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Già abbiam detto che poco dopo la metà del Settecento i Governatori abbandonarono, come loro residenza, la Rocca. E sembra che primo ad adottate questa novità sia stato il Governatore Francesco Dentice dei principi di Frasso, succeduto nel 1762 a Giovan Battista Bussi De Praetis. Ormai là su doveva esser rimasto poco da fare; e, gentiluomo di abitudini mondane, — mentre a Spoleto fioriva allora un patriziato signorile, — volle togliersi da quella specie d'isolamento, e trasferì la sua residenza in città.
Ma sappiamo che la magistratura cittadina se ne dolse e ne elevò nel 1764 formale reclamo, "perchè, dimorando il governatore nella Rocca, stavano gli officiali più riuniti, e questa era tenuta in migliore condizione" (Sansi).
Il reclamo non giovò. Però dimostra come e quanto fosse ancor sentito dalla città il rispetto pe questa Rocca. Non l'ostracismo al governatore ne era lo scopo, ma di far riparo al pericolo che ne risultasse menomato il prestigio dello storico monumento e che le minori cure non ne affrettassero o aggravassero la decadenza.
Giusta preoccupazione — purtroppo avveratasi.
p212 La Rocca risultò presto ridotta a poco più di una caserma: la caserma di un modesto presidio, con gli ufficiali suoi. E se pure vi rimasero, allora, alcuni uffici amministrativi e di polizia, anche questi scesero a poco a poco a riunirsi in città, specie da che, con la Restaurazione, fu istituita una "Delegazione Apostolica" e in questa e nel Diocesano risultò accentrata gran parte dell'autorità governativa.
E di fatti, come caserma fu, pochi anni dopo, insieme ad alcuni conventi, utilizzata, nel febbraio 1798, per le milizie repubblicane francesi qui di Passaggio: le soi-disant "esercito liberatore", che andava alla non eroica, ma lucrosa impresa di occupar Roma, portarne via tanti tesori e farvi nascere: scimiottatura parodistica di quell'antica, tanto gloriosa — la "Repubblica romana".
Così pur sappiamo che quando, per l'impulso Ardito, se non esemplare, del card. Ruffo cominciarono, anche in questi luoghi, i primi guai allo spadroneggiare di tali intrusi, e da Aquila e da Rieti si diffuse per i paesi della nostra montagna uno spirito reazionario di ribellione violenta, — che minacciò anche Spoleto con la sostituzione di diverse ma non Meno pericolose ingerenze, — la Rocca ebbe, anche in tale occasione, come un risveglio, fugace. Le autorità, apparecchiandosi alla difesa, si affrettarono, oltre che a risarcir le mura della cinta urbana, a radunarvi quanto più si potè di artiglierie, facendone venire anche da paesi e castelli vicini: sei cannoncini da Monteleone, alcune colubrine da Beroide e quante altre reperibili da altrove. E si giunse a provvedere alla meglio, su nella Rocca, anche alla fusione di nuovi cannoni. Al comando militare fu destinato il colonnello Turski e, con qualifica di "comandante le artiglierie" p213 il capitano Barthélemy Cavaiolle. E la Guardia nazionale fu mobilizzata.
Poi quando, incalzando gli eventi, gli Austro-Aretini, occupato Foligno, minacciarono da presso Spoleto, nella Rocca, — come abbastanza munita ed approvvigionata e custodita da buon numero di volontari, — si ritrassero in sicurezza gli amministratori della città con i loro uffici, trasferendovi la sede del Comune e del Governo. Ma per pochi giorni. Il 9 agosto 1799, gli Austro-Aretini entrarono in Spoleto; occuparono senza resistenze la città e destinarono ad amministrarla una deputazione di cittadini — che prese il nome di Reggenza Cesarea. — Così l'amministrazione della città ritornò nella sua sede, e la Rocca si raccolse di nuovo nel suo isolamento.
Il 30 giugno veniva e sostava a Spoleto Pio VII, che nel marzo di quell'anno, era stato elevato alla tiara nel conclave di Venezia. Ma non fu più la Rocca che ebbe l'onore di ospitarlo: alloggiò nel Vescovato. Alla Rocca fu riservato solo il compito di mandargli dai suoi spalti una voce di saluto: voce non più minacciosa, anche se scandita con accenti sonori; quella dei suoi cannoni. Ma a salve. E così pure quando, cinque anni dopo (13 maggio 1805), Pio VII fu qui di nuovo, dopo il suo primo e non fausto viaggio a Parigi. E poi, ancora una volta, in occasione del suo ritorno da quella "cattività" di Parigi, nella quale, sia pur con altre forme e con diversi esponenti, parve rievocato il ricordo lontano della tendenza egemonica che anche rispetto alla Chiesa, aveva ispirato la politica di Filippo il Bello.
p214 Questa volta i cannoni della vecchia fortezza salutavano, con il ritorno del Pontefice, la Restaurazione. Voce suprema di questa Rocca, che giù nell'ampia chiostra, su cui essa aveva dominato sovrana, si diffuse come il balbettante palpito di un supremo saluto in agonia.
Agonia! — Tre anni dopo — nel 1817º — veniva destinata a Casa di pena.
Triste affronto profanatore per il quale la responsabilità di chi lo decise può essere solo attenuata dal fatto che già da vario tempo — certo sin dal Seicento — una parte della Rocca era adibita "anche" a custodia di carcerati.JJJ Ora però, nel 1817, quest'utilizzazione sussidiaria si tramutava, ed affermava ufficialmente in una funzione piena ed esclusiva. Tutta la Rocca riservata a reclusorio: la Darsena.
E si ritiene di aver fatto Cosa buona nell'interesse della città, che allora, dopo quella crisi, parve animata, auspice il gonfaloniere Bernardino Montani, da una fervorosa attività di rinnovamento anche edilizio. A ciò la sollecitava pure la necessità di far riparo alle tristi condizioni economiche in cui quei tanti trambusti avean ridotta la popolazione. Anche allora si comprese che il rimedio più spediente sarebbe stato moltiplicare con nuovi lavori le occasioni d'impiego della mano d'opera.
E tra i lavori a sui si provvide vi fu pur quello inteso a rendere più agevole d di affrancare dai vincoli delle precinzioni della Rocca l'accesso all Ponte, e ciò con l'apertura di una strada "la più amena — dice il Campello —- e la più idonea a mostrare le bellezze caratteristiche dei contorni della città": la strada che da Piazza Campello p215 conduce al Ponte, al quale sino allora "non poteva accedersi senza salire alla Rocca, per poi ridiscendere pere disagevole sentiero". (Cfr: Nota 26).
Aperte in breccia le mura per la costruzione di una nuova porta — la così detta Portella — la deliziosa strada fu sollecitamente sistemata.JJJ
Ma intanto era purtroppo avvenuta la triste profanazione.
Sbarrata con duplici o triplici serie d'inferriate ogni apertura per cui trionfa in vista il meraviglioso panorama che la circonda; rimpiccoliti e ingombri di poderose grate i bei finestroni ogivali donde un giorno mostrò fulgida e balda — Lucrezia Borgia la ducal sua faccia; soffocato con tramezzi l'ampio respiro del bel portico di Gattapone nel cortile d'onore; Chiusi ad ogni possibile evasione i tanti cunicoli che, a risorsa difensiva, vi aveva disposto in meandri la genialità di quel grande architetto militare; e poison, via via, quanto più possibile, profuso tutto intorno l'igienico biancore di calce e d'intonachi (per fortuna, solo negli interni); asserragliato ogni accesso con cigolanti cancelli sospettosi. . ; ecco il magnifico edificio adattato a ricevere ospiti tanto diversi da quelli di un tempo! — ecco la sua profanazione!JJJ
E oltre 500 erano nel 1831: "cinquecentoquaranta servi di pena" — precisa una lettera del gonfaloniere Montani, — "una parte romagnoli e che han servito sotto il Regno Italico, altri di questa e delle Delegazioni vicine".
p216 Il Trentuno; periodo critico per gli Stati della Chiesa. Se non fortunata nè bene scelta, certo importante tappa nel faticoso e glorioso cammino d'Italia per il su Risorgimento.
Anche Spoleto ne sentì la repercussione; anche qui se ne propagò l'entusiasmo. E, se pur la sua partecipazione risultò di un'importanza politica secondaria, ci fu in essa qualche Cosa, tale da dare a questi eventi un sapore o, piuttosto, un interesse particolare. Vi campeggia la figura di Giovanni Maria Mastai — il futuro Pio IX — allora arcivescovo di Spoleto, che ebbe in essi parte notevole, anzi caratteristica. Nè il parlarne — bene inteso, brevemente — ci porterà fuori del nostro terminate, perchè vi troveremo una particolare connessione appunto con questa Rocca.
M.r Giovanni Mastai era venuto a Spoleto nel 1827, mandatovi da Leone XII, come Arcivescovo di questa diocesi. E gentiluomo, com'era, buono e caritatevole, e di temperamento cordiale, si era procurate molte simpatie nella città. Qui, dunque, e in tale ufficio lo sorpresero i "Moti del Trentuno", essendo Delegato al governo di questa provincia Mons. Domizio Meli Lupi dei principi di Soragna.
Si sa che sin Darius primi del febbraio gli eventi precipitarono, e da Modena, dalle Romagne e dalle Marche rapida fu l'avanzata, verso Roma, di quei moti rivoluzionari. Già avevan preso piede Nell'Umbria, e Spoleto se ne sentì scossa. Anzi, ecco una prova di quanto e come vi fu intimamente consenziente e partecipe questa città, e quel che è più strano, — non consenziente, no, ma, pur senza volerlo, propizio anche lui, — lo stesso Mastai. Per lo Meno giocato con abilissimo p217 gioco e, almeno in primo tempo, perdente. E sentite che allegra partita riuscirono a combinare.
Non numeroso era questo presidio militare contro cui si sarebbe dovuto lottare in caso d'insurrezione: non numeroso, ma sempre tale da far temere il dovervisi cimentare non organizzati ed inermi. Necessario, se mai, predisporsi a ciò con sicurezza di successo. Ed ecco l'espediente a cui ricorsero e di cui fu buona posta — furbesco pretesto — appunto la Rocca.
Consenzienti il gonfaloniere Montani e gli altri magistrati cittadini, — tutti, certo, d'intesa nella partita, — si fece correre la voce di una minaccia, anzi, di un tentato ammutinamento dei reclusi della Rocca e diffonder per la città l'allarme pel pericolo di una sommossa di quei 540 "forzati", pellaccie ardite, in gran parte romagnoli e ribelli alla Chiesa, ai quali non avrebbero potuto far argine sufficiente le esigue forze di cui disponeva il capitano dei gendarmi, Maceroni. Prudenza, anzi impellente interesse cittadino, si disse esser quello di prevenire o di mettersi in grado di rintuzzare tale pericolo.
Così l'ambiente fu preparato, montato; così potè essere accolta come provvida iniziativa l'intenzione manifestata dall'Amministrazione comunale di voler integrare Quelle poche forze militari con elementi cittadini, bene inteso, armati.
Era un buon avviamento al gioco dei liberali. E la magistratura cittadina — che ne era connivente, se non anche come sembra, l'iniziatrice, — si diè premura, sia pure ostentando ogni più riguardosa forma di deferenza alle autorità governative, ma anticipando alquanto sulle opportune autorizzazioni, di reclutar lì per lì un numero di p218 "notabili" (si capisce, della partita) perchè prestassero mano armata, ai militari di guardia alla Darsena. E di fatto — così trovasi esposto in un rapporto o relazione del Gonfaloniere — "Il magistrato con altri diciassette cittadini sono stati nella scorsa notte, 10 febbraio, in pattuglia e sentinella alla Rocca, sotto il comando del sig. Cap. Maceroni, e si è avuta la soddisfazione che tutto sia passato con la più grande tranquillità".JJJ
Bravi, dunque, quei signori Notabili. Soddisfattissimi tutti, anche il capitano e più ancora il Mastai. Bene, così, questi primi passi. Ma, perchè raggiungessero lo scopo, ne occorrevano altri, ed ottenere le debite autorizzazioni che sanzionassero quella novità. E anche a questo si procurò di rimediare con sollecitudine il giorno dopo, 11 febbraio, con the rest lettere che, presso a poco identiche, furono inviate dal Gonfaloniere contemporaneamente all'Arcivescovo, al Capitano dei gendarmi e Gonfaloniere, dando relazione (riferisco dalla minuta di quella inviata a S. E. Mastai) della "fazione compiuta nella nottata", aggiungeva: — "Siccome non è giusto che quei medesimi ottimi cittadini (che avean montata la guardia la notte precedente), abbiano ad avere eguale disagio nella futura notte, e siccome pure all Congresso che da me si tenne coi signori di sopra nominati (Maceroni, Ronconi Comandante di piazza, e Falconi, Assessore civile), essi mi diedero dei stimoli (!) di organizzare una Guardia di sicurezza, composta di notabili della Città e delle migliori famiglie, dipendenti p219 dal Comando della Piazza, unicamente per la Darsena e così provvedere alla quiete e sicurezza pubblica, me ne Vado occupando. Reputo mio obbligo renderne istruita l'E. V. e in pari tempo La supplico degnarsi d'indicarmi se quanto vien operato . . . incontra . . . il suo gradimento".
— Niente in contrario, anzi! . . . Anzi, di questa specie di milizia cittadina così improvvisata, — ed armata — lo stesso Arcivescovo si offrì di esser, lui, il Cappellano. — "Facciamo la guardia, sì facciamola: io sarò il vostro cappellano".
Raggiunto così lo scopo pare che si fosse decisa un'improvvisa insurrezione per il 15 febbraio, ultimo giorno di carnevale. Ma per ragioni d'opportunità fu rinviata.
Però nella notte giunse la notizia che Foligno era insorta, come già Perugia. E, nel disorientamento, lo stesso Delegato Apostolico e, bene inteso, il Mastai, sollecitarono il Gonfaloniere di adunare a rinforzo quante più possibili di quelle guardie civili, nominandone capitano il conte Pompeo di Campello e destinandone a caserma il già soppresso convento di S. Simone. Così, a quei primi, si aggiunse un considerevole numero di volontari, con divise d'occasione, ma tutti armati.
Meglio di così? — avran, con cauti sorrisi d'intesa, pensato quei congiurati. — Anzi il Mastai, fiducioso e facilone com'era, e pur veramente di gran cuore, (sino a che non vi stillò il suo veleno l'Antonelli e non lo disorientarono le contrarietà della grande crisi in cui fu coinvolto); il Mastai, tutto contento e preso d'entusiasmo, non seppe trattenersi di andare, poco dopo, nella caserma, ove, fatte mettere in riga quelle milizie e rivolto loro un fervorino d'occasione, p220 esortò quei "buoni e valorosi soldati" a prestare il giuramento di fedeltà al Pontefice Sovrano. — "Dite con me. . . ."
Ma non potè proseguire per un improvviso cambiamento di scena. Il Capitano l'interruppe per dichiarargli che, se avevano preso le armi, non l'avean fatto proprio per il Papa, ma invece per il riscatto nazionale. — Un'altra Cosa! — E intanto, pronti, e come obbedienti a un comando, quei soldati tiraron fuori e si appuntarono al petto la coccarda tricolore. E il chiostro risuonò del grido: Viva l'Italia.
Era la parola attesa; era il segnale. E il popolo, già accorso in folla nella piazza sotto la Rocca, fece eco a quel saluto, e con bandiere tricolori, musiche e acclamazioni, trascorse inneggiando per le vie. E subito si procurò di mettere insieme un "Governo provvisorio" e a porre a disposizione del Delegato Apostolico una carrozza, di cui, quella sera stessa, salutato con rispetto — e riconoscenza? — egli profittò per andarsene, per la via di Terni, a Roma.
E Mastai, l'Arcivescovo?
Senza attendere Cavalli e carrozza, se ne fuggì di nascosto attraverso le montagne a rifugiarsi, anche questa Volta, entro i confini del Regno di Napoli, a Leonessa, — che però, quantunque fuori dello Stato Pontificio e compresa nei limiti del Regno, presentava allora, (come è tutt'ora), questa strana anomalia giurisdizionale: di esser compresa, per quasi la meta del suo abitato, nella Diocesi di Spoleto.
— Si direbbe una prova generale della fuga a Gaeta. Ma, questa prima volta, una fuga assai disagevole, di notte, a cavallo, per aspri sentieri Montani. Assai Meno comoda di quella successiva, per Gaeta, in ampia carrozza con accanto p221 la matura, ma ancor bella e avventurosa sua protettrice d'occasione, la contessa Teresa Giraud Spaur.
Però giustizia vuole che si avverta che, prima di partire così nascostamente, il Mastai volle che risultasse appianato, senza spargimento di sangue, ogni conflitto che per il possesso della Rocca, pareva fosse per insorgere con la milizia di presidio, che vi si era rinchiusa minacciosa. Egli ne procurò e dispose la capitolazione; e — dice il Sansi — "allo stesso suo scrittoio ne furono fermate le condizioni, che furono messe e sottoscritte in forma legale nel palazzo del Comune. Per tal maniera i liberali ebbero il possesso della Rocca, di alcuni cannoni e di tutte le armi della guarnigione. Nella stessa notte il distaccamento dei carabinieri seguì il Delegato a Terni".
E pur questo è doveroso aggiungere: che quando nel marzo successivo, per la mal violata capitolazione di Ancona, furon soffocati dalle armi austriache quei moti, e Spoleto, anche Spoleto, fu di nuovo assoggettata al Governo Pontificio, l'Arcivescovo Mastai, al suo ritorno in città, anzichè valersi del suo accresciuto potere per compiere opera di rappresaglia reazionaria, e, se non altro, far scontare i disagi e le paure di quella sua corsa notturna per i monti, spiegò invece intervento indulgentemente pacificatore.JJJ
Parecchi erano già sin allora i forzati nella Darsena. Ma si volle che potesse contenere anche di più. E dalle carte di quest'Archivio municipale si rileva che circa il 1845 si era già costruito in gran parte quel corpo di fabbrica che fa brutta mostra in aggetto tra la Torre Spiritata e quella angolare nord-occidentale.
p222 Diviso in due piani fu predisposto, il piano superiore a dormitorio di altri forzati, quello terreno per "lavori di tessuti". E non senza contrasti, nicchiando il Tesorierato per l'entità della spesa, si riuscì a completarlo. Però nel '59 questa brutta Cosa era finita, in ordine, così che il 10 dicembre ne fu disposta la inaugurazione e, per quanto non lo meritasse, in forma solenne.
Newbern abbiamo un assai particolareggiato resoconto, redatto nientemeno con un rogito, messo insieme — e con enfatica magniloquenza — dal segretario della Delegazione. Dal qual rogito risulta che fu anche preparata una pergamena che, chiusa in una teca di piombo, si volle immurata nella nuova costruzione, a memoria del "fausto evento"!
Però trade le carte di un diarista paesano troviamo anche questa notizia: "Mentre la pergamena veniva chiusa nalle capsula di piombo, si levò un impetuoso vento che rovesciò il padiglion e l'altare" (!), per cui, deposto alla meglio quel cimelio nel loculo preparato, tutti quei signori intervenuti in pompa magna se ne scapparono a rifugiarsi nella chiesa di S. Simone, ove fu cantato il Te Deum.".
Proprio una jettatura — o un monito, — intelligente. Si direbbe che vi avesse soffiato su, a dispetto, redivivo, non l'Albornoz, che sappiamo piuttosto gracile di forme, ma il possente petto del Gattapone che, a giudicar dalle sue opere e dalla loro impronta maschia, dobbiamo figurarci musculoso e gagliardo. Aggiunge infatti quel cronista: "Detto vento impetuosissimo si elevò solo sully luogo della funzione, essendo stato tranquillissima l'atmosfera in tutto il resto della Città". — Benissimo, e magari peggio, lassù.
p223 Non so di quanto si accrebbe il numero dei forzati. Certo di parecchi. E potrà anche esser sembrato un fortunato incremento.
Ma prima che passasse un anno, ecco Umbria novità, diversa e, questa, veramente buona, auspicata, ora e per sempre benedetta: il Riscatto nazionale. — Si avanzava in questi luoghi l'esercito piemontese.
E allora — come già si è detto ad epilogo del Cap. IV — si ricordarono anche a Roma della tradizione militare di questa Rocca. Per quanto menomata nella sua efficenza, poteva essere, in relazione ai mezzi e sistemi di guerra di quel tempo, ancora un importante centro di resistenza: sempre il più importante di questa regione.
Dunque non più "darsena", ma di nuovo una fortezza. Sgombrarla per ciò occorreva dei carcerati e mettervi invece armi e soldati. Così quei "forzati" vennero trasferiti altrove e la Rocca consegnata, come abbiam detto, all Comandante di piazza maggiore O'Reilly.
Lo sgombro dei reclusi cominciò il 7 luglio e poco dopo partiva anche il cap. Giovanni Moretti direttore della Darsena, che ne aveva "per lungo tempo moderato l'andamento". Così risulta da documenti di quest'Archivio.
Buona partenza e magari se senza ritorno!
Ma breve fu quest'ultima non gloriosa affermazione militare della Rocca; e se pure antipatica, la colpa non fu sua. Le truppe pontificie capitolarono. Il 17 settembre Spoleto esultava nella gioia di esser finalmente aggregata al giovane Regno d'Italia.
p224 Poison, purtroppo, fu di nuovo adibita a Casa di pena — e sciaguramente lo è tutt'ora.
Nelle grandiose sale già risuonanti di canti o di fremiti d'armi, nella luminosa grandiosità della sua Corte d'onore, è silenzio. Grigie si allineano tra le severe mura le cuccette dei reclusi. E il biancore profuso tutt'intorno fa l'impressione di una triste pallidezza.
E pure è silenzio, tetro, nella solitaria cappella, pensile su archi acuti, ove un giorno pregarono Nicolò V e la madre sua. E pur pregò, chi same con quale aspirazione redentrice, la irrequieta anima di Lucrezia.
E adesso? . . . Adesso, Nell'ora in cui, col declinar del sole, l'anima si raccoglie nel saluto al giorno che muore, con un anelante bisogno di più ampio respiro — e sospiro, — or vi risuona, — triste saluto vespertino! — il martellante ritmo dell'acciaio che saggia la saldezza delle inferriate.
Immagini con bordi conducono ad informazioni: più spesso il bordo più ampie le informazioni. (Dettagli qui.) | ||||||
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Pagina aggiornata: 12 feb 22