella Rocca, festeggiatissimi, insieme a una loro figliola, Bianca. I documenti del tempo ne fan ricordo con consenso di lode, sia per tatto politico, sia per utili iniziative.JJJ

Purtroppo durante il suo ufficio il Riccio ebbe il dolore di perdere, forse per contagio di pestilenza, la moglie e la figlia, le cui salme riposano nel Duomo, di qua e di là dell'altar maggior, sotto due lapidi che ne ricordano la figura: Violantina vi è rappresentata con ai suoi piedi un'infante, a ricordo e simbolo della sua maternità.

Buono, dunque, anche se con tale epilogo maliconico, il loro ricordo.

Peccato che vi apporti nota troppo antipatica una personal connessione a sciaguratissimi eventi di quel tempo e particolarmente con una delle più perverse figure che ne furono pars magna e tristissimo esponente: Girolamo Riario, nipote di Sisto IV, perchè figlio anche lui di Bianca della Rovere maritatasi a Paolo Riario: era perchè fratello di Violantina Riccio.

 p161  Le Riformagioni del Comune attestano che egli venne ripetutamente a Spoleto — e nella Rocca — "per trattenersi con questi suoi congiunti" (Sansi, II.78).

Ecco dunque un altro ospite di questa Rocca: ospite di gran conto, che avremmo potuto mettere in serie con gli altri già ricordati; ma ce n'ha distolto una certa ripugnanza. — Sì, di gran conto, chè, nella sua genialità di criminale, riuscì ad imporsi anche sullo scontroso spirito di suo zio Sisto IV e, questa lo sfacciato nepotismo politico che imperversava a que' tempi, ne ottenne, con la sua attività senza posa nei tristi raggiri, privilegi e favori oltre ogni onesta misura — persino più eccessivi di quelli già concessi all'altro congiunto di papa Sisto, Pietro della Rovere, il prodigo e crapulone Cardinale di San Sisto.

Non soltanto ne ebbe nel 1473 la signoria di Imola, — che Sisto IV aveva riscattata allora con 40mila ducati per la Chiesa, da galeazzo Maria Sforza, — e poi, alla morte di Pietro Ordelaffi, anche quella di Forlì, ma, nemmen contento di questo, affacciò pretese su Faenza e pure su Ferrara; e ne derivò l'aspra rottura con Venezia.

E, peggio ancora, fu la sua influenza a rendere per tanti eccessi ancor più iniqua la politica di Sisto IV. Non che per ciò occorresse far molto sforzo su questo papa: però egli ne fu il tristissimo consigliere o favoreggiatore, anzi, più veramente, il complice. Sciagurata complicità, prima, nel 1467, per l'assassinio di galeazzo Maria Sforza a Milano; poi, nel '78, per la Congiura dei Pazzi, disposta allo scopo di sbarazzarsi della tanto invisa potenza dei Medici e metter mano sulla signoria di Firenze. E sisa che Giuliano de' Medici fu assassinato in chiesa, a S. Maria del Fiore, mentre assisteva alla messa; e fu  p162 miracolo che ne scampasse Lorenzo.JJJ — E appunto, coincidenza notevole, in quello stesso anno '78 veniva a Spoleto, come si è detto, quale governatore, Domenico Gentile Riccio.

Che molte dovessero essere le simpatie del Riario per Spoleto si sarebbe indotti a dubitare: abbiamo già visto come e quanto apertamente la magistratura spoletina si era affrettata ad esprimere a quella di Firenze la sua deplorazione per lo sciagurato attentato del '78. — Eppure ci sono precise prove per cui risulta certo che i suoi rapporti con Spoleto, furono, non soltanto, per così dire, turistici e d'occasione famigliare, ma si affermarono con interessamento, anzi con un'effettiva ingerenza, nel governo della città. E, quel che più conta, con un interessamento premuroso e benevolo. Ne è chiara attestazione una sua lettera del 26 aprile 1484, — mentre Domenico Riccio era in Imola — quasi espansiva, a questa magistratura, che egli salutava come Magnifici Viri, Amici Precipui — e con la quale annunciava come prossima una sua visita anche per sistemare alcune controversie che c'erano allora con i Folignati. — E di questa sua benevolenza si faceva mallevadore anche il Riccio che, in una sua lettera di pochi giorni prima (17 aprile, da Imola) ai magistrati di Spoleto, assicurava: "La su Excellenzia verso di Voi non potoeria essere meglio disposta".JJJ

 p163  Tutto ciò, questi rapporti e queste sue visite, non debbono essere dimenticati nella cronistoria di Spoleto. Dà loro una speciale importanza l'autorità e la notorietà di tale persona, losca e perversa quanto si vuole, ma figura di primo piano nella politica di quel tempo, se non altro per la parte da lui avuta in quei criminosi eccessi a Milano e a Firenze, dai quali, si può dire "ebbero origine le tante lotte svoltesi poi tra gli stati italiani, che resero agitato il periodo che ancor separava Libia dall'invasione dei Francesi sotto Carlo VIII."JJJ

E tanto più si ha ragione di farne menzione perchè risulta che i suoi rapporti con questo Domenico Gentile Ricco governatore e castellano di Spoleto, furono, nonchè famigliari, anche politici. Infatti sappiamo che in sul finir del 1483, scoppiata la guerra con Venezia, il Riccio, partì da Spoleto e andò a reggere, per questo suo cognato Gerolamo impegnato in quel conflitto, il governo d'Imola. E qui a Spoleto lasciò un suo luogotenente Biagio da S. Ginesio e pur la moglie Violantina, — che seguitò a governare in suo nome (par anzi che si fosse arrogata anche prima questo diritto, — era, lei, la sorella del Papa!) e, bene inteso, a riscuoterne le prebende.

Il Riccio si proponeva, non appena districatosi da tale impegno, di ritornare a Spoleto. Il 22 gennaio '84 annunciava a questi Priori che il suo ritorno "serrà presto . . . o alquanto più tardo, secondo se dirizzeranno le cosa de Romagna", e il 21 aprile confermava che sarebbe stato "più presto  p164 che già non estimava, concludendose la pace come se crede quasi da ognuno". — Si alludeva così alla pace, triste e vergognosa, che, per tradimento di Lodovico il Moro, fu di fatti conclusa pochi mesi dopo, il 7 agosto, a Bagnolo; pace tanto ingiusta e ingiuriosa che diede alla salute, già scossa, di Sisto IV colpo si grave che, più o meno sinceramente rimpianto, pochi giorni dopo morì.

Così Domenico Riccio, non ebbe più tempo nè possibilità di ritornare a Spoleto, perchè, con l'avvento al soglio d'Innocenzo VIII (Gian Battista Cibo1484‑'92), la stella dei Riario e dei Ricci era tramontata. Oltre al proposito di tagliar netto sugli strascichi di rancore lasciati dai della Rovere e dalle loro propagini, c'era, dato l'andazzo nepotistico di quel tempo, da mettere a posto la famiglia del nuovo pontefice.

Ed ecco infatti il governo di Spoleto e della rocca in mano, e quasi in retaggio, della famiglia Cibo: prima, nel 1484, al nipote del papa, Lorenzo, nominandogli a castellano — ut arcem Spoleti custodiat diligenter — il vescovo di Cortona (Cristoforo Bordini dei marchezi di Pratella);JJJ poi, nel 1487, al cardinale Maurizio fratello del pontefice che, accolto con grandi feste, fu investito del duplice ufficio di governatore e castellanoJJJ e morì, tra il cordoglio della cittadinanza, ai primi del '92; — poi ad un'altro congiunto del papa, il card. Leonardo Cibo, che lasciò triste fama di sè, e par che profittasse in modo troppo indiscreto, anzi disonesto, di proventi non legittimi.

 p165  Ma con la morte di papa Innocenzo, 1492, si affaccia tutta una nuova e diversa affermazione di famiglia; una ripresa, e questa volta in pieno, di quella prima che ne era apparsa con Callisto II — I Borgia.

Siamo ad Alessandro VI — Rodrigo Borgia Lenzuoli.

Chi sa mai quante ne avran fatte, anche qui; quante delle loro?

Invece no. Se anche svariati e pur, taluni, caratteristici, i rapporti dei Borgia con Spoleto, conviene riconoscere che non furon tristi e tanto meno obbrobriosi.

Eppure, forse perchè tanto numerosa fu quella famiglia e pur tanto agitata in irrequiete intraprendenze ed invadenze, molti e interessanti furono tali rapporti.

Cominciò infatti, quest'affermazione borgiana, con l'invio, subito dopo l'elezione di Alessandro VI, del cardinale Giovanni Borgia, vescovo di Monreale, nipote di quel papa, mandato qui come protettore della città e del ducato. Si scelse un buon castellano Giovanni de Vera; e si condusse bene.

E dopo di lui venne un altro Borgia (che fu poi cardinale) e anch'esso nipote di Alessandro e pur di nome Giovanni ma, allora, vescovo di Melfi — così che, per distinguerlo da quel suo omonimo e congiunto, trovasi a preferenza designato come il Melfiense: Melfiensis o Melfitensis. — Venne a Spoleto nel 1494, investito del doppio ufficio di governatore e di castellano. E qui lo sorprese quella sciagurata vicenda della storia d'Italia che fu la così detta "calata" di Carlo VIII.JJJ

E a proposito di questa incruenta, ma più o meno pestifera impresa francese in Italia, possiedo un documento interessante, anche rispetto a questa Rocca. E una pergamena contenente un breve (originale) che il 25 novembre 1494 — quando più prossima se ne sentì la minaccia — Alessandro VI inviò a questo Governatore (il Melfiense), per commettergli di procedere subito al censimento del grano nell'importante mercato granario di Bevagna, ingiungendo che tutto quel tanto che fosse per risultare disponibile venisse raccolto e inviato come dotazione di riserva alla rocca di Spoleto — pro usual et munitione arcis nostrae Spoleti. E si raccomanda di fare buona guardia, diu acqua nocte, e di tener fermo in ogni evenienza, chè, se fossero occorsi aiuti, non si sarebbe mancato di farglieli pervenire — quandocumque opus erit providebimus vobis de auxilio oportuno.JJJ

Di questi non ci fu bisogno, perchè 08, per calare dalla Toscana a Roma, preferì seguir la via che da Siena, passa a occidente dell'Umbria, per Viterbo; ma tali provvidenze e sì pressanti raccomandazioni sono una prova di più del gran conto in cui era tenuta questa Rocca — anzi la "piazza" di Spoleto. (Documenti, XVI).

Il cardinale Giovanni Borgia (il Melfiense) seguitò intanto a reggere il governo di Spoleto, giovandosi, come suo luogotenente, di Giovanni Oliver di valenza, a lui assai fido. E così potè conservare tale ufficio anche quando, nel 1497, fu eletto Legato di Perugia e del ducato di Spoleto, sino al 1499.

E come giustamente ha rilevato il Sansi, tutti questi Borgia — e persino Alessandro VI — "anzichè nefasti o, per lo meno, molesti, risultarono invece provvidi e bene accetti a Spoleto. Più e meglio di tanti altri di nome e di sangue assai migliori".

 p167  E lo stesso può dirsi di un'altra figura di questo numeroso gruppo borgiano al governo di Spoleto: caratteristica figura, che di tal serie è proprio il numero più interessante: certo il più notevole e, sotto certi aspetti, il più simpatico. E non soltanto esteticamente. — Lucrezia Borgia.

La solennità con cui Spoleto soleva celebrare, anche allora, con speciale devozione la festa del 15 agosto in onore dell'Assunta ebbe, nel 1499, un contributo nuovo e imprevisto. Sia pur mondano, notevolissimo; e ne risultò convertita in festa anche la vigilia.

Nelle prime ore del pomeriggio del 14, sulla via che, insinuandosi tra i Monti Martani, conduct da Narni e San Gemini a Spoleto, si avanzava un numeroso corteo fastosissimo. Era giunto il preannuncio del suo imminente arrivo, e perso la porta di S. Matteo (o di Loreto) stava adunata in pompa magna la magistratura: tutt'intorno, una gran folla, curiosa e quasi impaziente nell'attesa.

Finalmente esso si affaccia sull'altura di Colle Risana, e scende verso la città. E subito tuonano, come primo saluto, dagli spalti della Rocca, le artiglierie; risuona a festa un gioioso scampanio.

Eccola, eccola. . . .

Eccola — perchè chi stava per giungere, con tanto sfarzoso seguito (anche duecento fanti e quattro commissari, che le erano stati inviati incontro da Spoleto), era una donna. una donna già famosa, se non proprio per virtù, per complesse vicende e per affascinante bellezza: Lucrezia  p168 Borgia, duchessa di Bisceglie, la figlia benamata — o troppo amata? — del pontefice sovrano. E per di più, — fatto nuovo nella storia della Santa Sede — veniva qui come Governatrice del Ducato di Spoleto e della città di Foligno e Castellana della Rocca.JJJ Con tale duplice ufficio l'inviava a Spoleto Alessandro VI.JJJ

Giunto perso la porta ed esaurito le cerimonie di rito, il ricco corteo entra in città e lento s'inoltra su, per le strade auguste. Ma qua e là archi di trionfo, serti di fiori e le orifiamme rompevano il grigiore delle mura severe, come a scioglierne la fredda austerità in un saluto accogliente.

Lieto sale il corteo tra le acclamazioni festanti, sin che sbocca nell'aerea piazza che, anche allora, era aperta in vista sulla meravigliosa valle, al sommo della città, sotto la Rocca. Nella chiara luminosità dell'ampia spianata tutta la scena del fasto pomposo si ravviva in un tripudio di colori. E vi trionfa in un poema di bellezza, il fascino della Signora bellissima che, "adagiata al dorso di un'alta sella di fine lavoro" con sopra "un ricco baldacchino di Damasco e d'oro", accenna, cortese, con sorriso di saluto.

Il sole, prossimo a declinare sul profilo dei Martani, diffondeva nel quadro magnifico le incomparabili tonalità di tinte luminose, che fan sembrare i tramonti dell'Umbria illusioni di portento.

Plaude il popolo alla sua nuova Signora: altre attestazioni di ossequio tributa la magistratura. . . .

La prima cerimonia di accoglienza è finita. E, preso  p1690 congedo, Ella si avvia col seguito alla residenza sua, la Rocca. E lenta risale la strada che, sul declivio del colle, conduct al castello. Il Monteluco, su cui, di fronte, sfiammano i raggi del tramonto, par che divampi di luce propria e tra i palpiti di un tenue velo intessuto d'oro la rifletta su lei come in un'apoteosi.

Ecco, è arrivata alla porta munita del bastione. Entra, e con lei vi s'inoltra e scompare la scorta. Cala con cigolio pesante la saracinesca.

Giunta è così nella sua sede Lucrezia, la Signora del luogo.JJJ

E l'indomani, — 15 agosto, — convocata nella Rocca la magistratura cittadina, prendeva solenne possesso dell'ufficio presentando i Brevi di nomina emessi da Alessandro VI le sue credenziali.

Liete di entusiasmo e di acclamazioni, quelle accoglienze fastose, tutta quella pompa.

Ma lei? Quale, dietro la maschera del suo bel viso atteggiato a sorridente cortesia, il vero e riposto animo suo?

Veniva qui mandata da Roma appena sei giorni dopo che colui, che fu, forse, l'unico, certo il suo più grande e più vero amore — il bellissimo giovane marito Alfonso, duca di Bisceglia, — presentendo il pericolo (di cui fu poi vittima sì tragica) per esser divenuto inviso ai Borgia, si era indotto a fuggir via da Roma per rifugiarsi ove mentre facilmente avrebbe potuto raggiungerlo l'odio del Valentino. — Egli era partito segretamente da quella Corte infida il  p170 2 agosto (1499): sei giorni dopo Alexander destinava lei a Spoleto, e immediata ne dispose la partenza.

Era, sì — quantunque allora appena diciannovenne — quello il secondo suo marito, poichè il primo, assegnatole dal padre suo Alessandro, quando aveva di poco superato i thirteen years (Giovanni Sforza, signore di Pesaro, già vedovo di Maddalena Gonzaga e nipote di lodovico il Moro Duca di Milano), era stato, dopo circa tre anni di matrimonio sterile, scartato con la risoluzione del vincolo coniugale per una squalifica che, le successive sue "feconde" nozze con Ginevra Tiepolo, provarono immeritata. Ma le vicende della torbida politico borgiana volevano così: non più l'orientamento verso Milano, ma altre e diverse mire sulla Corte di Napoli e perciò lo sfratto a quel primo marito.

Ed ecco allora un nuovo sposo per lei, Alfonso d'Aragona, figlio naturale, ma in gran favore, di Alfonso II re di Napoli. E intanto spariva tragicamente, assassinato perso il Ponte Quattro Capi, il fratello di lei duca di Gandia.JJJ — Da chi? Mistero. Ma non, forse, mistero per lei, che deve aver guardato se le mani dell'altro suo fratello, Cesare, il Valentino, ne fossero insanguinate, se non quelle di suo marito Sforza, stanco forse del sospetto d'incestuose intese di lei con quel fratello suo.

Triste assai questo monito per il giovane Alfonso, presto, anche lui, caduto in disgrazia quale imbarazzo alle ambiziose mire di Cesare, ora rivolte verso Luigi XII e la Francia. Grave perciò il pericolo, e il miglior scampo possibile la fuga. E i successivi eventi lo provarono, chè quando poi — richiamatovi dall'amore per lei e per la  p171 creatura che stava per nascere — s'indusse a ritornarle accanto (e par certo che questo sia avvenuto appena a Spoleto, negli ultimi giorni della residenza di Lucrezia in questa Rocca) e poi ad andare insieme con lei a Roma, alla Corte dei Borgia, ecco, anche lui, un'altra vittima del Valentino. Assalito da sicari appostati nella scalinata della basilica di San Pietro, fu ferito gravemente; ma potè scampare e rifugiarsi in Vaticano. "E Lucrezia, al vederlo così lacero e sanguinoso, cadde come morta, e, tornata in sè, lo circondò delle più amorevoli cure, e insieme a donna Lancia sua cognata lo medicava ed approntavagli il cibo di sua mano, perchè non fosse avvelenato. Ma una sera il Valentino, entrato col suo Michelotto nella stanza e cacciatane bruscamente le donne, fece scannare (più veramente strozzare) il principe ancora convalescente" (Sansi, II.131).

Questo tragico epilogo non era ancora avvenuto. Ma già ne aleggiava, allora, paurosa la minaccia, come un'incubo di angoscia anche su lei, che sapeva di che fossero capaci nella famiglia sua.

In ogni modo, questa, sia pure pomposa, relegazione in questa Rocca dopo quella fuga di Alfonso aggravava il distacco: il distacco dal giovane e bellissimo suo sposo ("il più bel giovane che si fosse mai visto a Roma" dissero i cronisti di quel tempo); quel giovane suo sposo, di cui allora, quando venne a Spoleto, portava in grembo, da sei mesi, il frutto dell'amore.

Far giudizio analitico di lei non è qui il caso: troppo complessa l'indagine e pur troppo intorbidate dagli odi o compiacenze di parte le cronache del tempo. Nè oserei  p172 prender partito fra i più severi accusatori o gli indulgenti suoi riabilitatori. Ed è assai probabile che, anche in questo caso, tra i due opposti eccessi, stia appunto nel mezzo, se non quella che a lei mancò, la virtù, almeno la verità.

Ma come e da che parte avrebbe potuto derivarla, lei, la virtù; lei, che si sapeva figlia adulterina di un porporato — e poi pontificato — e della prodiga di opulente grazie Vannozza Cattanei, dai triplici mariti titolari, anch'essa d'incerta nascita e già esercente — anche se poi messa in fortuna da papa Alessandro — di un'osteria a Campo di Fiori con annessa una locanda che, non saprei se per affinità elettive o per impertinenza, si disse de La vacca?

Donde e come apprenderla ed assumerne l'habitus in quell'ambiente e con quegli esempi famigliari, mentre vedeva il tiarato e taratissimo suo padre fornicar senza ritegno con la bellissima Giulia Farnese Orsini e, ad eccitare i sensi di lei (lasciamo stare il più insidioso e delittuoso scopo che altri vi ha sospettato!), la faceva assistere, l'11 novembre 1501, da una finestra del Vatican, allo spettacolo di una monta di stalloni e, peggio ancora, poche sere prima, a chiusura della solennità dei Santi, la volle partecipe della cena che degenerò in un'orgia, cui parteciparono una cinquantina di giovanotti e altrettante giovani donne "prima vestibus suis et deinde nude — annotava il Burkardo — et fuerunt in aula publica carnaliter tractate"?

Oh, se non vi si affacciasse, profilandosi tra avvampate tenebre tanto fosche, la misteriosa figura dell'infants romanus!JJJ

 p173  E trista la linfa che aveva dato vita a questo fiore del male: fiore iridato di smaglianti bellezze; non velenoso, forse, ma avvelenato della pestifera atmosfera in cui si dischiuse. — Più che perversa, credo, pervertita.

Comunque, a me piace d'intravvederla, appunto qui a Spoleto, come in un periodo, sia pure breve, diu sua intima redenzione. E rievocarla come ridestata dalle due forze che più valgono ad un'elevazione: il dolore e l'amore. Anzi, quel che è ancora più nobile e più efficace a farci migliori: il dolore per amore.

E, piuttosto che tra i caldi sbattimenti delle luci meridiane; piuttosto che nel trionfo della sua giovanile bellezza procace, sorridente tra l'iride dei capelli d'oro, meglio è poterne, — e più mi piace, — rievocare e rapportare la figura velata dalla silenziosa penombra del vespero.

Chi sa come e quante volte, sollecitata dall'ora che "intenerisce il core", sarà venuta ad affacciarsi ad una di queste grandi finestre ogivali, che dall'alta loggia si aprono sulla meravigliosa valle, e la vista se ne distende oltre il Subasio. E nel velato chiarore delle serate estive, chi sa quanto, mesta e pensosa, vi avrà sostato, guardando, senza precisa visione, lontano. Lontano, con assorto, malinconico e trepidante pensiero al suo Alfonso, lontano. . . . E, forse, quante volte avrà pianto! — "Non fa che pianzere da che è partito suo marito", — scriveva il Sanudo.

E a quel richiamo egli obbedì: interrotta la sua fuga, venne qui, di nuovo accanto a lei, a Spoleto.

Quanto tragiche e sciagurate le conseguenze di questo affettuoso riavvicinamento già si è detto. E c'è chi ritiene  p174 che quest'invio di Lucrezia a Spoleto fosse stato disposto come insidioso tranello dei Borgia per riavere in mano il fuggiasco. Però, se mai, un'insidia dei Borgia, non di Lucrezia.JJJ

Egli venne a ricongiungersi a lei, in questa Rocca; e la poderosa fortezza accolse e protesse le ansiose gioie di quel ritorno. Luna di miele quella che, affacciandosi dal profilo del Monteluco, rischiarò allora di polveri d'argento il severo grigiore delle vecchie mura.

Poi, incautamente fidenti, partirono insieme per Nepi e ritornarono a Roma, ove qualche mese dopo nacque il loro figliolo Rodrigo. Poi si sa quel che avvenne di lui.

Così ancora una volta Lucrezia era resa libera e vedova, appena diciannovenne. E proprio due anni dopo, nel settembre 1501, si dava — od era data, — con centomila ducati d'oro, ad un terzo marito, Alfonso I, poi duca di Ferrara.

E a Ferrara fu accolta con feste e con sontuosità di pompa che or si stenta a raffigurarci. In una relazione dell'ambasciatore di Francia, — che prese parte alla solenne cavalcata con cui, a fianco del suo sposo, Lucrezia attraversò la città — si legge che, questa le persone del seguito, oltre ottanta sfoggiavano collane d'oro del valore di più che 35 millennia ducati ciascuna. E lei trionfava sopra una mula tutta coperta di una gualdrappa di broccato d'oro e rilucente di gioie: pur di finissimo broccato d'oro era la sua veste; in capo una cuffia stimata più di quindicimila ducati, e sulle babbuccie brillavano due soveriti di altissimo valore. Non da meno lo sposo, su un morello, il cui morso era d'oro massiccio: e tutto di lastre d'oro battuto era il suo saio. \

 p175  E dai carteggi del tempo e dal copialettere d'isabelle d'Este si rileva con quanta cura Lucrezia si studiasse di emular le eleganze, improntate a tanto squisito sentimento artistico, di colei che fu veramente l'arbiter elegantiarum in quel fastoso periodo del Rinascimento: la sa cognata isabella d'Este, signora di Mantova. Però si direbbe che a ciò fosse indotta, più che da leggerezza vanesia e provocatrice, da una geniale tendenza di signorilità. Vivi anche in lei ingegno e gusto d'arte.

Anzi risulta certo — e va ricordato a sua lode — che a Ferrara, appena tolta dal pestifero ambiente della sua famiglia in Roma, apparve ad un tratto mutata, e non già per incipiente vecchiaia: nata nel 1480 (o, sullo il Pastor, nel '78) aveva circa ventun anni. E si mostrò severa, con l'esempio e con leggi, di contegno e di costumi. E appunto a lei Bonaventura PistofiloJJJ riconosceva il merito di aver moderato certe foggie licenziose delle dame Ferraresi, che troppo solean mostrare "nude le carni del petto e delle spalle" e di aver introdotto l'uso di portare "gorziere che velavano quelle delle spalle sin sotto i capelli".JJJ

Vero è che anche là pare che sia avvenuto un qualche altro strappo: certo col bembo (con quanto affetto egli ne custodì e ha tramandato a noi il dono di una tenue ciocca dei suoi capelli d'oro!) e, per quello che risulta da un carteggio compromettente rivelatoci dal Luzio, anche con il suo cognato marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, il marito della sua rivaleggi isabelle. — Male, sì, anche questo; ma almeno con dignitoso riserbo. Si non caste . . . Il meno peggio che potesse  p176 avvenire, dato quel tristissimo avviamento. E fu lodata, stimata, forse anche adulata, persino dall'Ariosto, e più ancora da Tito ed Ercole Strozzi, più ancora dal Trissino, che le riconosceva "virtù così molteplici che tolgono ai poeti la speranza di parlarne degnamente". Nè è da credere che l'Ariosto, lo Strozzi, il Trissino ed altri di quei tanti suoi lodatori volessero proprio esporsi a figurar da sciocchi piaggiatori e tanto meno metterla in burla o farle danno col dirne quello che, al confronto con la realtà, troppo apertamente sarebbe sembrato ironia.

E fu buona madre di altre tre figlioli: assistè affettuosamente e amorosamente rimpianse quel suo primo figlio Rodrigo, mortole nel 1512, e alla maternità pagò il suo tributo supremo, che appunto di parto morì il 24 giugno 1519 — appena quarantenne.

Ma, qualunque sia stata questa che, per molti aspetti, or si direbbe una donna fatale, — se anche vera quella macchia, la più brutta di sua vita, segnata dalla nascita del misterioso infans romanus — certo è che il periodo del suo soggiorna nella Rocca di Spoleto ci si rappresenta come uno dei migliori della sua vita. Migliore per umanità, nobile e buono, quasi direi esemplare: certo simpatico.

Sincero l'affetto per cui allora pianse e palpitò; schietta, per amore vero, la gioia quando potè riavere lo sposo benamato.

Pur lontana così da Spoleto, la bella castellana conservò ancora per qualche tempo — da Ferrara — diritti giurisdizionali sul Ducato, forse anche per godere, dice il Gregorovius, delle ricche entrate che vi era annesse.JJJ

 p177  E risulta che, per quanto coadiuvata da Antonio degli Umioli da Gualdo, quale auditore e da Cristoforo Piccinino nominato dal Papa suo segretario e notaro e procuratore fiscale della Camera Apostolica a Spoleto, non mancò d'ietjs direttamente delle cose del Ducato.JJJ E — dice il Sansi — anche in ciò "diede prova di quell'assennatezza nelle cose di governo che spiegò poi a Ferrara".

Solo più tardi — il 10 agosto 1500 — veniva nominato a sostituirla lodovico Borgia, arcivescovo di valenza, che di fatti — ecco ancora un altro dei Borgia! — il giorno 12 prendeva possesso del Governo di Spoleto e della Rocca, al cospetto dei magistrati cittadini, "stando — così è annotato nelle Riformagioni — in una stanza della torre detta del papa". E, dopo aver retto di persona il Ducato per poco più di un anno, fatto cardinale, vi provvide a mezzo di suoi luogotenenti.

E intanto — l'11 gennaio 1502 — ecco di nuovo Lucrezia a Spoleto e, anche questa volta, nella Rocca: però di passaggio e per ragioni del tutto diverse al suo ufficio giurisdizionale. Andava a nozze, alle terze legittime sue nozze: quelle con Alfonso I di Ferrara. — Partita da Roma il 6 gennaio, giungeva qui con pomposo corteo; oltre gli ambasciatori ferraresi, anche una compagnia di musici e di buffoni mandati dal Valentino per suo svago. E chi sa che allora la Rocca non abbia visto cosa a lei nuova: una loro esibizione. — Certo è che Lucrezia fu anche in quest'occasione accolta  p178 da Spoleto con grandi feste e pur con manifestazioni di simpatia: ottimo il ricordo che aveva lasciato di sè.JJJ Ma si trattenne solo due giorni. Ferrara era lontana; e là c'era Alfonso e grandi feste l'aspettavano. Sisa che vi giunse il 2 febbraio.

Ma è noto che con la morte di Alessandro VI precipitò addirittura la fortuna dei Borgia, che, anche per reazione, furono spazzati via. E Giulio II si affrettò a sbarazzarsi anche di questo cardinale Lodovico e a sostituirlo, nei primi del 1504, con un proprio fratello, appunto quel Bartolomeo della Rovere nipote di Sisto IV che, come abbiam visto, era venuto già nel 1478 a Spoleto e che, giovane di bell'aspetto e di tratti gentili, molto aveva giovato a smussare alcune asprezze nei rapporti tra la città e l'iroso Sisto IV. E governò saggiamente fino al 1509.

Magari vi fosse rimasto! — Ma papa Giulio volle nominare Legato di Perugia e dell'Umbria il card. d'Urbino; e, perchè suo fratello Bartolomeo non ne risultasse in condizione di soggetto, s'indusse a richiamarlo da Spoleto, al cui governo provvide con un luogotenente, tal Antonio De Conciliis. E questo non fu bene.

Se pur di luogotenenti altri ce n'eran stati già a Spoleto, essi vi avevano esercitato opera sussidiaria e in rappresentanza di un governatore titolare. Così infatti era avvenuto anche con Giovanni Borgia (il melfiense), il quale però, nonostante la successiva sua nomina a Legato in questa regione, se anche gli occorse di valersi, per governar la città, dell'opera di un fiduciario e suo luogotenente — l'Oliver, —  p179 tenne a conservar rapporti diretti e di persona con Spoleto. — Con questo provvedimento di papa Giulio e del card. d'Urbino il caso era diverso: l'ufficio traditional di Governatore, risultava, più che assorbito, ufficialmente eliminato e soppresso nella diversa e più lata giurisdizione del Legato. A quell'ufficio si sostituiva così una luogotenenza. E per di più vi si mandava persona quasi sconosciuta. — Chi era mai questo signor De Conciliis, che veniva a prender questo posto: un posto già tenuto da personaggi tanto cospicui?

E in questo la città di Spoleto riconobbe una sua menomazione. E, tanto le sembrò ingiusta e sgradita, da indursi ad elevarne formale doglianza al papa "per essersi in tal modo — così riferisce il Sansi dalle Riformagioni — violata la tradizione di esser retta, com'era costume, da personaggi consanguinei al papa". — Certo si violava una regola sanzionata da secolare osservanza.

Ma sisa che papa Giulio, sempre tenace nel suo forte volere, fiero nel sentimento della sua grandiosa regalità, era tutt'altro che adattato a rimuoversi dalle sue impuntature. Non vi consentì: e Spoleto dovè rassegnarsi.

Notevole che allora, — circa il 1512, — ad integrare la potenzialità militare di questa Rocca, vi fu impiantata, per commissione di Giacomo Lauri, un'apposita fonderia di cannoni, affidata a tal mastro Cristoforo Angeli, di Montesanto.

Ma nel 1513 — chi sa qual sospirone di sollievo ne avran dato gli Spoletini! — anche Giulio II dovea cedere le armi e passare a miglior vita.

E molte furono le speranze sul nuovo papa — di tipo diverso — Leone X.

 p180  Il quale già aveva avuto occasione di conoscere Spoleto. — Vi si era trattenuto circa tre giorni, nel giugno del 1511, come cardinale al seguito di Giulio II (pag. 136), e aveva partecipato in questo Duomo ai vesperi e alla missa papalis del Corpus Domini e pure alla solenne processione con la magistratura cittadina.JJJ — E si mostrò benevolo con Spoleto. Dopo aver procurato di placare le turbolenze che agitavano la città anche in conflitto con paesi vicini, inviava nel 1514 a Spoleto come Governatore messer Pietro di Nicolò Ridolfi, suo cognato perchè marito di Contessina, figlia, come lui, di Lorenzo il Magnifico — il qual Ridolfi ebbe, se non altro, il buon gusto di far adornare dallo Spagna la Rocca col delizioso affresco — la Madonna fra quattro santi — che è una delle più squisite cose di questo pittore nel periodo sereno e che, certo, va riferita ad iniziativa di questo messer Ridolfi perchè suo è lo stemma che fra due bellissimi angeli, veramente raffaeleschi, campeggia nella sovrastante lunetta.

Benemerenza simpatica, questa: però minorata da altri gravi difetti, per i quali tanto risultò malviso a Spoleto, che, nell'arringa del 15 febbraio 1516, si deliberò, quasi all'unanimità, di far istanza al papa perchè lo richiamasse. E Leone X vi consentì, e in sostituzione di lui mandò il pro nipote, Lorenzo de' Medici, duca di Urbino e, poco dopo, con precisa nomina di Governatore di Spoleto, Lorenzo Cibo, altro suo nipote perchè figlioo di Maddalena che gli era sorella; ed ebbe per liuiGian Battista Buonconte, Gian Paolo Tisi e Andrea Cibo.

 p181  Poi Adriano VI (Adriano Florisze di Utrecht, 1522‑23, che è stato sino ad ora — e speriamo che così possa esser per sempre — l'ultimo papa non italiano), rimossone il Cibo, mandò a governare la città ed a custodir la Rocca "un gran signore spagnolo", don Alfonso Cardona (1522), giovane saggio e pur di grande ardire che, in uno scontro per le tante sciagurate lotte tra paese e paese, impegnatosi di persona, e valorosamente, a capo di un gruppo di Spoletini, rimase ucciso. E molto fu lodato e rimpianto. — A lui succedeva (1523) Giorgio Cesarini, gonfaloniere di Roma, mandato da Clemente VII.

Quattro anni dopo, tra le tristi vicende della disorientata e traballante politica di Clemente VII e la sciagura di una prima occupazione di Roma, per tradimento dei Colonnesi e, poi, il suo spaventoso saccheggio; superati i pericoli da cui anche Spoleto si sentì minacciata da perso dall'esercito del Borbone e pure un triste periodo di malgoverno del Vicegovernatore o luogotenente Giacomo Must I di Roma (che fu costretto di forza a rinchiudersi nella Rocca, donde, rinunciato a ogni ufficio, gli fu consentito di allontanarsi con salvacondotti), Spoleto ebbe per felice scelta di Clemente VII, la fortuna di un ottimo Governatore: Fabio Petrucci, già signore di Siena.

Venuto a Spoleto insieme a sua moglie donna Caterina (1527), fissò, anche lui, la residenza nella Rocca. e, per quanto ancor giovane, svolse opera saggia e assai propizia alla pace e anche all'incremento della città. Ma nell'agosto del 1528, essendo partito con duemila soldati spoletini verso Foligno per procurar di far salvo il territorio dalle incursioni che potean temersi dagli imperiali, improvvisamente  p182 si ammalò; e morì prima di poter ritornare a Spoleto. Grandi le onoranze tributate alla salma, qui ricondotta con consenso di Lodi.

Tanta la reverente riconoscenza alla memoria sua, che si giunse a consentire alla vedova di lui donna Caterina di tener ancora per qualche tempo il governo della città.

Ecco dunque un'altra donna, dopo Lucrezia, in tale ufficio; ma con spiccato carattere di precarietà; però, anche questa volta, con la sanzione del papa che, con Breve 2 ottobre 1528, annuendo ai voti della magistratura spoletina, concedeva il suo consenso. E donna Caterina corrispose a tanta fiducia: certo fece del suo meglio.

E strana corrispondenza: anche lei, — come pur Lucrezia a Ferrara, quando, cambiata di abitudini e di ambiente, divenne zelatrice di severi costumi, — anche lei, donna Caterina, si diede un gran da fare a disciplinare e limitare, qui a Spoleto il lusso, specie quello femminile, regolando con severe sanzioni la prammatica delle vesti muliebri e delle doti. — Proibito che le vesti e sbernie e persino le pianelle fossero di broccato; niente catene d'oro; al massimo tre anelli. E le doti misuratissime. Commesso ai birri di spogliare anche in piazza — ecco un provvedimento, forse spassoso, ma che ora si potrebbe dire azzardato, per quanto semplificato, — le donne che vi trasgredissero. E non meno strano è che il papa Clemente VII — pensate, un de' Medici! — sanzionò tali provvedimenti con la sua autorità anche spirituale, comminando persino la scomunica "da non potersi rimej che in articulo mortis".

E chi sa a quante altre cose avrebbe messo mano il buon volere di questo governatore in gonnella.JJJ

 p183  Ma nel 1529 il successivo pontefice Clemente VII (Giulio de' Medici) affidava questo duplice ufficio al suo stretto congiunto Alessandro: stretto congiunto, cugino, se come molti ritengono, uno spurio di Lorenzo II; strettissimo, se è vero, come affermarono il Varchi ed altri, che fosse un suo bastardo.

Comunque, bieca e malaugurata figura, quest'Alessandro, inserita nella balbuziente politica, — irrequieta come tanto spesso son le cose degli abulici, — di questo non cattivo, ma sì nefasto pontefice, che attirò su Roma o non seppe evitarle la tremenda sciagura dello scellerato "sacco" inflittole dal borbone (1527)JJJ e diede Libia mani legate al prepotere di Carlo V e della Spagna. E si sa come, e quanto, per oltre due secoli, questi ne abusarono. E Alessandro ne ottenne, purtroppo a prezzo di tanto eroico sacrificio della città sua e del triste epilogo di Gavinana (30 agosto '30), di farsi signore di Firenze.

Appunto nello stesso anno di quella sciagura di Roma e un anno prima della tragica fine di Ferruccio, egli fu investito di questo ufficio a Spoleto. E si capisce che, tenuto lontano da quelle sue tante, tantissime brighe, molto lasciò fare, in primo tempo, anche a donna Caterina PetrucciJJJ e poi al suo luogotenente Fattiboni, di Cesena — che non si condusse male.

Gli Spoletini ebbero però occasione di vederlo in persona tra loro: e fu il 12 settembre 1530, quando, con numeroso seguito, egli attraversò l'Umbria per andare in Germany a salutarvi Carlo V, divenuto suo suocero per averne ottenuta in moglie la sua figlia spuria, Margherita.

 p184  Succeduto a Clemente VII nel 1534 Paolo III (Alessandro Farnese — ci sisa come e quanto avean lavorato a preparare la tiara le carezzose mani di sua sorella, la bella Giulia), anche lui, al solito, si affrettò a rimuovere dal Governatore di Spoleto quel parente del suo predecessore e a sostituirlo con un proprio congiunto: suo nipote Alessandro Farnese, il quale inviò a suo rappresentante il vescovo di Sora, che fu, sì, brava persona, ma di temperamento debole, e capitato qui in un periodo troppo difficile. Senza pace era la città per le accanite lotte tra i Gentiletti e i Berardetti, tanto che l'anno successivo, venuto, di passaggio, Paolo III a Spoleto, si convinse della necessità d'inviare, per rimettervi un po'  d'ordine, un personaggio più energico. E a ciò prescelse un uomo ricco d'autorità e di risorse, però altrettanto scarso di scrupoli: il suo bastardo, poi legittimato, Pier Luigi (che giustamente il Gregorovius definì "mostro morale come Cesare Borgia, senza averne l'ingegno"), già da lui fatto signore di Montalto e di Frascati, poi Gonfaloniere della Chiesa e successivamente duca di Castro e di Nemi e più tardi Signore, oltre che di Parma, anche di Piacenza, ove, nel 1547, fece la fine che meritava: morì per mano di un sicario.

Grande dunque, se non la moralità, l'autorevolezza di questo signore, che venne nel 1536 a Spoleto — nella Rocca — come Governatore. E "questo malvagio — scriveva il Sansi — ebbe la virtù (meglio sarà direct la fortuna, o l'abiltà), che gli onesti non avevano avuto, di pacificare i contendenti, togliere di mezzo gli odî e rendere alla città la quiete. Tra tante voci che maledissero la sua memoria quella degli spoletini potè a ragione benedirla". — Meno  p185 male. Ma chi sa se questa voce benedicente avrà poi potuto giovargli là su, ove è il redde rationem, e farlo salvo questa modesta postilla chiara nel libro Nero dei suoi peccati?

Finalmente un po' di pace per Spoleto. Ma tre anni dopo sopraggiunse il rifiuto dei Pergidi pagare l'aumento imposto sulla tassa del sale. Troppo salata, dicevano: e non vi si adattavano. — Tempi diversi, si capisce, e lontani. — E ne seguì, nientemeno, una guerra: vera e propria e assai grave guerra, che appunto fu detta la "guerra del sale". Vi risultò coinvolta anche Spoleto, poichè contro Perugia, dichiarata ribelle e colpita d'interdetto, mossero in armi le milizie pontificie al commanda di Pier Luigi Farnese: e a queste dovettero associarsi pur quelle di Spoleto.

Perugia ne uscì vinta e dovè rassegnarsi all'amaro balzello. E peggio fu che ne derivò a Paolo III l'idea che, a prevenir qualsiasi altra ripresa di spiriti ribelli perugini, fosse necessaria cautela disporvi a guardia una poderosa rocca. E appunto così fu allora decisa e commessa al Sangallo, la "bella dai rotondi fianchi rocca Paolina", che "co' baluardi e i sproni a sghembo . . . cinse di torri un serto all'orgogliosa" Perugia, — che ne sentì poi per secoli il peso e la minaccia. E, purtroppo, fu terribile nel giugno del 1859.

E in proposito è interessante ricordar questo: che, a munire questa nuova fortezza sollecitamente di artiglierie, si provvide con quelle che potero esser fornite dalla Rocca di Spoleto.JJJ

 p186  Salito poi al soglio Giulio III (Giovan Maria Ciocchi del Monte Sansavino — 1550‑'55), ecco un'altra delle solite sostituzioni famigliari nel Governo di Spoleto. Papa Giulio vi mandava il suo fratello Baldovino. Brava persona, ma che poco fece, poco concluse. Bordeggiò alla meglio tra le violente mareggiate delle discordie cittadine, fattesi ancor più aspre per aggrovigliate alleanze con altre famiglie paesane, tra i Berardetti e il Gentiletti.

Morto, nel '55, anche questo Pontefice, e tramontato rapidamente l'effimero pontificato — appena ventidue giorni — di Marcello II, risultò eletto Paolo IV (Giovan Pietro Caraffa), ci fu concessa la fortuna di veder fatto pieno e sicuro il trionfo della Chiesa di Roma sulla Riforma.

E, anche lui, come suo primo provvedimento per il governo di Spoleto, si affrettò a rimuoverne il Baldovino, parente del suo predecessore, ed a sostituirlo con uno dei suoi nipoti. Giovanni Caraffa, già da lui fatto duca di Palliano, conte di Montorio, oltre che arricchito di tanti altri cospicuo benefici: quello assicuratogli come Prefetto delle galere pontificie gli fruttava, da solo, 72 µila scudi all'anno. Ed era gli scudoni, veri, di quel tempo.

Uomo di gran conto e, allora, in gran fortuna — che però, vedremo, scontò con una sciaguratissima fine, — si capisce che l'investitura di quest'ufficio fu per lui, più che di fatto, titolare, però, bene inteso, con le relative prebende. E qui mandò come suoi dlgi Cesare Albino di Città di Castello e poi Michelangelo Sorbolonghi di Fossombrone. E la loro amministrazione non fu cattiva per Spoleto, chè, anzi, in mezzo a quel cronico malanno delle  p187 tre di parte e di lotte extradite paese e paese, trovò il modo di dominarlo, e anche procurare importanti mgliorie all'edilizia cittadina.

Ma quattro anni dopo, nel decembre 1559, ecco un nuovo papa, — Pio IV (Angelo Medici, di Milano) — e al solito a Spoleto una nuovo governatore.

Niente di straordinario, sembrerebbe. Ma invece vi si manifestò un cambiamento addirittura, sostanziale. Anzichè di persone, d'indirizzo. D'indirizzo e di sistema rispetto al nepotismo, di cui abbiamo visto queste e quali, anche qui, erano state le affermazioni. E di tale cambiamento la storia riconosco il merito, d, appunto a Pio IV.

Per suo deciso volere — energico fin troppo; e lo seppero, come vedremo, i Caraffa, nipoti del predecessore suo, e primo di essi quel Giovanni, già governatore di Spoleto — il traditional nepotismo, inteso alla conquista o all'integrazione di dominï politici, venne a cessare.

Certo ne avean preparato la finei nuovi tempi, il nuovo clima storico e più ancora, con la repugnanza ai ttji eccessi a cui si era trascorso, quella ripresa di austerità che fu condizione necessaria e decisiva a che la Controriforma potesse riuscire a far pieno e sicuro il trionfo della Chiesa di Roma. Ma di questo rinnovamento, per così dire, antinepotistico, gran parte di merito fu certamente di questo saggio pontefice, Pio IV.

Con lui e per lui il nepotismo cessò di esser quel che era stato, almeno da oltre un secolo sino allora, cioè una successiva vicenda di prepotenti intrighi politici per l'arrembaggio o l'aiuto alla conquista di principali e di egemonie politiche. E ne abbiam visto le ripercussioni anche a Spoleto. Ma da Pio IV in poi, se pur ne rimase un qualche strascico, — chè la storia, specie in mutamenti come questi, non suole interrompersi con distacchi netti, ma procede per gradi, — quel tanto che ne sopravvisse si limitò ai segni di una predilezione fiduciosa e, tutt'al di più, di una qualche solidarietà famigliare. Solo più tardi si manifesterà una ripresa, ma con carattere del tutto diverso e assai meno pericoloso: cioè un nepotismo, non più inteso a fraudolenti e battagliate conquiste politiche, ma invece, per così dire, patrimoniale, destinato, più che altro, ad arricchire e far meglio capaci di fastosa rappresentanza le famiglie emerse successivamente in primo piano con l'ascensione al soglio di uno dei loro rappresentanti. Che fu sì, incitamento al lusso e anche, con gli ozi, a mollezza, ma pur benemerente per le arti con un propizio e prodigo mecenatismo. E questo culminò poi di fatti nel Seicento, per scomparir poi definitivamente, con Clemente XIV, sulla metà del Settecento.JJJ Definitivamente, perchè quel che avvenne poco dopo con papa Braschi (Pio VI) alla fine di quel secolo, per l'eccessiva sua indulgenza alle tanto indiscrete ambizioni e cupidigie dell'ingratissimo suo nepote don Luigi Braschi Onesti, fu un episodio eccezionale. Il nepotismo pontificio — anche quello patrimoniale — sparì per sempre con papa Ganganelli. Ne più è risorto per virtù e per scrupolo dei Papi successivi. E chiari affidamenti assicurano che non risogerà.

Pio IV ebbe il merito di avere iniziato questo rinnovamento deciso e decisivo; decisivo, anche se, almeno in un  p189 primo tempo, potè apparire con un qualche carattere di transizione.

Però, anche, come tale, si affermò con una scossa un po' brusca. E i primi a risentirla — e duramente — furono i nipoti di Paolo IV, che ne furono travolti — e proprio quel Giovanni Caraffa, già governatore di Spoleto, che, per le svariate modificate che gli furono attribuite (specie per la spietata crudeltà con cui si ritenne che avesse fatto morire sua moglie o, forse più veramente, per i tristi suo intrighi nella planet a danno della Chiesa, allora in contrasto tra la Spagna e la Francia) fu destituito d'ogni sua carica: oltre che dal Governorato di Spoleto, da quella di generale delle milizie della Chiesa e di PRefetto delle Galere: e, peggio ancora, fu processato, condannato e giustiziato a Castel San Angelo. E la stessa fine toccò pure al fratel suo, card. Carlo.

C'è chi ritenne che di tanta severità questi due Caraffa non fossero meritevoli e che le accuse, specie quelle contro il card. Carlo, fossero una montatura per un'orribile trama politica del fiscale Antonio Pallantieri, asservita alla Spagna, contro la quale il card. Carlo, si era, a prò di Francia, troppo ostilmente compromesso. E di ciò si dimostrò poi convinto anche Pio V, il "santo", col dichiarare solennemente ingiusta e nulla quella sentenza. Tarda però questa riabilitazione, perchè postuma, — di cui il card. Carlo avrà potuto compiacersi soltanto da lontano, dal cielo, se pur vero che ne avesse meritato l'accessit.

Ma per Giovanni, il governatore di Spoleto, per lui, niente. A lui mancò una qualsiasi prova, sia pur teorica, di successive resipiscenze a favor suo. — Sembra proprio che non la meritasse.

 p190  Certo è che la serie dei congiunti pontifici, legati da tanto specifici e diretti rapporti col governo di Spoleto fu, almeno in tali ultimi suoi elementi (basta ricordare Pier Luigi Farnese e, prima di lui, Alessandro de' Medici), tutt'altro che edificante.

Ma ecco che, come a compenso, vediamo prenderne il seguito, per nomina appunto di pio04, il fratello di un santo, Federico Borromeo (1559) e poi, nel 1562, un santo autentico e glorioso, veramente ammirevole per ingegno e per virtù, quanto per energico zelo nel buon volere: San Carlo Borromeo. E queste nomine si ricollegano appunto a quel rinnovamento impresso da pio04: e ne furono le prime affermazioni.

C'era, sì, anche in questa scelta ancora un qualche strascico del nepotismo; anche questi due Borromeo erano nipoti di Pio IV. Ma neanche per sogno si possono intravvedere in tali nomine mire politiche e il proposito di favoreggiamenti a conquiste di potere: sappiamo che Carlo Borromeo, già investito di tante cariche e pur di alte giurisdizioni riccamente redditizie, a tutte rinunciò per poter meglio dedicarsi al suo compito episcopale.JJJ In questa sua nomina spoletina i vincolifamigliari si affacciavano a rapportare soltanto un elemento di più intima e fiduciosa cooperazione.

Questi due Borromeo non potero venire qui a coprir il loro ufficio di persona (già da due anni, nel '60, il card. Carlo era stato investito dell'Arcivescovato di Milano), e vi provvidero a mezzo di vicelegati: tra questi, il conte Annibale d'Altemps altro nipote del papa.

Però lo stesso card. Carlo — San Carlo — non si tenne del tutto estraneo agli affari di Spoleto. Ne è prova una lettera da lui inviata, con la sua firma autografa, il 1 maggio 1563 al suo vicelegato a Spoleto, mons. Atracino, con precise disposizioni inerenti al governo della città. E si conserva in vista ed in onore in questa Pinacoteca.

Pio V — il Santo: Antonio Ghislieri — si affrettò anche lui a sostituire persone di sua fiducia in questi uffici di Spoleto. Ma niente nipoti, e neppure dei congiunti.

E cominciò col mandarvi come "Governatore absoluto" l'E.mo Cristoforo Madruzzi, detto il Cardinale di Trento, che, al suo arrivo in città (14 nov. 1566), fu accolto con calorose feste e grandi onoranze, archi di trionfo etc. Molte le speranze riposte in lui per la pacificazione, commessagli dal papa, delle eterne discordie, funestate spesso di sangue, tra i gruppi sempre più avversi di queste potenti famiglie: i Gentiletti, Martani, Scelli, Berardetti e Fontana. E le speranze non furono deluse.

Ma non molto si protrasse la permanenza del Madruzzi: appena unao. E a lui succedettero, in tale ufficio, Giovan Francesco Andreoli di Gubbio (1567), Priamo Pettinari di Alessandria (1568), Nicolò Visconti conte di Lonate, milanese che ha lasciato di sè ricordo epigrafico, con il suo stemma — la biscia Viscontea, — sormontata dall'impresa araldica di Pio V, in un tondo nel parapetto settentrionale del loggiato nella Corte d'onore.JJJ

 p192  E dopo di lui venne a Spoleto, nel 1569, il celebratissimo giurisconsulto Giovan Battista Bajardo, di Parma, (che vi ritornerà 17 anni dopo, inviato da Sisto V) e poi, nel 1571, messer d'Aragona, di cui è fissato il ricordo in una bella porta perso l'angolo nord-est del loggiato superiore con, sull'architrave, scolpito il suo nome come governatore e un cenno di devozione a Pio V.

Nel 1562 saliva al soglio Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, di Bologna). Molte le sue benemerenze, tra cui, sisa, anche la riforma del calendario, e pur grande la sua dottrina; però menomate da un'eccessiva debolezza di carattere che purtroppo rese sterile, con i molti tentennamenti, il suo buon volere. Mai come allora — se appena se ne escluda il più torbido medioevo — imperversarono negli stati pontifici con tanto tristi eccessi le violenze di ogni specie, truci e sanguinose. Anzi, a differenza del medioevo e del secolo precedente, assunsero le caratteristiche di una specie di brigantaggio: brigantaggio, bene inteso, in grande stile, con a capo uomini capaci, sì, di ogni malvagità, ma pur con tanto fegato da stare a paro con i più azzardosi ed esperti capitani di ventura. Roma stessa ne fu rattristata, infestata; ma addirittura desolata questa regione e più ancora il territorio di Spoleto.

Di Spoleto e di nobile famiglia cittadina fu appunto uno dei più famosi, per triste fama, di siffatti campioni, Petrino Orsini Leoncilli, che giustamente il Montaigne definì "le plus noble bani volur d'Italie".JJJ E ci occorrerà  p193 di ricordare poi una delle sue tipiche gesta, appunto a Spoleto e nella Rocca.

Anche Gregorio, subito dopo il suo avvento, si affrettò a provvedere al Governo di Spoleto con una persona di sua fiducia; l'E.mo Guido Ferrero, cardinale di Vercelli, cui seguì, nel 1578, un'ibrida affermazione nepotistica con l'invio a tale ufficio di un suo nipote, il card. Filippo Guastavillani, che venne a soggiornare nella Rocca. Però per breve parentesi e, quasi si sarebbe indotti a riconoscervi una specie di ristoratrice villeggiatura. — Salubre e deliziosa l'aria che dall'ampia chiostra vola ad alitare intorno a questi spalti; vivificante quella che, come inebriata di verde, cala a loro delizia dal Monteluco.

Intanto — già si è accennato (pagg. 67‑68), ma è opportuno ricordarlo — il Bajardo e il D'Aragona (governatori a tempo di Pio V) e poi Ventura Maffetti luogotenente nel 1577 del Ferrero avean curato importanti restauri ed abbellimenti nella Rocca, a quanto sembra con costruzioni e pure con pitture. Quali fossero questi nuovi lavori non sappiamo; delle pitture sussistono tracce nel loggiato; e chi sa quante può avercene nascoste lo zelo igienico, ma iconoclastico, degli imbianchini.

Ed eccoci a parlare di Petrino Leoncilli che, ritornato da poco — in sul finir del 1579 — dalle Fiandre, si era dato ad imperversare nel territorio spoletino.

Lungo sarebbe il racconto delle sue tante malefatte. Però eccone una che, non soltanto dà la misura di quali scellerati ardimenti era capace, ma che pure ha speciale riferimento a questa Rocca.

 p194  Contro Petrino, già colpevole e temuto per tante rapine e assassini perso Spoleto, eran state bandite forti taglie, e accanita ne era la caccia. Però, anzichè essere indotto ad andarsene, il suo audace spirito ribelle più lo teneva attaccato a queste terre: allontanarsene gli sarebbe sembrata la viltà di una fuga. Meglio spingervisi ardiatamente, spargendo il terrore con spaventose vendette. E a bersaglio ne scelse Giovangeronimo e Alimento Martani. Sigismondo Benedetti, Simone Soldoni ed altri spoletini e loro amici, da lui odiatissimi: di un odio non placato nemmeno dall'eccidio, da lui stesso perpetrato, nel settembre del 1579, di Eurialo di Campello cognato del Martani. Però questi gli sfuggivano; e i genitori loro e i parenti più vecchi, a scampar dal pericolo, si erano rifugiati nella Rocca. Colpire almeno questi si propose il Leoncilli: colpirli anche là su.

Disperata, oltre che pericolosa, era l'impresa. Ma Petrino non era tale da spaventarsene. — Ed ecco che la sera del 21 febbraio del 1580 si presentava al bargello di Spoleto una spia a confidargli, in gran segreto, il luogo ove, perso Pontebari, avrebbe potuto sorprendere Pietrino e catturarlo, e così guadagnare la grossa taglia. Figurarsi il bargello! Pronto aduna una trentina dei suoi sbirri, e con essi corre al luogo designato. Ma quella misteriosa denuncia era un tranello, disposto dalla malizia di Pietrino. La spedizione incappò in un agguato; e tutti, bargello e sbirri, furono da Pietrino Gaius prigionieri.

Era così assicurato un primo punto della partita. Ed eccone il seguito. — Legati quegli sbirri e lasciatili in sicura custodia, Petrino prese con sè quel loro capo e con alcuni suoi più arditi venne, a notte inoltrata, a Spoleto e, risalita  p195 la città, giunse alla porta della Rocca, chiusa e vigilata. Ma ivi, con lo stocco alla gola, costrinse quel povero diavolo a chiamar, lui, i guardiani e a farsi riconoscere dalla voce — "Aprite, che portiamo prigionieri d'importanza" —. L'inganno riuscì. Le porte furono aperte.

Breve la lotta col custode e con le guardie sopraffatte e catturate. E così, rimosso ogni intoppo, Pietrino potè correre nelle stanze, ove stavano a riposare i vecchi Martani e Benedetti. — "I due miseri vecchi, destati al rumore (riferisco dal Sansi), apersero gli occhi, chiusi al sonno, per richiuderli subito con una morte spietata. Fu anche uccisi Alimento Martani e Simone Soldoni, da lui tanto odiati e, dopo le tante ferite con cui i loro corpi vennero lacerati, ne furono troncate le teste e, quasi a sfida, portate e messe in mostra sulla fonte della piazza". E, fatti uscire dalla Rocca settantadue prigionieri, li sguinzagliò a far bottino nella città.

Quei poveri Spoletini persero così la vita. Il mentre che potesse seguirne per il Governatore di quel tempo, tal mons. Belluzzi — che sembra se ne stesse, come in licenza, a Roma — fu di perdere il posto: dichiarato inetto a tale suo ufficio, ne fu rimosso.JJJ

E allora fu mandato a Spoleto, a procurar di rimettervi un po' d'ordine, il legato card. Sforza, — robusto nome, du buon augurio in siffatti frangenti, — che di fatto, con provvedimenti energici, sin troppo, assestò il meglio possibile le cose. E tanto strinse da perso, con attivissima caccia e con numerose milizie, Petrino, così da indurlo a decidersi di cambiar aria. E ritornò, prima nelle Fiandre, poi, per amichevole mediazione del card. Ascanio Colonna vice-re d'Aragona, nella Spagna, e poi, nel 1620, in Portogallo.

Per chi avesse curiosità di conoscere l'epilogo della sua vita basterà questo: che nella Spagna combattè contro i Saraceni, e il suo valore fu motion lodato; nel 1640, vecchio di settantaquattro anni, ritornò in Italia, e, assolto di ogni suo debito con la giustizia, ottenne dal favore del Farnese Duca di Parma il governo dei feudi di Leonessa e Civita Ducale. Ivi, già vedovo e ottuagenario (!) si riammogliò con una giovane gentildonna — e così raggiunse in pace i suoi novantatre anni prima di decidersi, finalmente, il 29 giugno 1650, ad affidare l'anima sua a compiere, anch'essa, un'ardua prova: procurarsi il perdono dalla clemenza di Dio.JJJ

Proprio nell'anno in cui avvenne nella Rocca quella tristissima malefatta di Pietrino (1580), era passato per questi luoghi, diretto a Roma, con breve sosta anche a Spoleto, quel grande e simpaticissimo precursore del turismo intellettuale Franco-italiano, Michel de Montaigne, che, nel suo tanto interessante diario — Journal de voyage en Italie, — annotava appunto le noie e le preoccupazioni per la presenza e la scorribande di Pietrino; e se ne mostra assai seccato; ciò che non menomò la sua ammirazione per questi luoghi.JJJ

Altri governatori durante il regno di Gregorio XIII: Orazio Marzari (1582), Constantine Arrigoni ('584), e poi, nell'85, Ascanio Jacovacci, — da non confondere con Leone de' Massimi Jacovacci, venutovi assai più tardi, nel 1686.

 p197  Nel 1585 moriva Gregorio XIII. Ben diverso e di altra tempra il papa che gli succedeva: Sisto V. Il quale, sbrigatosi, tanto per cominciare, — appena due giorni dopo la sua incoronazione, — appunto di un gentiluomo spoletino, che fece decapitare, chi sa se anche per merito di siffatto promemoria, si affrettò ad occuparsi — per fortuna altrimenti — di Spoleto e del governo suo. E, dimessone il Jacovacci, vi mandò di nuovo quel tal referendario Gian Battista Baiardo che, come abbiam visto, vi era stato un'altra volta a tempo di Pio V, nel 1569, e vi aveva fatto buona prova. Poi, come a rinforzo, inviava quale legato un'altra conoscenza di Spoleto: l'E.mo Cristoforo Madruzzo, card. di Trento, che riuscì a concludere e celebrare un atto solenne di concordia delle principali famiglie di Spoleto, già tra loro sì irrequietamente ostili. — Se alquanto brusco era stato quell'inizio, il seguito fu dunque buono. E bene si condusse anche il successivo governatore Girolamo Gnevo da Brescia (1588). Al quale succedè, lo stesso anno, Francesco Liparolo, vescovo di Capri che, a far fecondo quello stato di pace, procurò di dare incremento ai commerci, favorendo, con esenzioni di dazi, fiere e mercati. E si ha notizia che abbia, anche lui, curati importanti risarcimenti alla Rocca. Probabilmente alle precinzioni.

Ed ecco, con un nuovo papa, Clemente VIII — Ippolito Aldobrandini, di Fano (1592‑1605) — di cui stanno a ricordo nella Rocca, fin sulla prima porta, lo stemma ed un'iscrizione, che deve esservi stata apposta in occasione del suo passaggio per Spoleto nel recarsi a Ferrara; ecco una nuova serie di Governatori.

 p198  Come avrete osservato, alla diminuita importanza dell'ufficio di tali funzionari si era andata associando una minor durata nelle rispettive attribuzioni, e la vicenda ora ne risulta frequente e numerosa, quasi annuale. Lo abbiamo visto nella serie degli inviati dagli ultimi pontefici: tale è pur questa sotto il regno di papa Clemente.

Primo di essi quel mons. Innocenzo Malvasia, che già vi era stato nel 1587, a tempo di Sisto V, come "visitatore apostolico", e poi, subito dopo (1592), Giovanni Caracciolo, al quale succedettero lodevole Sarego ('594) e Gian Battista Volta, di Bologna ('595).

Poi, in 1599, venne l'e.mo Cinzio Aldobrandini, Card. di San Giorgio, nipote del papa, che tenne quest'ufficio a mezzo di tre successivi suoi luogotenenti (Marcantonio Martinengo, nobile di Brescia; Fabrizio Perugino, vescovo di Terracina, e Prospero Bisconti di Sinigaglia), e che rimase titolare di questa carica sino alla morte di suo zio (1605). Anche di lui sta a ricordo uno stemma sulla prima porta del recinto della Rocca, accanto a quello di papa Clemente.

Siamo così giunti ai primi del Seicento, al pontificato si Paolo V (Camillo Borghese, 1605). — Quello di Leone XI, di appena ventisette giorni, nell'aprile di quell'anno, fu troppo breve perchè occorra parlarne.

Ed ecco nel regime del governo di Spoleto e della sua Rocca una novità.

Gli Spoletini chiedono che dal governo della città sian d'ora in poi esclusi i congiunti dei pontefici: e lo chiedono essi che, come abbiam già visto, erano insorti anche contro  p199 papa Giulio II per rivendicare come privilegio traditional appunto il contro.

È una novità, che sembra un salto, anzi una contradizione, con insito un qualche spirito di scontento e come di fronda. Ma contradizione non è, e tanto meno astiosa. È invece logico risultato di una evoluzione, i cui elementi si erano andati affermando con un progressivo rinnovamento delle condizioni di fatto.

Pensate quale e quanta era stata l'importanza di questa Rocca e, con essa, di questo centro strategico e politico nel primo secolo ed oltre di sua vita. La sua invulnerabilità quasi assoluta doveva farla giudicare, allora, preziosa e, perchè tale, ambìta, cm base di sicura potenza a chi la tenesse in mano quale padrone. Ma poi che i nuovi mezzi e sistemi di guerra le avean tolto questo privilegio, se ne era ridotta via via l'importanza a quella di un elemnto di difesa locale o, tutt'al più, di una qualche remora a eventuai incursioni. E perciò tenuta in minor conto. Nè le prebende che vi erano annesse, anche se notevoli, erano tali da darle credito cm risorsa importante.

Per quest'insieme il suo= valore era scaduto così da non poter più ipotecare l'attività e vincolare a questa sede la presenza di personaggi di alta importanza, e altrimenti impegnati, cm quei factotum parenti stretti di pontefici.

E, come abbiam visto, ne era derivato, sino a divenir abuso consuetudinario, un altro inconveniente, grave: che gli investiti ritenevano tali uffici soltanto come beneficiati e titolari, delegando l'esercizio delle relative funzioni effettive a "luogotenenti", di loro fiducia.

 p200  E da un primo periodo di casi eccezionali quest'espediente era a poco a poco divenuto la regola.​JJJ — Pur non avendo creduto opportuno il trito e lungo lavoro di dar notizia di tutte le sostituzioni, tuttavia ci è occorso di vederne parecchi esempi: basti ricordare i tre luogotenenti che qui vennero successivamente per conto dell' Aldobrandini. E numerosi erano stati quelli di Pier Luigi Farnese; sei quelli di Baldovino del Monte, fratello di Giulio III.

Così quei signori titolari finivano per rappresentare un elemento in più, non necessario, Anzi spesso inopportuno, e che non sempre funzionava bene. Non bene nella scelta dei loro sostituiti, spesso determiNata da criteri personali estranei, se non plane ure in conflitto con gli interessi della città: peggio ancora la solidarietà che necessariamente doveva stabilirsi tra quei due elementi, e che non poteva fare a Meno d'intralciare la facoltà e il diritto della magistratura cittadina negli eventuali reclami all'authorità centrale governativa.

Anche la speranza che quei pezzi Grossi titolari giovassero molto a propiziar favori, se pur qualche volta avveratasi, aveva finito per rivelarsi una lustra.

Meglio dunque semplificare l'ingranaggo di quei rapporti; meglio esser governati da funzionari dipendenti direttamente dal potere centrale.

Ecco la ragion d'essere di quella novit`. D'ora in poi al governo di Spoleto niente più quel giuoco di sostituzioni, ma Governoratori immediati, veri ed effettivi, e con responsibilità diretta — sia pure con personaggi di minor levatura. E se anche avvenne, successivamente, che alcuni di tali governatori ricorsero, anch'essi all'opera di luogotenenti,  p201 questi ebbe carattere di Cosa eccezionale e di ripiego, sopratutto transitoria e, più che altro, di collaborazione.

E intanto quest'ufficio diveniva tanto prevalente in confronto dedicate quello di Castellano da assorbirlo, se non sopprimerlo effettivamente. Ma anche questa era una conseguenza della menomata importanza della Rocca come piazza militare: le funzioni di castellano avean finito per ridursi in quelle amministrative di custode o, tutto al più, di comandante di un ristretto numero di personale di Guardia, e come tali subordinate a quella prevalente del Governatore — tanto più, da che, cessato il sistema delle luogotenenze, la residenza Vera ed effettiva dei Governatori era ritornata la Rocca.

Prima di questa nuova e diversa serie di Governatori iniziata da Paolo Vi fu (1607) Giulio Savelli, della casta romana sì potente nel Medioevo, al quale succedette, l'anno doppo, Domenico de Marinis di nobile famiglia genovese e, poi, mons. Paolo de Curtis, vescovo d'Isernia. Poi vennero Scipione Benadducci di Tolentino (1610); Giannantonio dei Massimi, di Roma (161); l'e.mo Tiberio Cenci (1614); Pietro Valiero, patrizio veneziano, vescovo di Famagosta (1615); Alfonso Sacrati, di Ferrara (1616); Lorenzo dei Conti Campeggi (1617); Lelio Falconieri (poi cardinale); il conte Lucrezio Pepoli. . . . .

E la serie continuerebbe; e dovrebbe continuare con un lungo elenco; altri quaranta, circa, a completare solo quella del Seicento — diligentemente ricercati ed elencati dal Sansi nella sua Storia del Comune. Qualche nome, qualche bel nome: Francesco e poi Vitaliano Visconti (1624,  p202 1654), G. Battista Sfrondati ('36), Ottavio Caraffa ('36), il conte Gerolamo Codebò ('40),​JJJ Sigismondo Sciamanna ('73), Angelo Altemps ('84), Bernardino Inghirami ('76), G. Battista Salviati ('96).

E del Settecento eccone alcuni: alcuni soltanto dei venticinque che vi si succedettero, a cominciare dal patrizio veneto Valerio Rota (1700) all'ultimo, Pio Piacentini 1795: — Abbondio Rezzonico, patrizio di Venezia (avo di quel Rezzonico che nello scorcio del Settecento fu Senatore di Roma); Lazzaro Pallavicini, di Genova ('14); il conte Carlo Francesco Durini, di Monza ('27); Luigi Gualterio, di Orvieto ('35); Saverio Dattilo dei marchesi di Santa Caterina, di Cosenza ('40); Concetto Vinci, patrizio di Fermo ('54); Francesco Dentice dei principi di Frasso ('62); e poi Camillo di Costanzo dei duchi di Paganica ('75); Ignazio Serra dei duchi di Cassano ('77) etc.

Molte, dunque, le personalità cospicue, — anche se a partir dal medioevo il profilo della serie sembra che ne scivoli giù in linea decrescente. Molte e svariate, ma notevoli le figure succedutesi così nel governo di Spoleto.

E tutte, o quasi tutte, risiedettero nella Rocca. Se non tutti quei tali "titolari" della seconda metà del Cinquecento,  p203 almeno, anche allora, i rispettivi luogotenenti. Chè la residenza ufficiale era appunto la Rocca — nella quale, non soltanto, prima, Nicolò V, col Rossellino, ma pure il Baiardo, il d'Aragona, il Liparolo e poi anche nel 1673, lo Sciamanna, curarono adattamenti ed abbellimenti.

Così abbiam visto che era nei primi secoli della vita di questa Rocca (basti ricordare i Tomacelli, filipo Calandrini, Piccolomini, Conti, Riccio, i Borgia e Lucrezia Borgia); così fu di certo dopo, specie per la numerosa serie di governatori da Paolo V in poi. Tanto è vero — eccone una chiara prova — che quando il governatore Francesco Dentice principe di Frasso s'indusse nel 1764 a violar questa regola e "diede primo l'esempio di abitare in città anzichè nella Rocca", il Comune elevò aperto reclamo contro questa novità, denunciandola illegale e inopportuna.

Sì, ci potrà sembrare d'intravvedere questi signori, del Seicento e Settecento, in parrucca e spadino, atteggiati con eccessivo sussiego a ricevere l'incenso delle tante iscrizioni encomiastichee, sonore di seicentesca enfasi laudatoria, prodigamente sparse sulle severe mura della vecchia fortezza; sì, ci potrà parere che troppo solenni e pettoruti posino accanto a quelle loro imprese gentilizie. Però, vedete, con Vera signorilità e come in attesa di far gli onori ad un'adunata solenne.​JJJ

E magnifica è veramente l'adunata che, con lo sfoggio di tanti grandiosi stemmi marmorei o in una serie di affreschi di sì imponente monumento, il ricordo di tanti tra i più cospicui pontefici e le insigni casate loro.

 p204  Sin dal primo ingresso, sopra la porta che si apre sulla piazza, di questi stemmi ne campeggiano quattreo degli Aldobrandini (alla Banda doppiomerlata con sei stelle poste in Banda, in Capo e in punta). Quello sormontato dalla tiara con le chiavi decussate vi sta a ricordo di Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini, di Fano, 1592‑1605); gli altri, dei congiunti suoi e certo anche di quel suo nipote, l'E.mo Cinzio cardinal di San Giorgio, che fu l'ultimo dei Governatori nepotistici in Spoleto, e che tenne il governo della città dal 1596 sino alla morte di suo zio. (1605)

Sulla stessa porta c'è pure una lapide ad esaltare il buon successo per cui papa Clemente nel conflitto con gli Estensi riuscì a recuperare Ferrara alla Chiesa. Si same, infatti, che Ferrara, già facente parte degli Stati pontifici era stata da Paolo III, nel 1537, concessa in feudo al Duca d'Este e suoi discendenti maschi di primogneitura. Ma poi il Duca Alfonso II, essendo rimasto, purpose dopo the rest matrimoni, senza figli, chiamava a succedergli nella signoria Sulla città e sully Ducato il suo cugino Cesare, che di fatti ne assunse il governo. Clemente VIII gli intimò di ritrarsene; ma, poichè riluttava, mosse a discacciarlo con le armi. HE SAW appunto in tale occasione passò e fece sosta a Spoleto. — Sembrò inevitabile una grossa guerra; ma fu risparmiata. Il Duca Cesare, vista così grave ed imminente la minaccia, Venne a miglior consiglio: cedette Ferrara e si ritrasse nel suo feudo imperiale di Modena e Reggio. Fu questo, dunque, un importante e fortunato successo ottenuto dall'energia di papa Clement. E appunto sta a Farne ricordo la lapide allora qui apposta da Fabrizio Perugino, Vecovo di Terracina, vicegovernatore di Spoleto.​JJJ

 p205  Nei fastigi della seconda porta ben dieci sono i grandi stemmi che si adunano come in trionfo. In alto, Borgia Lenzuoli (Alessandro VI) ed altro consimile non tiarato nè con altri segni di dignità ecclesiastica (che si debba pensare a Lucrezia?). — Allineati più in basso, sul sommo dell'arco campeggiano quelli dei Piccolomini (Pio II), dei Parentucelli (Nicolò V) e, notate, di Urbano V, che primo, riportò se purpose non stabilmente, la sede pontificia da Avignone a Roma. E stanno alla sua destra due stemmi dei Della Rovere (Sisto IV e giuliu II). Più in basos, in mezzo al prospetto del sottarco della stessa porta, — alla destra di uno stemma con emblemi cardinalizi (alla Croce di S. Andrea accompagnata in Capo da un'aquila imperiale) che non mi è riusciro con sicurezza d'identificare, ma che sembra di un cardinale già commendatario di Sassovivo. — quello dell'Albornoz. Ancor più in basso un'iscrizione a ricordo di Clemente XI (Albani).​JJJ

Nel cortile d'onore, sull'architrave del pozzo si allineano gli stemmi dei parentocelli, (cioè di Nicolò V e della famiglia sua). (Tav. VII e pagg. 126‑'28). Così pure nel parapetto del loggiato, parete nord e nel primo ripiano delle scale. E poco discosto, sulla stessa parete, quello dei Ghislieri (Pio V).

Sulle torri, in alto di quella all'angolo sud-est, altro stemma dei parentocelli; in quella che rinsalda l'angolo sud-ovest lo stemma dei Cibo (Innocenzo VIII) e più in alto, a coronamento di una posterula del cammino di ronda che unisce queste due torri, spicca con Chiara macchia quadrata un altro stemma, che par sia anch'esso quello dell'Albornoz.  p206 E sulla Torre maestra, — la "Spiritata", — sullo spigolo sud-ovest trionfa, in alto, un'altro grandioso stemma tiarato del Cibo; e sully lato meridionale quello, anch'esso con la tiara, dei Colonna (Martino V, '413‑'431).

Nel loggiato, in una serie di affreschi monumentali onorari, stan gli stemmi dei Barberini (Urbano VIII), Lambertini (Benedetto XIV), Chigi (Alessandro VII), Farnese (Paolo III), Ghislieri (Pio V, il Santo), Giovan Francesco albanii (Clemente XI), Della Genga (Leone XII). E tanti, tanti altri sono gli stemmi e le iscrizioni che, o disposti in onore nel loggiato o negli architravi degli adorni portali qua e là aperti nei sec. XVIXVII, stanno a ricordo di quei nobili Governatori: Sciarra di Carbognano, Carlo conte di Montecatini, Vincenzo Codebò di Modena, Acquaviva d'Aragona, Nicolò Visconti conte di Lonate, Giulio Ungaresi, Degli Atti, Inghirami, Gian Francesco Negroni, Brancaccio, Angelo Altemps Baiardo, Sciamanna, Corrado Asinari, Sertorio Petrucci ed altri. E chi sa quanti — si capisce per chiari segni — ne sono scomparsi, o perduti o nascosti, sotto le imbiancature.​JJJ

Si è detto già che ne è stato rimosso il grandioso affresco dello Spagna in onore di Giulio II.

Ma dove questa tanto ricca e superba esibizione araldica assurge all'importanza di un significato storico di valore del tutto superiore è sui fastigi della bella porta munita, veramente gattaponiana che, vigilata dalle quattro torri che rinsaldano il cortile degli armigeri, immette nel "terzo recinto", ove sono raccolte le abitazioni, cioè proprio nel cuore del munitissimo edificio. Ebbene sovra questa porta, punto principale e delicatissimo della fortezza, stanno disposti affiancati  p207 questi due stemmi: alla destra quello tiarato dei de Grimoard (troncato, cuneato, nel primo d'oro, nel secondo di rosso) che è di Urbano V; — alla sinistra quello dell'Albornoz (d'oro alla banda di rosso). E son due stemmi genuini, antichi. (Tav. VII).

Vi si afferma così, con l'evidenza, più che di un simbolo, di una testimonianza tangibile, la verità che, forse, sarà potuta sembrare tesi troppo prediletta in questo mio studio: la verità della speciale importanza storica di questo monumento per la sua intima connessione — veramente, ripeto ancora, la sua ragion d'essere — con quel grande avvenimento storico che fu il ritorno della sede pontificia, da terre straniere, a Roma. Con una vicinanza, che ne integra e precisa il significato in una sintesi monumentale, questi due stemmi stanno ad esaltare il ricordo di Urbano V che, primo, dopo circa sessant'anni di quell'esodo nefasto, proclamò, il 20 luglio 1366, il proposito dell'abbandono di Avignone e ritornò, acclamato e benedetto, a Roma — ove il successore suo Gregorio IX fissò come definitivo un tanto trapasso (pagg. 20‑24); — dell'Albornoz che, assolvendo con tanto merito e fortuna la difficilissima missione, fu di sì importante avvenimento, il magnificio preparatore e provvidenziale cooperatore.​JJJ

Ed è bene ricordare ancora una volta (pagg. 21 e 147) che, con assoluta coincidenza cronologica con il ritorno di Urbano V a Roma, questa Rocca veniva consegnata in efficenza al Castellano per la Chiesa.

Dunque, oltre che tanto significativa, numerosa e veramente magnifica è questa adunata: Colonna, Parentucelli, Della Rovere, Cibo, Borgia, Piccolomini, Medici, Farnese, Ghislieri,  p208 Sfondrati, Aldobrandini, Chigi, Altieri, Odescalchi, Albani, Lambertini . . . . . Grandi nomi e grandi figure della nostra storia.

Bella serie, imponente; ricco e nobilissimo blasonario.

Quanto opportuno che ora vi si aggiungesse — e vi si troverebbe a suo posto, alto in onore, e, se purpose ultimo cronologicamente, potior in jure e, certo, anche nella reverenza nostra — lo stemma di un Savoia, e di un Savoia Aosta, — di S. A. R. il Duca Aimone, nel quale e per il quale Casa Savoia, memore della sua storia, che è tanta parte della storia d'Italia, ha rievocato il glorioso titolo di Duca di Spoleto!


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