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In una pingue valle ben coltivata e ricca delle acque del Topino, del Timia, del Clitunno, dell'Attone, sorge, 225 metri sul livello del mare, la "caliginosa" Bevagna, riparata a mezzodì e a ponente da basse colline con tratti boschivi, ma nella più gran parte ricoperte d'olivi e liete dei canti della vendemmia. Ha una popolazione di più che 5900 abitanti, di cui più di 2000 nell'interno: gente vigorosa, di buon umore, cordialmente ospitale, amantissima della musica e che risponde, non di rado, a nomi classici, quasi a testimonio dell'antica grandezza. Poichè, anche senza cominciare dalla più che caliginosa epoca etrusca, come i nostri vecchi cronisti cominciavano addirittura dal diluvio universale, certo è che Bevagna, importante Municipio romano, aggregato alla Tribù Emilia, si vede spesso nominata dai più celebri scrittori antichi, quali Strabone, Tito Livio, Plinio il vecchio, Properzio, Columella, Silio Italico, Tacito, Lucano, Stazio. Sembrerebbe inoltre che dentro le sue mura avesse avuto una Via Trionfale, di cui si trova cenno in una lapide riportata dal Muratori, che però dubitava della sua autenticità. Nella guerra fra Ottaviano e Antonio seguì le parti di questo; onde, come già s'è detto, il fiero vincitore la spogliò, a favore di Spello, del suo estesissimo territorio.
Più decadde nel medio evo; e dopo molti assalti e saccheggi fu anche incendiata e rovinata nel 1152 dal Barbarossa e nel 1249 da Federico II. Aveva avuto i suoi consoli fin dal 1187, come attesta un Diploma d'Enrico IV; verso la metà del sec. XIII ebbe il podestà, cui si aggiunse, nel 1301, il rettore papale; e dopo esser stata soggetta quando a Spoleto e quando a Perugia; dopo frequenti assalti della vicina Foligno; dopo aver fatto parte del dominio de' Baglioni, passò anch'essa, definitivamente, alla Chiesa.
Ma più che i soliti fatti della sua poco importante storia politica (i soli che ci abbiano tramandati le cronache) piacerà sapere di alcuni de' suoi cittadini che più hanno lasciato memoria di sè, da quel Vareno che cadde, nella sua "bianca armatura", p60 sui campi sanguinosi della Trebbia, al cinquecentista Alfonso Ceccarelli, famigerato falsificatore di scritture storiche e di diplomi antichi, ond'ebbe tronca prima la destra e poi la testa: dagli artisti, di cui parlerò più oltre, agli scrittori settecentisti Alessandro Aleandri, presidente del Senato della Repubblica romana, giurista, economista, oratore e verseggiatore, e Fabio Degli Alberti, erudito illustratore delle patrie memorie; ai quali sovrasta quell'acuto e pugnace Francesco Torti (1763‑1842), che, per dir solo della sua opera maggiore, nel "Prospetto del Parnaso Italiano" dette, a giudizio del Niccolini, l'opera meglio pensata che avesse l'Italia in fatto di critica.
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