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Questa pagina riproduce un saggio stampato in
Sulla dominazione dei Longobardi in Italia e altri saggi

di
Gino Capponi


pubblicato presso
Colombo Editore
1945

Il testo è nel pubblico dominio.

Questa pagina è stata attentamente riletta
e la credo senza errori.
Ciò nonostante, se vi trovate un errore,
vi prego di farmelo sapere!

 p115  Firenze e l'Italia​*

Le repubbliche italiane, ed in ispecie le democratiche (in ciò essenzialmente dissimili da quelle del mondo antico), non ebbero mai coscienza piena ed intera della propria libertà; ma la tenevano come un privilegio derivato dall'imperatore: questa era la forma del diritto pubblico italiano, che la pace di Costanza aveva fondato,​1 e i giurisconsulti professavano; i ghibellini ed i guelfi del pari la consentivano. La fonte d'ogni diritto allora stava nei continuatori dell'antica unità romana, ch'erano il papa e l'imperatore: ma questi era natural nemico della indipendenza municipale; e il papa non volle farsene patrono giuridico, né difensore costante, perché temeva s'indebolisse il principio dell'autorità che il mondo reggeva; e perché le due supreme potestà si congegnavano per tal modo, che una percuotersi non poteva senza offesa dell'altra. Legalmente il Medio Evo era monarchico e sacerdotale: i re da principio non avevano, siccome capi di barbari, una consacrazione che fosse tanto universalmente riverita, ma poi bentosto l'ottennero, e quanto valesse il nome regio, appare da ciò, che mentre le forze materiali erano in mano della feudalità, i re giunsero a dominarla con la potenza del nome, e con l'andar del tempo a distruggerla.

Da tutto ciò ne seguiva, che quella specie di forza la qual risiede nella estimazione degli altri, si misurasse in ciascuno stato secondo il grado che gli spettava in quella universale gerarchia,  p116 la quale applicando l'idea romana alla famiglia cristiana, tendeva incessantemente a ricostituirsi nell'unità. Ed allorché le nazioni (qui dell'Italia non parlo) rinvigorite incominciarono a ordinarsi ed a comporsi ciascuna in sé stessa, ed alla unità ecclesiastica ed imperiale sottentrarono le unità nazionali; l'idea gerarchica dominando sempre per la forza delle tradizioni, generò quelle dispute di precedenza tra' principi e tra gli stati, le quali non furono tutta invenzione spagnuola, ma ebbero in antico una significazione molto effettiva. Ai Veneziani giovava assai nella opinione degli uomini, l'essere chiamati i signori Veneziani; e oltreciò Venezia, ultimo e quasi miracoloso avanzo del mondo romano, era nata prima che sorgesse il nuovo impero occidentale, al quale perciò non fu soggetta giammai, e in sé stessa riproduceva continuate senza intermissione le forme latine; eppure questa città, marittima e segregata ed in tutto singolare, non ebbe stato in Italia prima del XVo secolo, ma si aggrandì pe' commerci e per le conquiste nell'Oriente. Ed anche Firenze si gloriava d'intitolarsi figlia di Roma, della quale fu colonia; ma nessuna splendida memoria vivente s'annodava a quella origine, e innanzi al mille poco sappiamo di questa città, che allora solamente cominciò a primeggiare in Toscana. Cresciuta per le arti, fu essenzialmente democratica; al che trovò minore contrasto, perché le famiglie nobili, a ciò che debba congetturarsi, composto in gran parte d'antichi proprietari del suolo,​a con poca misura di feudalità tedesca, si  p117 riducevano più agevolmente al vivere cittadino. Certo è che in Toscana, e massimamente nella parte centrale di essa, può credersi che l'antica razza fosse alterata meno che altrove dalla frequenza de' barbari, e si rinnovasse meno, per la magrezza del suolo (come Tucidide osservò dell'Attica) e per essere il fondo delle valli impaludato dall'Arno. Poi quando Firenze, salita in potenza, cominciò ad ampliare il contado, i Signori di castella, che dominavano l'Appennino, quel mercato che aveva prima spopolata e poi disfatta la rôcca di Fiesole.​b Firenze dunque raccolse quanto era d'intorno a lei, e ve ne aveva più che altrove, di schietto sangue italiano; e dimostrò ciò che avanzasse di vita propria e distinta, di vita locale, per così dire, e cittadina, in quella nazione, la quale oggimai costretta (come il dantesco Satan) da tutti i pesi del mondo, ambiva tuttora di soprastare al mondo  p118 intero per altro genere di dominazione. Ma una città cosiffatta dovea di necessità ordinarsi a forma democratica, e ritenere quel suo carattere essenzialmente municipale; perché all'antico popolo null'altro s'apparteneva fuorché i municipali diritti, retaggio benefico delle istituzioni romane, e perché ogni altra grandigia che ambire potesse a una dominazione più vasta, o aveva origine forestiera, o per mirare alla universalità, cessava così dall'essere nazionale: tedesca era la nobiltà feudale, tedesco l'imperatore, e al papa, l'Italia riusciva la più intrattabile provincia della cristianità. Così la Toscana, e in special modo Firenze, meno offesa dalla barbarie che altra qualsiasi parte d'Italia, ricondusse nell'età moderna l'antico genio italiano, ma senza forze né autorità per farlo predominare sulla intera nazione. Ristretta dentro alle forme municipali e democratiche, fu tutta guelfa per indole; e anticipandosi una libertà che non aveva fermezza, e intenta sempre a conservare tra le provincie d'Italia un falso equilibrio, anch'essa come guelfa, contò tra i principali impedimenti di ogni nazionale grandezza, vietando in Italia sorgesse un padrone, ch'esser poteva un salvatore. In quelle origini latine del popolo di Firenze (perché ogni antichità etrusca s'avvolge nel buio) stanno le cause che lo mantennero il più italiano fra tutti, di lingua e d'ingegno, nell'età di mezzo; e a quelle devesi attribuire ciò che vi ebbe di grande, e ciò che di debole, nell'istoria di questo popolo.

Per ciò che spetta al governo di quella repubblica, nessuno vi cerchi, secondo le norme d'oggidì, l'egualità dei diritti, la sicurezza degli averi o delle persone, e la temperata libertà di tutti. I Fiorentini acquistarono con l'oro e con le armi un piccolo stato, e con le armi lo tennero; ma per bene amministrarlo, mancavano d'un principio d'autorità che stesse in luogo della forza, e di quell'arte ordinatrice, la quale collega  p119 in un corpo solido e tenace le parti diverse, col procurare l'utilità dei molti. Altrove le monarchie, per abbattere i castelli, si amicavano le città; e gli stessi Veneziani, perché temevano i soli nobili, piaggiavano il popolo: ma in Toscana le provincie, e le terre soggiogate, sovente ribelli, e sempre mal fide alla repubblica, favorirono la signoria dei Medici. Né i buoni ordini di governo, né la costante sapienza de' consigli, diedero forze durevoli a questa città, la quale non ebbe mai grandezza politica pari agli effetti da lei derivati sulla civiltà del mondo; e per sé stesso non si giovò dei sommi ingegni che in lei nacquero. Ma ella visse tre secoli, i suoi bei secoli, in uno stato di continua rivoluzione; in quale spingendo via via tutto il popoli, insino all'ultimo artefice, nelle agitazioni della vita pubblica, compensava a cento doppi, con l'energia ch'ella ispirava, i disordini da lei prodotti: ma insieme con l'eccitare ad isforzato germoglio la vigoria di questo popolo, innanzi tempo la consumava: questo guadagno ebbe l'Italia dalla vittoria dei guelfi. Colsero immaturo il gentil frutto di libertà, e ne disseccarono la pianta: e invertirono il regolar corso della italiana civiltà (come notò il Romagnosi),​5 ottenendo che l'Italia scuotesse il giogo della barbarie, prima d'avere tutta raccolta e in sé concetta la nuova vita ch'ella infondeva nelle nazioni. Così goderono per sé stessi un'anticipata gioventù, ch'esser doveva senza virilità, perch'ella era senza forza.

Noi dobbiamo invidiare quell'attività che fu concessa alle menti degli uomini d'allora, e quell'ardire che gli animava a operare grandi cose; e maledire dobbiamo quelle passate felicità, per gli effetti che ne seguirono. Allora però si viddero quelli stessi che più degli altri se ne giovavano, più averle in dispregio: e i grand'ingegni italiani, come i filosofi dell'antica Grecia, furono avversi generalmente a quegli ordini popolari, dai quali pure tenevano la libertà del pensiero e  p120 l'alimento delle passioni. Dante ignorava quanto egli dovesse a quella cittadinaza mista, che s'arricchiva nelle botteghe e tumultuava nelle piazze: a quella doveva il franco animo, e la vita concitata, e le ire, e l'esiglio che fruttò il poema. Eppure è forza di confessarlo: Dante aristocratico, Dante che invoca Alberto tedesco, e celebra e desidera i dolci tempi di Cacciaguida, quando Firenze non era altro che un borgo dominato da poche famiglie; Dante, per animo e per linguaggio, fu il più repubblicano, forse il solo repubblicano, tra quanti grandi scrittori avesse Firenze. Egli, ghibellino solamente nel pensiero, non mai degnò chiamarsi di quella parte;​c e già prima ch'ei morisse, le due contrarie fazioni, entrambe diffidenti di sé medesime, l'una nell'altra si confondevano: i ghibellini si calavano alle ambizioni cittadine, e molte guelfe città avevan tiranni. E il Petrarca, non guelfo nè ghibellino, ma italiano sincero e facondo letterato, col desiderio sempre affisso nelle grandezze romane, ma parendogli ogni cosa per l'Italia essere indarno fuorché i sospiri,​6 pendeva incerto nei voti tra il Rienzi e il Colonna; e a Firenze non guardava e ne viveva lontano, come ivi non fosse né patria né libertà. I novellatori del Boccaccio, guelfi e ghibellini,​d banchettano insieme raccontando le cortesie de' signori e le magnificenze dei principi: e mai nessuna parola di quei racconti esprime affetto di libertà; né la vita, né gli studi, né lo stile del Boccaccio, furono quali si crederebbe d'un cittadino di terra libera. Egli, ed il Petrarca più assai, appartennero a quella generazione di eruditi, che nel dissotterrare l'antichità si volevano risuscitarla; e così opprimendo le speranze sotto il peso delle memorie, inalzarono sugli occhi  p121 alla Italia sorgente la morta Italia come un fantasima e nella superbia del passato spregiando il presente, sinanche il vivo idioma chiamaron volgare, e fecero del latino la lingua illustre della nazione italiana, lasciando all' uso del popolo, quasi con aristocratico disdegno, i versi amorosi, e le novelle galanti, e i libri ascetici, e le cronache se non ambissero a istorica dignità. Fu danno all'Italia quel tanto raggirarsi che fecero allora gl'ingegni tra le antiche memorie, quando scaduta la vigoria che l'animò ne' due precedenti secoli, ella, per ordinarsi in sé medesima, più abbisognava di senno e di presente consiglio. A ciò per nulla provvide il secolo XIV, che peggiorò quanto più avanzava, e fu per molti rispetti il più malefico all' Italia la quale per allora non soverchiata e quasi intatta dallo straniero, disfece sè stessa. E per dire della sola lingua, che pure doveva essere vincolo d'unità alla intera nazione, ella rimase a quel tempo negletta dai sommi uomini, e divisa nelle varietà dei provinciali dialetti, senza un centro d'autorità che ne determinasse la forma, per ciò che spetta all'uso nobile. Digià la Chiesa, col mantener nella solennità religiose e pe' teologici argomenti l'antico idioma, interdiceva all'italiano le più alte e più universali significazioni dell'affetto, e il linguaggio della filosofia: e i dottori gli vietavano il pregio dell'eloquenza, usando il latino nelle civili solennità nelle quali ad essi d'ordinario spettava il parlare; e la parola italiana, se alcuna volta la pronunziavano, costringendo nelle morte forme d'un gergo scolastico, e tormentandola con l'erudizione. Così, nel secolo in cui fiorirono la lingua e la libertà, la prosa italiana crebbe senza inalzarsi alla eloquenza, che fu condanna di povertà durevole: perché la vivezza dello scrivere trovandosi in libri spesso meschini per l'argomento, e troppo incolti quanto allo stile, i letterati d'Italia cercarono l'eloquenza dove non era naturalezza, o questa scambiarono con le trivialità del mercato.  p122 Il popolo fece la lingua, e la fece ricca, splendida, immaginosa, come è natura degl'Italiani: ma perché il popolo, secondo l'intendere d'allora, non ebbe dignità sufficiente; e perché in Italia non surse mai una parola dominatrice alla quale tutti seguitassero, la bella lingua rimase, nelle materie più gravi, senza una forma che fosse universalmente consentita, e divenisse, per così dire, lo stile della nazione. Di qui le misere gare che tante volte si rinnovarono, e le incertezze nello scrivere; le quali cessavano, se un libro eloquente avesse dato all'Italia una prosa nazionale, com'ella ebbe una poesia. Questa, perché figlia dell'ispirazione solitaria e tutta cosa individuale, fiorì tra noi senza controversia: mancò alla prosa un linguaggio illustre insieme e popolare, che in sé comprendesse le vive ricchezze dell'idioma parlato; e tale che il popolo vi rinvenisse agevolmente la lingua sua propria, ma usata però con artifizio scientifico, e rivestita di forme elette.​e Né a formare questo linguaggio bastava l'autorità del popolo di Toscana, per la picciolezza degli stati, e per gli ordini che gli reggevano. Firenze non ebbe splendore di arringhe nè celebrità di fôro; e, cosa notabile, una repubblica tanto popolare non mai produsse un grande oratore: la piazza era pe' tumulti,​f e le faccende si governavano dalle botteghe e dagli scrittoi de' maggiori cittadini, o per consigli a porte chiuse. Quindi è che dal secolo di Dante ai tempi del Tasso,​g gli altri Italiani più avvezzi ai modi  p123 cortigiani e aristocrati, solevano proverbiare il popolo di Firenze per fare mercatantesco; e il linguaggio della bottega usciva sovente di sotto ai baffi spagnuoli dei principi della casa Medici.

Insino dai primi anni del 15.o secolo, già tutta l'Italia tirava all'aristocratico, da sé iniziandosi ai nuovi costumi che la invasero nel 16.o Imperocché, in molti luoghi di Lombardia e di Romagna le signorie cittadine pigliavano forma di principati ereditarj: Napoli e Milano avevano grande magnificenza di corti; a Genova poche famiglie potenti si disputavano la repubblica; ed in quegli anni medesimi, i signori Veneziani e i duchi di Savoja, che non sembravano per l'innanzi appartenere all'Italia, cominciarono a porvi stato. Il secolo stanco cercava fermezza dalle agitazioni municipali all'ombra di quelle corti, che adornandosi nella picciolezza loro dello splendore delle arti belle, e salariando le lettere amene e gentili, coglievano per sé il frutto della nazionale civiltà, e a posta loro la dirigevano. Tra noi, come altrove, l'amor della libertà cedeva al bisogno d'assicurare l'indipendenza: ma non però che risultasse il pensiero ghibellino, anzi, perché niun pericolo pareva minacciare da fuori, essendo l'impero debolissimo e le altre nazioni tuttora divise, l'Italia si diede, con sicurezza imprudente, a equilibrarsi in sé medesima, come ella fosse sola nel mondo, o forse tenendosi da più delle altre per la forza, com'ella era nella civiltà; e la cercata indipendenza d'ogni provincia e d'ogni stato, fu posta invece di quella della nazione. A tuttociò si aggiungeva l'intervenire del pontefice, con altro studio che per lo innanzi, e come principe secolare, nelle fazioni d'Italia. I papi ebbero sovranità insin dall'8.o secolo, ma prima del 14.o l'esercitavano trascuratamente; il loro stato era la cristianità. Temuti dai re, non governavano Roma; e poco meno che tutte le altre città appartenenti alla Chiesa, reggendosi a popolo, o in signoria di feudatarj sovente ribelli,  p124 sembravano quasi avere dimenticata la soggezione ai pontefici. Ma quando con l'ordinarsi le nazioni ciascuna per sé con leggi sue proprie, la potenza universale dell'idea cedé alla potenza dei fatti positivi e materiali (ch'è ciò che s'intende col nome di civiltà); e quando l'oltraggio sofferto da Bonifazio VIII, e la dimora in Avignone, e i quaranta anni di scisma, ebber mostrato ai pontefici essere oggimai necessario di munire con la sovranità temporale l'indipendenza ecclesiastica, e di agguagliarsi agli altri principi: allora si volsero, con più assoluto governo, a domare quelle città libere e quei vassalli disubbidienti; e allora lo stato della Chiesa anche esso contò, per forze proprie ed effettive, tra le potenze d'Italia. Questa difficile recuperazione dell'antico patrimonio, cominciata nel 14.o secolo, si compié nel 16.o: e le nuove necessità imposte dalle brighe dello stato, forzando i pontefici a parteggiare spesso con gli altri principi, furon cagione che assai nemici si suscitassero contr'a loro dentro alla parte stessa dei guelfi: la quale mal ferma in sé medesima e senza capo in Italia, divenne allora un nome vano. Digià Bonifazio VIII, siccome colui che assai bene comprendeva i tempi e gli antivedeva, s'era voltato ai ghibellini.

A questo modo si ordinavano, comunque si fosse, gli altri stati d'Italia, e intanto Firenze rimaneva senza costituzione possibile. Finché durò la lotta dei guelfi contro al comune avversario della indipendenza municipale, questa città inalzatasi a primeggiare in quella parte, ebbe gran seguito e favore; ed un papa sentenziava, i Fiorentini essere nel mondo come il quinto elemento. A ciò che vi era d'illegale nella forma di quella repubblica, suppliva la qualità d'un supremo Magistrato, che, nobile e straniero, e istituito più anticamente dello stato popolare, continuava in certo modo per via d'una legale finzione la rappresentanza dell'autorità imperiale  p125 nelle città emancipate e quasi diremmo il principio ghibellino in mezzo a un popolo guelfo. Tale si era il Potestà (è da notare anche il nome), al quale si apparteneva, come a custode della sovranità legale, il diritto della spada; e da cui s'intitolavano, anche molti anni dopo creato l'ufficio dei Priori e quello del Gonfaloniere, tutte le lettere ed atti pubblici, che aver dovessero valore giuridico o autorità diplomatica. Il Capitano del popolo sceglievasi anch'esso di famiglia nobile e Cavalier di corredo,​h singolari qualità per chi doveva farsi ministro di fiere leggi contro a quelli dell'ordine suo: i nobili, esclusi da tutti gli ufficj nella città loro, tenevano i sommi nelle città forestiere, e vi andavano per sei mesi a esercitare giurisdizione. Il che (sia detto qui di passaggio) faceva assai per diffondere tra gl'Italiani la scienza di stato, alla quale molti e in più luoghi s'addestravano; ed oltreciò manteneva sempre, colla frequenza del conversare, un certo comun sentire, anche in mezzo alla difformità dei consigli ed alla contrarietà dei fini: per certo la patria nostra fu meno divisa d'animo e di costumi, quando gl'Italiani giornalmente si praticavano per commerci, e per ambascerie, e per magistrati, e per gli studi nelle università, e sia pur anche per guerre; che non a tempo degli Spagnuoli, quando ciascuno impiombato nella sua provincia, non conosceva le altre se non che appena di nome.​i Ma quelle forme decaddero,  p126 e quegli ordini che derivavano dal gius imperiale furono anche aboliti, quando per tutta l'Europa i fatti pervennero a supplantare le astrazioni. Già nel 1355 i Fiorentini aveano comprato per moneta da Carlo IV un privilegio, confermato poi nel 1369, pel quale questo imperatore semiguelfo diede giurisdizione legale al Gonfaloniere ed ai Priori dichiarandoli suoi Vicarii in perpetuo. E allora col terminare della prima lotta, mancato quel vincolo che teneva ferma l'unità del popolo di Firenze di contro a vicini armati e potenti; e per molti esempi conoscendosi là essere maggiore e più effettive le forze dov'elle erano più concentrate: molti per ambizioni private, o intesi a fortificare così la repubblica, ebbero in animo di ritemperarla sotto una forma aristocratica. A questo fine tendeva, sino dal 14.o secolo il magistrato di parte guelfa, imitazione addolcita degl'Inquisitori di stato; questo volevano gli Albizzi: e sul finire della repubblica, il Savonarola ed il Giannotti​10 ed altri amici di libertà consigliavano la forma veneta, donde si ebbe un Gonfaloniere a vita od a tempo lungo, che raffigurasse il Doge, e un gran Consiglio, e una Quarantia; mentre dalla contraria parte i più ambiziosi, come il Vettori, il Guicciardini, gli Strozzi, il Valori, si credevano fondare una sorta di governo aristocratico all'ombra dei Medici. Il solo Machiavelli non predicò l'imitazione impossibile della repubblica veneziana; egli, tutto fiorentino d'indole, fu democratico per istinto,  p127 ma tutto italiano nel vasto pensiero, cercò la salvezza dell'Italia là dove poteva essere la forza, nel principato d'un solo. Il che invero non s'accordando coi mandati della sua repubblica, fece che in tempi infelicissimi, e in uomo di picciol grado, i fatti contradicessero all'inutile pensiero, e che in lui poco fidassero gli stessi suoi concittadini.​j Quanto era di vita nel popolo di Firenze, teneva un carattere tutto municipale e democratico; ed era più agevole distruggere quella vita, che non ritemperarla sotto altre forme. Il popolo d'una città ricca, mobile, ingegnosa, poteva bensì contro all'Impero lontano e debole mantenere la sua propria libertà nel disordine del Medio Evo; ma questo popolo rimaneva senza diritti e senza forza in quelle nuove costituzioni, tutte monarchiche e signorili, alle quali era commesso per allora l'ordinamento delle nazioni. Laonde Firenze non era capace d'altrimenti vivere, che tutta libera o tutta serva: e quando i Medici ebbero oppressa con le armi straniere quella città ch'essi avevano cento anni faticate a corrompere od a sedurre, non rimase dell'antica libertà alcuna forma conservatrice, la quale valesse, col permettere la dignità nell'ubbidienza, a temperare la servitù.

Queste furono, a parer nostro, le cagioni più immediate di ciò che vi ebbe di debole nella repubblica fiorentina: ciò che in lei fosse di grande, il mondo lo sa, e anche oggi è tema di molti libri.


Note dell'autore:

a A quest'ordine mi sembrano appartenere la maggior parte di quelle famiglie nobili enumerate dal Malespini,​2 che nel 12 secolo possedevano il contado fiorentino e le adiacenze dell'Arno, senza avere da principio investitura né titolo. Di queste le più potenti, nei Valdarno i Pazzi, e i da Ricasoli nel Chianti, ambivano esercitare dal loro castelli una sorta di sovranità locale; ma quelle che avevano minori possessi e più vicini, bentosto discesero come i Cerchi, i Buondelmonti ed altri molti, ad abitare nella città. Il Malespini distingue quelle famiglie che avevano tenute e castella, e quelle che inoltre avevano masnadieri: queste (gli Uberti, i Lamberti), e le famiglie tutte feudali dei conti Guidi, degli Alberti, degli Ubaldini, dal nome appariscono di tedesca origine, e furono ghibelline. Vengono poi quelle famiglie che, sorte nella città, e quivi arricchite pei traffici, si aggregarono alla nobiltà nel 13o secolo; erano i Bardi, i Frescobaldi, i Mozzi: queste, che avevano come guelfe partecipato alla libertà, ma non soffrivano l'eguaglianza, furono poi nel 14o dal popolo assalite per cittadina battaglia nelle stesse loro case, come altre ne' castelli. Né dopo quel tempo sorsero altre famiglie popolane.

b Già era 'l Caponsacco nel mercato Disceso giù da Fiesole, ecc.3 Qui non vogliamo noi contradire a ciò che venne affermato dal dotto amico nostro signor Repetti nel bell'articolo sopra Fiesole.​4 Questa città smantellata, ma non disfatta però nella difesa che i Goti fecero contro all'invasione de' Greci, era pur tale, assai tempo, dopo, di contrastare a Firenze; e il disfacimento di Fiesole poté avvenire verso il 1010, e la rôcca essere abbattuta nel 1125, dopo di che ne discesero le più potenti famiglie.

c Faccian i ghibellini, faccian lor arte ecc. Par. 6, 103.

d Nel proemio alla nov. 8a della giornata 10a si allude scherzando all'essere una delle sette gentildonne di famiglia ghibellina.

e Il Niccolini (Discorso della parte che ha il popolo nella formazione d'una lingua, Fir. 1816) avea mostrato la differenza tra lingua e linguaggio, e come la così detta lingua illustre, la lingua dei dotti, altro non fosse che un linguaggio.

f "Chi vuole parlamento, vuole guastamento": era in Firenze antico proverbio.

g V. il Dialogo Del piacere onesto, che fece a molti letterati fiorentini non piacere la Gerusalemme.​7

h V. le Storie dell'Ammirato all'anno 1308.

i Tra il Potestà e il Capitano e l'Esecutore degli ordini di giustizia (il quale però doveva essere di plebe) menavano seco un accompagnamento d'oltre a dugento persone, tra giudici e notai e armigeri e donzellii ecc. (Statut. Fiorentin. lib). A tutti costoro si vogliono aggiungere i capitani e soldati di ventura, per lo più signori e clienti di signori, nelle cui mani si commettevano quelle repubbliche disarmate, in ogni caso di guerra. Questi, che non appartenevano ad alcuno stato, gli logoravano tutti; e quanto erano pericolosi ai governi che gli adopravano, e alla libertà nemici, tanto potevano alla comun salvezza recare una volta quasi un disperato rimedio. Molte grandezze municipali cadevano a terra, se le armi sforzesche e le braccesche si fossero unite; ma i Francesi non avrebbero, col gesso in mano, mostrato agli altri le vie d'Itali.​8 Ed il Machiavelli consigliava bene, quando egli scrivendo al Guicciardini (15 marzo 1525), metteva innanzi Giovanni de' Medici, al quale voleva si facesse in quegli estremi rizzare una bandiera di ventura per far guerra dove gli venisse meglio, e a danno di chi si fosse.​9

j Vedi intorno al Machiavelli due molto pregevoli articoli pubblicati dal signor professore Andrea Zambelli nel Politecnico di Milano.​11


Note dell'editore:

1 La famosa pace del 25 giugno 1183. Formalmente, essa non si presenta come un atto di pace fra pari, ma come una serie di concessioni dell'imperatore Federico I Barbarossa alle città della Lega lombarda: Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma, Piacenza e, condizionalmente, Ferrara. Ma delle concessioni beneficiarono anche le città che, in quel momento, si trovarono a parteggiare per l'imperatore o si erano a lui piegate: Pavia, Cremona, Crema, Tortona, Asti, Cesarea (ossia Alessandria), Genova e Alba.

2 Nella Cronaca, cap. LX. Quando il Capponi scriveva P. Scheffer Boichorst (1874) non ancora era uscito a contestare l'autenticità della Cronaca di Ricordano Malespini. Ora si inclina a tornare alla valutazione tradizionale (v. specialmente gli studi di R. Morghen, nel "Bullettino dell'Istituto storico italiano" nn. 40 (1920), 41 (1921) e 46 (1930), a quella tradizione, cioè difesa poi dal Capponi stesso, con molto buon senso e urbanità, in un Appendice al I vol. della sua Storia della Repubblica Fiorentina.

3 Dante, Parad. XVI, 121‑122.

4 Nel Dizionario geografico fisico storico della Toscana, II, Firenze, Tip. A. Tofani, 1835, pp107‑124. Il Repetti aveva cercato di dimostrarvi che dopo l'espugnazione di Fiesole da parte dei Bizantini, nel 539, l'importanza militare, politica, amministrativa della città fosse scesa quasi a nulla e Fiesole stesse già quasi confondendosi con Firenze.

5 Pare che qui il Capponi si riferisca all'opera del Romagnosi, Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia, dove tutto un capitolo (il VII della parte II) è dedicato all' "ordine inverso dell'italica ristaurazione"; solo che il Romagnosi non lo riferisce alla vittoria dei Guelfi, ma genericamente, ai comuni cittadini italiani, nei quali, prevalendo ab initio le attività industriali e commerciali sulle agricole, sarebbe stato invertito l'ordine naturale del progresso. "Essi cominciarono dal ramo industriale e commerciale per giungere al territoriale. Essi dunque ripigliarono l'incivilimento in ordine inverso. In quest'ordine trovarono i più gravi ostacoli che poterono bensì attenuare, ma che non permisero mai di raggiungere le radici naturali e salde del civile ordinamento" (v. per es. edizione di Milano, Silvestri, 1839, pp286‑287).

6 Allusione ai primi quattro notissimi versi della canzon Italia mia, Ben che 'l parlar sia indarno e all'altra: Spirito gentil che quelle membra reggi.

7 Tasso: Dialoghi, ed. C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1858‑59, I.

8 "Guerra del gesso" fu detta la facilissima e quasi incruenta spedizione di Carlo VIII re di Francia per la conquista del regno di Napoli, fra il settembre del 1494 e il maggio del 1495; guerra "così vergognosa, che i contemporanei la disser fatta col "gesso" dei forieri i quali segnavano gli alloggi francesi di tappa in tappa" (C. Balbo, Sommario della Storia d'Italia, libro VII, § 3).

Nota di Thayer: Machiavelli, Il Principe, XII, 3: "Onde è che a Carlo Re di Francia fu lecito pigliare Italia col gesto".

9 Lettere familiari di N. Machiavelli, pubblicate per cura di Edoardo Alvisi, Firenze, Sansoni, 1883, lettera CCIV, p480. Da avvertire che la data riferita dal Capponi segue lo stile fiorentino e corrisponde al 15 marzo 1526.

10 Il Savonarola nelle prediche sopra Aggeo, tenute nel dicembre del 1494, e nel Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, libro III, cap. I (v. G. Schnitzer, savonarola, trad. di E. Rutili, Milano, Treves, 1931, I, 232); e Donato Giannotti, fra gli scritti anteriori alla caduta della Repubblica, nel dialogo Della repubblica de' Viniziani, che è del 1526, e nel Discorso sopra il fermare il governo di Firenze l'anno 1527 indiritto al Magnifico Gonfaloniere di giustizia Niccolò di Piero Capponi in Opere politiche e letterarie, ed. da F. L. Polidori, Firenze, Le Monnier, 1850, II, 3‑173 e I, 2‑15).

11 Alcune considerazioni sul Libro del Principe di Macchiavelli (sic!) del dott. Andrea Zambelli, professore di scienze politiche nell'I. R. Università di Pavia, nel "Politecnico" del Cattaneo, III (1840), pp431‑461 509‑534.


Nota di Thayer:

* Senza l'articolo nella "Noterella bibliografica", p38:

Firenze e Italia. Il titolo è nostro. Il testo originario non ha alcun titolo, perché è, semplicemente, una lunga nota (a cui abbiamo tolto il principio e la fine, qui non pertinenti), apposta a un documento e pubblicata in "Archivio storico italiano" I (1840), 349‑359.º


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Pagina aggiornata: 9 Ott 21