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Chi, percorrendo la via maremmana tra Follonica e Campiglia, tenga lo sguardo a levante, vede, sopra un colle velato dalle fronde cineree degli olivi, una torre scuoiata dai fulmini e spezzata a metà. Nessuno s'incuriosa a quel sinistro rudero finchè non si dice che quella è la torre di Donoràtico,
. . . . . la fiera torre di Donoràtico, a la cui porta nera conte Ugolin bussò con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante. |
Quale interesse potrebbe, del pari, destare il rozzo mozzicone del castello di Pietra nel Senese, se non si ricordasse che là morì la Pia dei Tolomei? Ed anche, per monumenti più conservati e più belli, quale emozione s'avrebbe senza l'interesse dei ricordi e l'evocazione delle figure? Che parrebbe il Castello di Magione, non lungi dal Trasimeno, se non si sapesse che in esso fu tenuta la congiura che scatenò le vendette di Cesare Borgia?
[p. ii] Così è: non basta descrivere un monumento nel suo svolgimento costruttivo, nella sua importanza artistica. Bisogna dargli l'anima, e l'anima di un monumento consiste nel racconto degli avvenimenti di cui fu teatro.
Purtroppo mi avviene di frequente d'avere tra mano libri ed opuscoli che d'un edificio o narrano solo i fatti, o solo lo descrivono nel suo aspetto e nel suo contenuto d'arte.
Ma per la ròcca di Spoleto Carlo Bandini ha dato fondo a tutto l'argomento; ha, in altre parole, esplorato anima e corpo.
Nasce l'insigne propugnacolo per volontà d'una grande figura ecclesiastica e militare (il cardinale Albornoz), per opera di un grande architetto (Giovannello di Matteo da Gubbio detto Gattapone); per una grande causa politica: consolidare il dominio del papa nell'Italia centrale e prepararne il ritorno da Avignone. Così il carattere molteplice della storia dell'insigne monumento si delinea sin dalle prime ore. E il Bandini non ne perde mai le fila, sì che direi che dal 1362 ai nostri tempo, la narrazione dei fatti si estende, da quelle mura e da quelle torri, alla vita di tutta Spoleto. È una narrazione, come dava il tempo, di conflitti, di delitti, d'inganni, di tradimenti, ma anche di ricevimenti, di solennità civili, militari e famigliari, tra cui feste per nascite e per nozze.
Superbo il luogo dove la ròcca sorge; il colle di S. Elia dominatore della città, di una doppia curva del Tessino, e del versante boscoso di Monteluco cui [p. iii] la congiunge l'ardito Ponte delle Torri. Sul colle fu l'acropoli della Spoleto antichissima; il Ponte, prima che Gattapone lo trasformasse, era sorto per opera della Spoleto romana.
Due grandi corpi ebbe la vasta ròcca: una corte d'armi, una corte d'onore. Per le masse dei soldati la prima; per abitazione signorile, la seconda, chè gl'inviati lassù furono ad un tempo governatori di Spoleto e castellani. E due corpi ebbero allora dovunque le ròcche delle Signorie: il recinto chiuso intorno da dimore e da torri, il recinto chiuso semplicemente da un forte muro, ossia il castro, in cui, solitamente in baracche di legno ed anche in attendamenti, stavano le milizie. E sorgevano presso alle mura della città per difesa contro l'esterno nei casi d'assalto nemico; per difesa ed offesa all'interno nei casi d'insurrezioni e per possibilità di scampo nei pericoli.
Oltre a queste diverse ragioni rendeva importante la ròcca di Spoleto il fatto che Spoleto era geograficamente la prima città notevole verso l'Umbria e le Marche, sì che il dominio d'essa appariva, verso settentrione, necessario alla difesa di Roma. Cospicui perciò i suoi governatori, scelti, per maggior garanzia di fedeltà, nelle famiglie papali, tanto, che per alcuni secoli, essa fu come una ròcca del nepotismo e richiedette agi e ornamenti per i quali s'adoperarono artisti come il Rossellino e lo Spagna. E la ròcca accolse papi famosi (Bonifacio IX, Nicolò V, Pio II, Sisto IV, Giulio II, Paolo III), sovrani come l'imperatore [p. iv] Sigismondo; prìncipi, cardinali, capitani, come Braccio di Montone, Francesco Sforza, il Vitelleschi, il Piccinino, Cesare Borgia. Nè manca alla storia del superbo propugnacolo la grazia di figure femminili: Andreola madre di Nicolò V, Valentina Riario, Caterina Petrucci, che parve offesa dal lusso eccessivo delle donne spoletine; Lucrezia Borgia che, all'incontro, col suo esempio quel lusso alimentò.
Poi, col Seicento e col Settecento, l'abbandono; il sontuoso edificio mutato in caserma, poi in reclusorio dove penarono, frammisti, delinquenti e patriotti.
Inferriate alle finestre, porte murate, muri scialbati, profonda tristezza laddove era stato l'attrito fervido d'una vita sia pure battagliera. Solo qualche lampo di questa nel 1860 quando la ròcca fu presa dai Piemontesi dopo la strenua difesa di O'Reilly irlandese al servizio del papa.
Ma ciò che più sorprende si è che, anche ora, dopo che tante altre ròcche sono state sgombrate dai galeotti, e che l'igiene carceraria ha riconosciuto quei vecchi edifici inadatti e malsani, l'insigne monumento spoletino sia ancora carcere.
Valga dunque questo libro del Bandini, che ne riassume la storia e ne celebra la bellezza, alla sua redenzione.
Corrado Ricci
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Pagina aggiornata: 12 feb 22